Debiti illegittimi, diritto all'autonomia

Note sull'approvazione del bilancio e sullo stato finanziario degli enti locali

10 / 4 / 2017

Una nota di Eleonora De Majo, attivista di Insurgencia e consigliera comunale eletta nella lista DemA, sull'approvazione del bilancio del Comune di Napoli e sullo stato finanziario degli enti locali.

Il comune di Napoli, si appresta, di qui a dieci giorni,  ad andare in aula per discutere e approvare il bilancio di previsione. Nessuno,  a partire dal sindaco, nasconde l'estrema difficoltà in cui oggi versano le casse dell'ente, né sminuisce il valore delle giuste rivendicazioni di chi vorrebbe che la “città ribelle” si sostanziasse sempre  più di avanzati esperimenti amministrativi volti a migliorare le condizioni materiali dei cittadini e delle cittadine, per i quali servirebbero innegabilmente ingenti risorse da investire innanzitutto nelle politiche sociali e occupazionali.

Tuttavia le criticità di oggi hanno una genesi e un contesto che vanno tenuti in estrema considerazione. Senza di essi non si comprenderebbe perché governare gli enti locali di prossimità  oggi in tutta Italia ed in particole al sud,  significa affrontare una sfida fittizia e pilotata  tra sopravvivenza e sconfitta, tra mediazione e dissesto, tra gestione del disastro e rinuncia.

Quello che al tempo della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio e dell'approvazione del fiscal compact i movimenti sociali denunciavano come la crisi irreversibile delle autonomie locali e la cessione della totale sovranità dei territori nelle mani dei governi centrali, oggi è di fatto una amara realtà, con cui siamo quotidianamente costretti a fare i conti. Non esiste comune italiano di medie o grandi dimensioni che non ha dovuto negli ultimi anni affrontare il pesa del taglio indiscriminato dei trasferimenti, o della trasformazione delle regole contabili o ancora  (dove ci sono) delle ferree norme e restrizioni imposte dai piani di riequilibrio.

Di certo è però altrettanto vero che, seppure la difficoltà è diffusa e comune, la centralizzazione del potere nelle mani del governo permette un ruolo dell'arbitrio legato alla filiazione politica che si traduce nel fatto che gli enti locali che “godono” di buoni uffici a Roma riescono ad avere un po' meno difficoltà di quelle affrontate da quei comuni,  tra cui c'è sicuramente quello napoletano, che sono governati da forze politiche radicalmente invise al partito democratico e non garantite neppure da rappresentanze parlamentari.

Oggi, è inutile negarlo, il nostro bilancio patisce l'incrocio di tutte queste situazioni e si delinea come un documento che più che pianificare la spesa, prova a fatica a far quadrare conti e numeri  per evitare il baratro del dissesto. C'è poco più di un sospiro di sollievo da allegare al documento e forse un solo briciolo di soddisfazione per il fatto di essere riusciti  garantire proprio al welfare  qualcosina in più del bilancio passato, dentro una situazione comunque disastrosa.

Viene quasi da ridere di un riso amaro a sapere che alle difficoltà già immense che hanno caratterizzato l'approvazione dei predenti bilanci, oggi si aggiungono ad esempio  l'aumento del fondo di svalutazione crediti voluto dal governo,  che ci ha imposto di dover accantonare ulteriori 45 milioni di euro o  gli ultimi 15 milioni di euro di tagli ai trasferimenti ad opera di quel governo che aveva assicurato a gran voce la fine della stagione delle mortificazioni ai danni degli enti locali. Va sottolineato, sempre per dare un'idea complessiva della tenaglia nella quale è stretto chi deve amministrare oggi gli enti locali, che nel caso di Napoli, in sei anni, l'assessore al bilancio stima un taglio complessivo dei trasferimenti per  circa 1 miliardo di euro. Soldi che prima c'erano e  servivano per garantire servizi e gestione quotidiana della vita cittadina e che un po' alla volta sono semplicemente spariti.

Tutto questo senza considerare quella che è la più drammatica voce dell'impoverimento del bilancio dell'ente e che è chiaramente  quel debito che noi chiamiamo illegittimo e che in questi anni è diventato invece  relazione sovrana   nella crisi,  mantra della finanza, signore del ricatto che colpisce trasversalmente qualunque istituzione pubblica  e qualunque esistenza privata.

A partire dal primo anno di insediamento dell'amministrazione de Magistris  a Napoli (2011) ammontano a  circa 800 milioni le risorse  che abbiamo devoluto allo Stato che vantava nei nostri confronti crediti relativi ai commissariati straordinari, ai quali oggi si aggiungono i circa 40 milioni di euro sempre relativi al  commissariato straordinario dell'emergenza rifiuti del 2008  (UTA)  e gli ormai celebri 80 milioni del Cr8 (consorzio ricostruzione 8), un ulteriore odioso debito, che oggi blocca la cassa del comune, relativo al commissariato straordinario del terremoto dell'ottanta il cui pagamento spetterebbe quasi del tutto al governo centrale, che però  si ostina a fare orecchie da mercante al cospetto della nostra legittima richiesta  di aiuto. Un debito, questo di cr8, che se “aperto” scopriamo per altro essere composto quasi del tutto dall'accumulo di interessi bancari sulla somma iniziale.  Uno scandalo nello scandalo se pensiamo che è proprio questo blocco della cassa per 80 milioni di euro ad averci fatto effettivamente rischiare il dissesto.

Le riflessioni da fare sarebbero infinite.

La prima, la più semplice forse, attiene all'illegittimità della nostra posizione di debitori nei confronti di chi ci chiede con gli interessi  risorse che  furono utilizzate proprio da quel dispositivo di potere  commissariale che tanto male ha fatto alla nostra terra e che oggi , basti vedere il caso Bagnoli, questa amministrazione rifiuta radicalmente.  Piuttosto vanteremmo dei crediti nei confronti del governo se i veleni imposti sotto i nostri terreni utilizzando il dispositivo emergenziale o la speculazione edilizia post-terremoto potessero essere monetizzabili. Ma purtroppo la bellezza e la salute sfuggono ai numeri e alla quantificazione in denaro per cui  anche se nessuno probabilmente pagherà mai abbastanza per quello che la Campania ha subito sotto tutti i commissari straordinari, ciò non toglie che però,  scongiurato questo ennesimo baratro nel quale qualcuno sperava di far precipitare la città, forse sarebbe il caso di aprire, magari insieme con altre città europee che hanno vissuto situazioni più o meno simili, una riflessione seria sull'illegittimità del debito e sulla rivendicazione della rottura dei vincoli con le gestioni commissariali, volute e imposte dai governi centrali sulla testa dei cittadini.

Non è possibile che ricadano oggi sulla collettività i costi di scelte prese, anni fa, a Roma, delle quali noi abbiamo semplicemente pagato le amare conseguenze. La natura del debito dovrebbe essere quella di un accordo tra due parti formulato sulla base di una anticipazione monetaria fondata sulla fiducia.

In questo caso la città di Napoli, soprattutto dopo trent'anni, non si riconosce in nessun caso nella posizione di uno dei contraenti dell'accordo che pure paghiamo.

La seconda  riflessione attiene  alla natura più complessiva della trasformazione dello statuto di cittadinanza nella direzione della finanziarizzazione  e della mercatizzazione dello stesso.

Potremmo definire, con un amaro gioco di parole,  debito di cittadinanza   quella relazione di eterna e costituiva mancanza dei soggetti privati e collettivi nei confronti dei detentori di una sorta di  credito infinito, relazione  che il neoliberalismo ha imposto come forma prevalente del legame economico-sociale contemporaneo e che oggi a Napoli si delinea plasticamente ai nostri occhi nelle vicende fin qui trattate.

La cifra stratosferica che corrisponde alle risorse che abbiamo fino ad ora pagato per onorare i debiti dei commissariati è una cifra che negli ultimi sei anni  avrebbe potuto essere investita nei servizi, nelle politiche sociali, nel miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini invece di diventare linfa  dei circuiti impazziti della speculazione finanziaria, dei circuiti di debito-credito che legano assieme i comuni, lo stato e le banche. Cosa ha finito per  pagare questa deviazione delle risorse verso il creditore di turno è intuitivo: lo statuto di  cittadinanza, vale a dire il fascio di diritti  e doveri che caratterizza la relazione binaria del  patto sociale. Il comune certo non è lo Stato, non è il primo sottoscrittore del patto di cittadinanza,  ma spesso si trova a rappresentare la sua interfaccia sui territori e a diventare  corresponsabile dello sfilacciamento della cittadinanza sociale e dell'assottigliamento  del ruolo del pubblico nella garanzia dei servizi e dei diritti, lasciando  campo libero alla forma contemporanea della cittadinanza, che è quella in cui benessere, libertà e servizi  primari si contrattano, invece che con le istituzioni direttamente sul mercato speculativo e finanziario.

In questo contesto non è cosa affatto scontata aver mantenuto pubbliche , pure a costo di scelte dolorose,   le società partecipate, soprattutto per un ente in così gravi difficoltà finanziarie, perché abbiamo fatto esperienza, osservando buona parte delle città della mittel  Europa neoliberale,  di come la privatizzazione di tali settori comporta un immediato aumento delle tariffe e delle soglie di accesso spesso non più sostenibili senza ricorrere allo strumento del credito.

Mantenere tutto pubblico vuol dire scegliere di non alimentare quel processo di accumulazione di ricchezza sulla vita che si sviluppa quando l'accesso ai diritti basilari diventa monetizzato. Significa banalmente scegliere di non piegarsi al circuito della sostituzione della cittadinanza con la speculazione.

Per cui quella che questa città in debito pratica quotidianamente nei confronti delle regole dell'economia è una eroica resistenza, che non può non passare anche per forme più o meno radicali di disobbedienza ai governi e agli organismi contabili.

Bene ha fatto in questo senso il Sindaco ad avvisare Il Presidente del Consiglio in carica che, pur se non avremo l'autorizzazione, utilizzeremo lo stesso le risorse dell'avanzo libero della città metropolitana per mettere in sicurezza il nostro territorio.

Bene abbiamo fatto ad assumere i 314 lavoratori di Napoli Sociale nonostante il parere contrario dei revisori.

Bene abbiamo fatto a sforare il patto di stabilità per assumere le maesetre e garantire il diritto all'istruzione.

Sono cose che sanciscono non solo la scelta del rispetto della costituzione a scapito delle regole imposte dal mercato e dalla troika, ma che sottolineano che qui c'è ancora chi antepone la vita e i diritti, alla moneta.

E però tutto questo non basta.

L'approvazione di questo doloroso bilancio deve diventare occasione per la città per capire che questo sacrosanto sentimento di orgoglio e di riscatto che le scorre da qualche tempo finalmente nelle vene deve tradursi nella rivendicazione di risorse e stabilità nei confronti del governo centrale.

Chi si è assunto la responsabilità di votare tutte le contro-riforme che hanno ridotto le autonomie locali ad appendici romane  è un nostro nemico, è nemico di tutte le città che hanno a  cuore autonomia e democrazia.

Senza questa presa d'atto e senza l'organizzazione di una grossa mobilitazione della città nei confronti del governo  potremo non resistere troppi anni ed è un destino che Napoli non merita.