Dall’ambientalismo operaio alla giustizia climatica: la sfida della convergenza, oggi

7 / 2 / 2023

L'ultimo numero dei Quaderni della Fondazione Feltrinelli, intitolato "Un piano per il futuro della fabbrica di Firenze: Dall’ex GKN alla Fabbrica socialmente integrata”, pubblica il piano di conversione dell'Ex GKN di Campi Bisenzio per la creazione di un Polo Pubblico per la Mobilità Sostenibile, preparato dal Collettivo di Fabbrica GKN e dal gruppo di ricerca solidale GKN. La vertenza GKN – ancora aperta dopo un anno e mezzo di occupazione della fabbrica – ha segnato una svolta nella storia del movimento operaio e dell’ambientalismo. Ha dimostrato che è possibile, nella nostra epoca di crisi permanente, creare piattaforme rivendicative in grado di generare grandi mobilitazioni attraverso la ricomposizione tra luoghi di lavoro e territori, chiedendo trasformazioni della produzione verso la demercificazione e la sostenibilità, redistribuzione della ricchezza e riduzione dell’orario lavorativo. Insomma, una transizione ecologica dal basso. In vista della presentazione del volume che si terrà il 15 febbraio al Cs Django di Treviso, ne proponiamo qui la postfazione.

Introduzione: il fallimento della transizione ecologica dall’alto

A partire dai grandi scioperi per il clima del 2019, e ancor più dopo la presa di coscienza delle cause ambientali della pandemia di COVID-19, sembra che la transizione ecologica sia ovunque. Se l’Unione Europea ne fa la pietra angolare della propria strategia di rilancio, il Governo Draghi le aveva dedicato addirittura un ministero ad hoc, nuovo di zecca. Un entusiasmo facilmente smorzabile con una rapida ricognizione storica. Infatti, è per lo meno dal 1992 – anno del famoso Summit della Terra di Rio de Janeiro – che, sotto l’egida delle Nazioni Unite, i Paesi partecipanti legiferano all’interno di una strategia che possiamo definire di transizione ecologica dall’alto. L’idea-forza che la sorregge è tanto semplice quanto dirompente: non è vero, come si era pensato in precedenza, che protezione ambientale e crescita economica si escludono a vicenda, tutt’altro: la green economy propriamente intesa è in grado di internalizzare il vincolo ecologico non più come ‘blocco’ dello sviluppo capitalistico, bensì come ‘fondamento’ di un nuovo ciclo di accumulazione.

Focalizzando lo sguardo sul governo del clima, la traduzione di tale idea-forza è la seguente: benché il riscaldamento globale rappresenti un fallimento del mercato, che non ha saputo contabilizzare le cosiddette con “esternalità negative”, l’unico modo per farvi fronte è l’istituzione di ulteriori mercati su cui dare un prezzo – e scambiare – varie tipologie di “merci-natura”, per esempio la capacità delle foreste di assorbire CO₂. Non si tratta di incursioni nell’iperuranio dell’astratta teoresi: i meccanismi flessibili che mercificano il clima, istituiti dal Protocollo di Kyoto nel 1997 e rilanciati dall’Accordo di Parigi nel 2015, sono tuttora il principale strumento di politica economica utilizzato dalla Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici dell’ONU.

Fin dall’inizio, la promessa di questa transizione ecologica applicata al riscaldamento globale era ambiziosa ed esplicita: la ‘mano invisibile’ del mercato saprà ridurre le emissioni di gas climalteranti e, allo stesso tempo, garantire alti margini di profitto.

Ora, non c’è dubbio che un quarto di secolo sia un lasso di tempo più che sufficiente per valutare la bontà di una politica pubblica, a maggior ragione se si parla di crisi ecologica e si accetta l’ovvia considerazione che vi sia urgenza di agire con efficacia. Chiediamoci dunque: sono diminuite le emissioni?

grafico

Fonte: Global Carbon Project1.

Questo grafico risponde con eloquenza: no.

Sulle ragioni di questa débâcle si è molto discusso. Ecco alcune ipotesi al vaglio: eccessiva “generosità” nell’assegnazione delle quote, informazione imperfetta, onnipresenza di fenomeni corruttivi, difetti di concezione, regolazione insufficiente. Rimane però il fatto che il risultato – ciò che più conta – sia lampante: mettere il mercato al centro della politica economico-climatica non conduce a una riduzione delle emissioni, le fa aumentare ulteriormente. Un fallimento senza appello. Ed è a partire da questa consapevolezza che possiamo porre, oggi, il tema della convergenza tra lotte sul luogo di lavoro e giustizia climatica2.

La radice operaia della lotta ecologista

Due avvertenze, prima di prendere di petto la questione. La prima riguarda il fatto che la transizione ecologica dall’alto può stabilire una compatibilità – di più: un’affinità elettiva – tra protezione ambientale e crescita economica solo a condizione di relegare il movimento operaio, con la sua funzione sociale di contrasto alla disuguaglianza, dietro le quinte – o, peggio, nel ruolo di un attore refrattario al cambiamento in nome della salvaguardia di un posto di lavoro ecologicamente insostenibile. Il soggetto della green economy è l’imprenditore di sé stesso: sfrontato, illuminato, smart. La carica innovativa gli deriva infatti dall’indifferenza verso le pastoie dei corpi intermedi (su tutti, i sindacati) e le lungaggini della mediazione istituzionale, in particolare della pratica democratica. È per questo – seconda avvertenza – che si è inclini a pensare che le ragioni dell’ambiente e quelle del lavoro siano irrimediabilmente contrapposte. L’idea di fondo è che il ricatto occupazionale – “o la salute o la paga” – sia scritto nel destino dell’industria (si pensi per esempio alla tragedia dell’ex-Ilva di Taranto). Si tratta di un’interpretazione che ha trovato una sua legittimazione storiografica e che tuttavia è, se non del tutto falsa, certamente parziale; in ogni caso, per nulla innocente. Datare la politicizzazione diffusa delle questioni ambientali a cavallo tra anni Settanta e Ottanta – cioè dopo il grande ciclo di conflitti “fordisti” – è infatti un modo di interiorizzare la sconfitta della straordinaria stagione di lotte del cosiddetto Lungo Sessantotto, che aveva indicato nella democrazia economica la condizione necessaria per contrastare il degrado ambientale sui luoghi di lavoro, in particolare l’inquinamento di aria, suoli e acque, in certi casi eliminandolo del tutto.

A scanso di equivoci occorre precisare che è indubbio che tale sconfitta sia effettivamente avvenuta. Del fatto che fosse necessaria, invece, è lecito diffidare. Di più: il costante peggioramento delle basi materiali della riproduzione biosferica rende quanto mai urgente gettare un nuovo sguardo su quel passaggio storico. La marginalizzazione del movimento operaio, infatti, non ha certo portato con sé l’eliminazione della nocività industriale. Nonostante decenni di negoziati sul clima, negli ultimi trent’anni sono stati emessi più gas climalteranti di quanto non fosse accaduto dal XVIII secolo al 1990. Liberarsi del feticcio di una complicità tra ambiente e capitale apre lo spazio per (ri)annodare istanze ambientaliste, rivendicazioni sindacali e campagne di movimento. Questo è, in breve, ciò di cui si sente il bisogno, e che il Piano per un Polo Pubblico per la Mobilità Sostenibile esemplifica perfettamente. Su questo sfondo, tornare a interrogare i conflitti sulla nocività tra gli anni Sessanta e Settanta consente di mostrare come la questione ecologica sia diventata un problema propriamente politico grazie a, e non malgrado, l’azione conflittuale del movimento operaio.

È sulla scia di lotte durissime e innovative come quelle ai reparti verniciatura della Fiat, o negli stabilimenti chimici della Montedison, che il tema della salubrità dell’ambiente – prima in fabbrica, poi su tutto il territorio – si trasforma da questione tecnica riguardante i siti produttivi a posta in gioco politica della pratica antagonista sindacale e di movimento.

Possiamo utilizzare l’evocativo termine ambientalismo operaio per descrivere il costituirsi di un sapere di parte, focalizzato sul luogo di lavoro; quest’ultimo diventava un tipo particolare di ecosistema in quanto la classe lavoratrice ne faceva il suo habitat ‘naturale’ e finiva per conoscerlo meglio di chiunque altro. Non è un caso che i conflitti contro la nocività industriale siano i primi a sottoporre a critica feroce la cosiddetta monetizzazione della salute, l’idea cioè che un aumento salariale o uno scatto di livello potessero ‘compensare’ l’esposizione a sostanze inquinanti, talvolta letali. È sull’impossibilità di risarcire i danni inflitti alla salute operaia che figure centrali di quelle battaglie, come Ivar Oddone a Torino o Augusto Finzi a Porto Marghera, incentrarono una duratura azione militante, le cui tracce sono facilmente riconoscibili nella riforma sanitaria del 1978, che istituì il Servizio Sanitario Nazionale.

Due elementi importanti vanno aggiunti a questo quadro: il primo è che le lotte contro la nocività industriale non avrebbero avuto l’impatto dirompente che in effetti ebbero se non si fossero collegate ai più ampi conflitti che in quel periodo certificavano il protagonismo della riproduzione sociale, con riferimento al il pensiero femminista. Il secondo aspetto è che il movimento operaio non riuscì a esprimere una strategia univoca al riguardo: emerse piuttosto una tensione tra le prospettive di “redenzione” del lavoro salariato – sostenute per esempio da Bruno Trentin, al tempo segretario della FIOM, e dalla sinistra sindacale – e di “liberazione” dal lavoro salariato, fatta propria dalle organizzazioni operaiste come Potere Operaio prima e Autonomia Operaia poi. Crediamo sia ragionevole ipotizzare che l’incapacità di conciliare queste due opzioni attorno alla comune rivendicazione di una riduzione della giornata lavorativa a parità di salario abbia contribuito in modo determinante alla sconfitta di quel ciclo di conflitti. In luogo del potere operaio sulla composizione qualitativa della produzione si ebbe così la reazione – violentissima – del capitale: frantumazione del lavoro, smantellamento del welfare e finanziarizzazione accelerata, nonché, dal punto di vista ambientale, la transizione ecologica dall’alto che abbiamo tratteggiato più sopra.

Nel momento in cui tale strategia fallisce, però, la partita si riapre. La memoria delle lotte di cinquant’anni fa assume ora una nuova importanza e il tema della convergenza tra lotte sul lavoro e mobilitazioni per il clima e l’ambiente può tornare d’attualità.

“Convergere per insorgere” dentro e contro la crisi ecologica

La sconfitta dell’ambientalismo operaio del Lungo Sessantotto ci ha catapultato in un mondo di “deindustrializzazione” nociva, espressione con cui si indica la scomparsa di posti di lavoro nel settore manifatturiero in aree dove industrie significativamente dannose sono ancora in funzione. Secondo le stime recentemente aggiornate dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il tasso globale di occupazione nel settore manifatturiero è lentamente ma stabilmente declinato dal 15,6% nel 1991 al 13,6% nel 2021. Nello stesso periodo, le emissioni di anidride carbonica da combustibili fossili, che includono le emissioni da macchinari prodotti nel manifatturiero ma usati in altri settori e dai consumatori finali, sono aumentate da 23 a 36 miliardi di tonnellate annuali (si veda il grafico presentato nell’Introduzione). Inoltre, tra il 1991 e il 2018, le emissioni generate direttamente dall’industria sono passate da 4,4 a 7,6 miliardi di tonnellate annuali secondo il Climate Analysis Indicators Tool. Insomma, la logica del profitto ci ha portato sia a (relative) perdite di posti di lavoro nelle fabbriche, e alla precarizzazione che a tali perdite spesso si accompagna, sia all’aggravarsi della devastazione ambientale.

Le temperature senza precedenti, la siccità, i raccolti in calo, i ghiacciai che fondono e le morti per maltempo estremo che abbiamo visto nell’estate 2022 sono l’ennesima conferma di una situazione drammatica. Siamo dentro la crisi ecologica, e non solo come vittime degli impatti altamente disuguali della devastazione ambientale lungo linee intrecciate di classe, “razza” e genere su scala globale. Siamo dentro la crisi perché, nella nostra società, la sussistenza della classe lavoratrice deriva dal lavoro capitalista e di conseguenza la maggior parte delle persone dipende dalla crescita infinita della produzione di merci. Il ricatto occupazionale non riguarda dunque solo le grandi industrie altamente nocive: è invece una caratteristica intrinseca e trasversale del capitalismo, che si manifesta con intensità variabili in contesti diversi.

Per interrogarci su come rafforzare l’ecologismo dal basso, riteniamo utile aggiornare il metodo dell’analisi della composizione di classe lungo tre linee: 1) una concezione ampia di classe lavoratrice, definita dalla coazione alla vendita della forza-lavoro; 2) una concezione del lavoro che includa sia la produzione che la riproduzione; 3) una concezione degli interessi di chi lavora inclusiva sia del luogo di lavoro sia del territorio.

In primo luogo, consideriamo come parte della classe lavoratrice coloro che, non possedendo né gestendo i mezzi di produzione, vivono la coazione a vendere la propria forza-lavoro, sia essa impiegata per produrre merci o per riprodurre forza-lavoro. Questo a prescindere dal fatto che trovino o meno acquirenti stabili. Sebbene questa prospettiva escluda il ceto medio, a cui il capitale delega alcune responsabilità di gestione, essa è comunque più ampia delle anguste visioni dominanti; ampia abbastanza da includere le lavoratrici e i lavoratori disoccupati, riproduttivi, informali, cognitivi subordinati e para-autonomi.

In secondo luogo, seguendo la teoria femminista della riproduzione sociale, definiamo come lavoro capitalista tutte quelle attività – salariate e no, direttamente produttive e riproduttive - esplicitamente o invisibilmente subordinate all’accumulazione di capitale, a prescindere dal settore economico. Infatti, la classe viene messa al lavoro sia nella produzione di merci (lavoro direttamente produttivo) sia nella creazione e “manutenzione” non direttamente mercificata di una forza-lavoro impiegabile dal capitale (lavoro riproduttivo). La distinzione tra lavoro direttamente produttivo e lavoro riproduttivo è determinata dalla “frontiera della mercificazione”, non dai diversi tipi di attività concrete in cui esso viene impiegato3.

Infine, vediamo come interessi della classe lavoratrice istanze relative sia al luogo di lavoro sia al territorio. Anche la distinzione tra luogo di lavoro e territorio non è basata su separazioni fisiche ma su relazioni sociali: il primo è la sfera dei “soggetti-come-produttori-o-riproduttori”, mentre il secondo è la sfera dei “soggetti-come-riprodotti4”. Gli interessi della classe lavoratrice sono spesso concepiti come incentrati sul luogo di lavoro (posto sicuro, alti salari, salute e sicurezza, ecc.). Senza dubbio, una redistribuzione della ricchezza attraverso più salario per meno orario aiuterebbe a superare il dilemma ambiente-lavoro, riducendo il bisogno stesso di creare e mantenere nuova occupazione. Ma in ogni caso, le lavoratrici e i lavoratori non svaniscono dopo aver abbandonato i luoghi di lavoro. Al contrario, ritornano ai propri quartieri, respirano l’aria fuori dalle fabbriche e dagli uffici, godono del proprio tempo libero mettendosi in relazione con le ecologie che li circondano. Gli interessi di classe, dunque, non riguardano solo i diritti nei luoghi di lavoro ma anche quelli nei territori (prezzi dei beni di consumo, strutture del welfare, ecologie salubri, ecc.).

La tripla espansione concettuale di classe lavoratrice, lavoro e interessi di classe qui proposta intende superare le prospettive che rafforzano il ricatto occupazionale. Infatti, se il lavoro “vero” è solo quello salariato e industriale, e di conseguenza la classe “vera” è più che proporzionalmente maschile (e, fino a poco tempo fa, bianca), e se i suoi “veri” interessi stanno prima di tutto nel conservare un determinato posto di lavoro così com’è, allora è impossibile scorgere una via d’uscita. Inoltre, l’impasse si approfondisce notevolmente se le mobilitazioni territoriali vengono lette come prive di ogni contenuto di classe – come se chi vive nelle zone popolari colpite da gravi ingiustizie ambientali non dovesse lavorare per vivere. Al contrario, una concezione ‘allargata’ dei concetti in questione rappresenta uno strumento efficace per la costruzione di alleanze tra segmenti di classe differentemente collocati nella matrice di potere classe-“razza”-genere.

 Nella teoria operaista, il modo in cui la forza lavoro viene organizzata e stratificata nel luogo di lavoro attraverso processi produttivi, livelli tecnologici, differenze salariali, catene del valore, ecc. costituisce la composizione tecnica della classe, il suo versante per così dire oggettivo. La composizione politica, invece, è data dalla misura in cui lavoratrici e lavoratori superano (o meno) le divisioni interne alla classe per imporre al capitale i propri comuni interessi. Si tratta del versante “soggettivo”, costituito da forme di coscienza, lotta e organizzazione. Seth Wheeler e Jessica Thorne hanno opportunamente proposto di aggiornare questa prospettiva aggiungendovi la composizione sociale della classe, ovvero le modalità in cui chi lavora si riproduce sul territorio, attraverso strutture residenziali, relazioni familiari, accesso al welfare. Il versante oggettivo della composizione di classe risulta dunque biforcato tra composizione tecnica (relativa al luogo di lavoro) e composizione sociale (relativa al territorio).

È così possibile analizzare come la classe sia segmentata anche rispetto al degrado ambientale. Per esempio, le comunità che vivono nei pressi di installazioni altamente inquinanti sono spesso più che proporzionalmente composte dagli strati più svantaggiati della classe lavoratrice, non necessariamente aventi ampio accesso ai posti di lavoro nelle fabbriche. Per queste persone la transizione ecologica al livello locale significherebbe una diminuzione dei tassi di tumore e di altre patologie. Per chi è direttamente impiegato nelle aziende inquinanti la situazione è diversa, seppur non necessariamente inconciliabile; in fin dei conti, in questo caso la transizione ecologica dall’alto rappresenta il rischio di dover accettare posti di lavoro più precari e meno remunerati.

La sfida di essere contro la crisi ecologica è dunque quella di rompere il ricatto creando convergenza tra le lotte sul luogo di lavoro e quelle sui territori. È questo un passaggio tutt’altro che automatico, perché la classe è appunto frammentata in configurazioni occupazionali e residenziali altamente variegate, dato oggettivo che troppo spesso alimenta divisioni tra sindacalismo come espressione degli interessi sul luogo di lavoro e ambientalismo come espressione degli interessi territoriali di classe. Si tratta invece di ricomporre queste segmentazioni a livello politico, costruendo piattaforme rivendicative volte ad articolare lotte sul luogo di lavoro e lotte territoriali.

Conclusione: La vertenza GKN e la transizione ecologica dal basso

La lotta del Collettivo di Fabbrica GKN è un passaggio cruciale nella costruzione di un’alternativa alla transizione ecologica dall’alto, la quale – non mettendo in discussione le fondamenta del sistema che ha prodotto la crisi – ha ben poco di davvero sostenibile. Riprendendo il filo rosso dell’ambientalismo operaio, il Collettivo ha infatti dimostrato nella pratica militante come la convergenza tra luoghi di lavoro e territori attorno alle parole d’ordine della giustizia climatica sia una strategia percorribile. Questo nuovo immaginario ha prodotto mobilitazioni di massa efficaci, in grado di alterare piani di ristrutturazione che altrove non hanno incontrato resistenze incisive. Si tratta di un processo che va al di là del destino della fabbrica stessa come dimostra chiaramente il comunicato congiunto con Fridays for Future che ha lanciato le grandi manifestazioni del 25-26 marzo 2022:

Una reale transizione climatica, ambientale, sociale non può prescindere dalla capacità della società di dotarsi di forme di pianificazione complessiva ed ecosostenibile. E tale pianificazione non si genera nel ricatto, nella gerarchizzazione dei luoghi di lavoro, nell’oppressione e repressione dei territori come succede da anni ad esempio in Val Susa, ma nel risveglio della democrazia partecipativa e rivendicativa5.

Queste parole centrano la dimensione sistemica del problema. La mercificazione, infatti, è un cuneo che divide la produzione capitalistica dalla riproduzione della vita e subordina quest’ultima alla prima. Il profitto non dipende solo dalla crescita infinita ma anche dalla capacità di produrre beni e servizi che troveranno acquirenti. Tuttavia, il consumo di mercato è intrinsecamente individualista e di breve termine, mentre la pianificazione democratica è collettiva e potenzialmente lungimirante. Il piano di conversione pubblicato in questo volume è esemplare di come tali orizzonti in apparenza lontani possano trovare, anche nell’attuale congiuntura politica avversa, sbocchi rivendicativi concreti: nazionalizzazione sotto il controllo operaio per la creazione di un Polo Pubblico per la Mobilità Sostenibile.

Accanto alla dimensione qualitativa della demercificazione, è necessaria anche la dimensione quantitativa relativa al salario e l’orario di lavoro:

Chiediamo di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario perché le quote di lavoro siano ugualmente redistribuite tra tutta la popolazione. È possibile lavorare meno e lavorare tutti, ed è un diritto che ogni lavoratrice e lavoratore, di oggi o di domani, dovrebbe rivendicare6.

Infatti, gli aumenti dei prezzi del cibo e dell’energia, che nel corso di quest’anno hanno già generato mobilitazioni di massa e rivolte in molti Paesi (Perù, Ecuador, Panama, Sri Lanka, Sierra Leone, ecc.), confermano che nessuna transizione ecologica sarà possibile senza redistribuzione della ricchezza su scala globale.

Ecco, in conclusione, gli elementi cardine di una transizione ecologica dal basso: demercificazione della produzione, riduzione dell’orario di lavoro, redistribuzione della ricchezza. La convergenza tra luoghi di lavoro e territori, di cui la vertenza GKN è esempio, sarà un elemento decisivo per le ampie mobilitazioni necessarie per arrivare a fine mese andando oltre la fine del mondo.

** Questo contributo è stato realizzato con l’appoggio della borsa di ricerca ECF-2020-004 della Leverhulme Trust.

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Note

https://ourworldindata.org/co2-emissions

2 Per giustizia climatica si intende una chiave di lettura che concepisce il riscaldamento globale come manifestazione della disuguaglianza sociale a livello planetario. Tale diseguaglianza può manifestarsi in due forme: tra Nord e Sud del mondo (chi meno ha contribuito a generare il problema, più ne subisce le conseguenze nefaste); tra le classi sociali che compongono le comunità politiche a livello nazionale o continentale (la responsabilità degli investimenti in combustibili non ricade allo stesso modo sulla popolazione: le classi dirigenti ne hanno di più, gli strati popolari di meno). La giustizia climatica delle origini - fine anni Novanta – poneva fortemente l’accento sulla prima forma. Dal 2019 in poi, tuttavia, lo sforzo è quello di articolare le due forme in una critica del ‘capitalismo fossile’ tanto geopolitica quanto sociale.

 Per esempio, il cibo è necessario alla riproduzione della forza-lavoro. Tuttavia, lavorare per un’azienda agricola è direttamente produttivo mentre coltivare per l’auto-consumo in un contesto capitalista è riproduttivo.

 In alcuni casi, uno spazio fisico rappresenta sia luogo di lavoro che territorio per le stesse persone. Per esempio, la casa è sia un elemento chiave del territorio che il luogo di lavoro del lavoro riproduttivo (e, nel caso del lavoro remoto, anche del lavoro produttivo). In altri casi, un certo spazio fisico è il luogo di lavoro di alcuni e un elemento territoriale per altri. Per esempio, un ospedale è il luogo di lavoro dei suoi dipendenti e uno spazio territoriale per i suoi pazienti.

  Collettivo di Fabbrica GKN e Fridays for Future, 2022, “25-26: una sola data”. Un ulteriore approfondimento della medesima consapevolezza lo si trova nel comunicato congiunto con Fridays for Future che chiama a una nuova data di convergenza tra lo sciopero climatico del 23 settembre e il corteo del 22 ottobre a Bologna: “La siccità, lo scioglimento di ghiacciai secolari, le ondate di calore sempre più intense, sono la drammatica conferma del cambiamento prodotto dal riscaldamento globale. Siamo nella costante lotta per arrivare a fine mese, contro il precariato, gli appalti, contro il carovita per un salario degno. Ma la lotta per arrivare a fine mese non ha nessun senso se non si vince quella contro la ‘fine del mondo’. Ed è impossibile coinvolgere fette crescenti della popolazione nella lotta contro la fine del mondo, se non le si carica della lotta di chi non riesce ad arrivare alla fine del mese”.

Ibidem