Dall'Irpinia all'Abruzzo : I terremotati a Sud tra potere e resistenza

di Francesco Caruso

19 / 11 / 2010

Era il 23 novembre 1980 quando la terra scosse in Irpinia e da allora continuiamo ad andare avanti di emergenza in emergenza.
E’ questa la caratteristica governamentale del nostro meridione, dai tribunali speciali della legge Pica alle sempreverdi leggi speciali contro la mafia, il commissariato straordinario per il terremoto in Irpinia si
inscrive in perfetta continuità con la storia politica e sociale del nostro sud.
Finita l'emergenza colerica del 1974, arrivò il terremoto: dalle macerie dei paesi sventrati dell'Alta Irpinia sgorgò un fiume infinito e incontrollato di denaro pubblico che finì non solo e non tanto nelle casse
dei 687 comuni dichiaratisi poi man mano terremotati, ma soprattutto nelle tasche una classe politica e imprenditoriale parassitaria che, come ai tempi del colera, consolidò il suo potere, le sue connivenze criminali e la sua fortuna sulle disgrazie altrui.
Poi madre natura si acquietò per troppo tempo, e allora questa volta la disgrazia e il disastro ambientale toccava costruirselo da sé: non ci volle molto. I cassonetti dei rifiuti iniziarono a tracimare.
Schmitt sembra annunciare “l’eterna resurrezione di Gesù Cristo nel meridione, quando circoscrive lo stato di eccezione per la giurisprudenza ad "un significato analogo al miracolo per la teologia".
Forse il giurista principe del Terzo Reich non era a conoscenza dell’eterno miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro ma soprattutto come nel meridione si sia progressivamente accentuato nel
corso degli ultimi 150 anni lo “stato di eccezione” come paradigma di governo dominante, a partire dalla costruzione stessa della presunta questione meridionale.
Lo stato di eccezione si presenta in questa prospettiva come una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo, tra interessi pubblici e affari privati, nella quale dall’alto si articola nella concentrazione dei
poteri dentro le tipologie costitutive dello stato d'eccezione, dal basso nella restrizione delle libertà e delle garanzie formalmente riconosciute.
Il verticale accentramento verso l'alto dei processi decisionali che annulla e dissolve le articolazioni amministrative e periferiche dei poteri, ben presto fagocita e polverizza ogni istituzione altra da sé: qui
non c’è spazio per complessi e ingegneristici sistemi di governante multilivello, ma una matrice governamentale di controllo discrezionale del potere che disvela la sfida tra assoggettamento e resistenza, tra elitè e subalterni, senza particolari spazi di mediazione.
Dopo il terremoto in Irpinia l’esercito ritorna ad essere un attore politico determinante per la tenuta di un ordine discorsivo dominante fondato sulla presunta neutralità operosa nella mimetica:oggi non spara
più come per più di un secolo ha fatto assassinando i giovani renitenti alla leva quinquennale dei Savoia o ai braccianti in lotta per la riforma agraria nel dopoguerra, ma si muove sul terreno della comunicazione
politica.
L'uso dei militari cerca di coprire un vuoto di legittimità prim'ancora che di consenso, cerca di coprire lo spazio vuoto di diritto che intercorre tra la norma che vige, ma non si applica non avendo più
«forza», e gli atti che non hanno valore di legge ma ne acquistano la «forza», uno spazio vuoto sul quale le istituzioni e il governo accampano con arroganza la pretesa di stare ancora e sempre dalla parte della legge pur violandola e stuprandola sistematicamente.
L’emergenza terremoto in Irpinia, l’emergenza rifiuti in Campania, l’emergenza mafia nel sud, lemergenza in Abruzzo: dietro la falsa e ingannevole "neutralità operosa" della mimetica, c’è sempre il tentativo
di occultare dietro l'ombra minacciosa dei mezzi militari, il fallimento,la corruzione e il degrado che ha contraddistinto l'ordinaria gestione straordinaria del mezzogiorno.
Ma quando il re indossa la mimetica e l'elmetto, in verità egli è completamente nudo: l'ostentazione dello stato di crisi e d'eccezione permanente, mostrando la sovranità nella sua forma elementare e fondativa,
con gli abiti cioè del monopolio dell'uso legittimo della forza, mette a nudo la relazione nascosta che lega violenza e diritto.
Il fantasma della ribellione sociale che si aggira nelle terre del sud è il vero nemico da combattere.
Oggi  in Abruzzo, a Terzigno, ieri in Irpinia; la sfida aperta tra biopolitica e biopotere diventa certamente più accentuata nelle punte più estreme e nelle fasi più acute dello stato di eccezione, disvelando in
modo particolarmente limpido la sua matrice disciplinare di controllo e dominio: e infatti le scosse telluriche hanno sempre contribuito, fin dai tempi del terremoto di Reggio del 1908, a disoccultare ed accentuare i meccanismi di accaparramento, saccheggio e spartizione nell’intreccio foucultiano tra sicurezza-territorio-popolazione, ma ha anche scoperchiato e accentuato il vento di ribellione sociale che infatti esplose nei mesi immediatamente successivi al terremoto in Irpinia.
La memoria rimossa delle lotte sociali del dopoterremoto è il punto sul quale dobbiamo volgere la nostra attenzione: un fiume infinito di inchiostro, di inchieste, di studi hanno focalizzato l’attenzione sui
meccanismi perversi della shock-economy in salsa napoletana, delle violenze e le prepotenze dei poteri eccezionali, la sua matrice autenticamente criminale, mentre restano nello sfondo, nel ricordo sempre
più sbiadito dei protagonisti e nel sempre più difficoltoso reperimento di fonti primarie e secondarie, l’ondata di protagonismo sociale che esplose e accompagnò quei movimenti tellurici.
Le lotte metropolitane dei disoccupati organizzati nei primi anni ottanta, il movimento delle occupazioni di case in Campania, le battaglie dei senza tetto, ma anche il fiorire nei contesti rurali, nel cratere del terremoto, dei comitati di lotta dei terremotati, sono un giacimento immenso di ricchezza, in termini di memoria sociale, che bisogna con cura riannodare e ritrovare in occasione di questi anniversari, come il trentennale del terremoto, prima che vadano definitivamente dispersi.
E’ la storia dei subalterni che le elitè egemoni cercano di cancellare o sussumere dentro gli ordini discorsivi dominanti, il più fastidioso di tutti certamente rinvenibile in quell’atteggiamento postcoloniale che a
distanza di trent’anni continua a raccontare e celebrare, come anche in questi giorni avviene in Irpinia, l’impegno sociale e politico in quelle terre martoriate sempre e solo dal punto di vista della pur encomiabile solidarietà accorsa da ogni angolo dell’Italia, rimuovendo invece il protagonismo sociale diretto e autorganizzato di quelle comunità che, nella devastazione del loro territorio, ritrovarono la forza e la percezione della loro potenza sociale.
Di quello non c’è più traccia nella storia ufficiale, nei resoconti giornalistici, nelle celebrazioni istituzionali ed è invece questo il filo rosso che dobbiamo riannodare, non tanto per ricordare nostalgicamente un
importante stagione di lotta che ha attraversato i nostri territori, ma per portare il 20 novembre a L’Aquila, alla manifestazione dei comitati dei terremotati abruzzesi, l’estrema attualità di una resistenza dei
subalterni che malgrado 150 anni di dominio postcoloniale, ancora non china il capo e, in Irpinia ieri e in Abruzzo oggi, non si rassegna passivamente alla dominazione e al silenzio.