Riflessioni dopo il decennale di Genova

Da Genova...2011 la differenza per il comune

di Leandro Sgueglia

25 / 7 / 2011

Trentamila persone in piazza per ricordare quelle giornate, del luglio 2001, giornate di protagonismo moltitudinario ed altrettanta repressione. Trentamila persone in piazza di cui tante non hanno voluto celebrare un rito ma ritrovarsi e prender atto di un percorso politico durato per l’appunto un decennio.

   È stata una manifestazione pacifica, ma nell’immaginario continuano a scorrere migliaia di persone in corteo, cariche feroci della celere, corpi scagliati contro il potere, lo spauracchio dei black-block filtrato a mezzo propaganda mediatica.
Scene di 10 anni fa e scene di oggi. Vecchie scene in cui si contestava l’ascesa di un sistema economico-politico e nuove scene in cui si contesta la sua arroganza ostentata in una sua fase di declino. Immagini di resistenze e proposte alternative di una base che cerca l’emancipazione dalla subalternità. Immagini di testarda autoconservazione di un dominio che un decennio orsono cambiava pelle per perpetuarsi e che oggi fatica a trovarne un’ennesima per rigenerarsi.

   Son passati dieci anni dal 2001, l’anno dei due grandi raduni italiani per il movimento trans-contintale che si è opposto alla globalizzazione neoliberista dei mercati. Son trascorsi dieci anni da un 2001 che è rimasto di fatti il simbolo di quel “movimento dei movimenti” che iniziava già a coagularsi nell’ultimo lustro dei Novanta, per poi raggiungere nell’inizio del nuovo millennio l’apice, quel momento critico che rappresenta il punto di massima ascesa e il principio del successivo declino.

    Le pluralità che hanno animato le piazze e le vie di Seattle, Praga, Napoli, Genova, hanno subìto dunque velocemente la violenza di una gogna mediatica e giudiziaria ma anche quella di un risucchio culturale che ha cercato in maniera coatta di ridurle nell’angusta unità di un blocco monolitico, quello dell’antitesi unitariamente statica che la tesi, per superarla conservandosi, deve inghiottire nella sintesi del «day after tomorrow», il giorno dopo che ripristina la normalità successivamente all’evento, senza cancellare il nuovo antitetico e assorbendolo anzi in un equilibrio di forze. Un equilibrio di forze che ha un vestito nuovo ma che conserva il dominio di chi già lo esercitava.
Tuttavia c’è da chiedersi: quanto hanno potuto i traumi che hanno scritto la cronaca mondiale di quel movimento? Qual è stato l’effetto delle immagini, quelle della morte crudele di Carlo Giuliani ma anche quelle vetrine sovente rotte, vendute a buon mercato dal main-stream? Cosa sono riusciti a fare i tribunali? E il tentativo sistemico di fagocitare culturalmente l’eccedenza per ricomporla nelle viscere della ordinarietà? Tutto ciò ha potuto sicuramente dissaldare il collante della moltitudine che si era generata in quel momento storico, ma sarebbe stato impossibile l’oblio della necessità, dei desideri, delle gioie, degli slanci rivoltosi.
Le soggettività postmoderne possono subire una frammentazione per repressione e/o per riassorbimento, smettendo il movimento istantaneo, ma difficilmente possono essere inghiottite e digerite nei ventri dell’Impero finché questo resta il medesimo ed anzi acuisce le sue ingiustizie.

   Così key-words, parole chiave della critica al “sistema” che i «no-global» portavano forse con anticipo troppo largo, riemergono nel giro di pochi anni. Sono stati anni nel mentre dei quali l’immaginario collettivo rimaneva sospeso tra un colpo di coda del “movimento dei movimenti”, dato nella forma delle sue sedimentazioni (le varie reti strutturatesi e rimaste attive anche se spesso isolate negli anni immediatamente successivi alla fatidica data del 21 luglio 2001), e il riflusso politico.
Così key-words riassumono senso ed anzi si palesano in dinamiche immediate e date sui propri territori: non c’è più da denunciare le forze del capitalismo globale che abusavano delle terre di una remota landa in Sud-America o in Africa provocando la reazione degli indigeni, ma ci sono le industrie delle grandi opere e quelle dello “smaltimento-rifiuti” che iniziano a molestare terreni e comunità in Italia, d’avanti ai nostri occhi, nella Val di Susa, a Chiaiano di Napoli, nello stretto tra Villa S.Giovanni e Messina. Così key-words tornano imminenti nello smantellamento di ogni forma di diritto collettivo, quando il Neocapitalismo entra in una crisi strutturale e si rende più spudorato per conservarsi, sbarazzandosi dei dispositivi della “governamentalità” mediatrice del tardo-novecento, quella fatta di welfare, di sistemi pensionistici, di qualche servizio ancora ad accesso pubblico, di tutela dei lavoratori tramite il riconoscimento delle pur limitate forme della rappresentanza sindacale (assorbendone quelle che scendono a compromessi e confinando quelle che hanno cercato almeno di rimanere coerenti al proprio ruolo): insomma il disfacimento di un sistema pubblico che qui non pensiamo certamente fosse il caso di difendere per cristallizzarlo, in quanto autoritario, invasivo, consistente sicuramente in uno specchietto per le allodole dietro al quale si è celato per decenni il dominio reale dei potentati economici, ma che – venendo dismesso “dall’alto” – ha lasciato posto solo all’ulteriore asservimento di chi già era subalterno e soprattutto ad una povertà sempre più generalizzata, invece che l’emancipazione sperata. Ciò che accade è di fatto che il pubblico – degenerando un suo vizio evidentemente congenito – viene definitivamente svenduto come mero strumento di controllo al privato, quello delle elites che possono permettersi un privato ovviamente, un mastodontico intreccio d’interessi mafiosi e finanziari garantito da caste partitocratiche (in cambio del mantenimento dei propri privilegi) ed articolato in un “iper-sistema” sempre più istituzionalizzato, al punto da apparire illusoriamente cosa collettiva, tentando così di esautorare nell’impianto culturale ciò che è veramente interesse comune.

Ma le key-words tornano non solo nel lessico della denuncia di ciò che sta avvenendo ed anzi riemergono anche nel vocabolario della reattività politica delle soggettività sociali subalterne, delle loro pratiche di opposizione, dell’organizzazione del loro conflitto. Sono le parole di lotta e cambiamento delle migliaia di giovani francesi che nel 2006 scendono in piazza contro la CPE, portando a casa pure una parziale vittoria. Sono i lemmi di battaglia ed alternativa della popolazione susina e di quella napoletana che si scagliano contro la molestia che sta per degenerare in stupro dei propri suoli e della propria aria. Sono i termini di indignazione rivoltosa e trasformazione autonoma dell’«Onda» studentesca nonché della stagione di battaglie 2010/11 che vede in Francia, in Italia, in Germania, in Spagna ed in Islanda, nuove pluralità umane tessere un comune politico e valorizzarlo in dissenso e in proposta. Sono anche le voci di ribellione e ricostruzione che si sposano bene con quelle che vengono da altri percorsi, quelli che nel mediterraneo – nel Maghreb ed in Grecia con tutte le specificità del caso – nascono da una crisi economica più direttamente tangibile ed in alcuni casi (quelli del Nord-Africa) da regimi governativi dichiaratamente dittatoriali.

Senza forzare filiazioni quando è chiaro che ogni era ha i suoi cicli sociali, ma riconoscendo i frutti che si raccolgono nel tempo dopo la transizione ad un nuovo paradigma politico, bisogna leggere la continuità diacronica e diatopica. Il movimento che nasce a Seattle, ci ha mostrato per la prima volta matura-mente cosa fosse una moltitudine. Il che significa segnare il passo rispetto agli anni precedenti soprattutto sul modo di ricomporsi delle soggettività a partire dalle fasce subalterne di popolazione, laddove sono diventate inapplicabili le chiavi concettuali di popolo, massa e classe, non solo per la diversa stratificazione della società ma perché viene data una svolta nei termini dell’assunzione del paradigma politico della differenza. La moltitudine, proprio in quanto tale, inizia a narrarsi, dal movimento altermondista 99/2001 in poi, come qualcosa di irriducibile all’identità nel suo interno e alla dialettica al suo esterno. Essa non vive più la tensione all’omogeneità intestina ma trova la sua forza proprio nell’essere flusso molteplice di singolarità che si intersecano tessendo reti di comune. Non si pone più come l’ ma esprime la spinta per essere l’. Di qui la varietà stessa delle pratiche e la prevalenza del filone della precarietà metropolitana organizzata autonomamente nella disobbedienza sociale che, assumendo la differenza come episteme interna oltre che come catalizzatore di rapporto con le altre realtà in movimento, ha saputo essere egemone scalzando da un lato il feticcio non-violento e dall’altro quello della postura a tout-court antagonista, scegliendo l’investimento diretto del proprio corpo come unica arma capace di incarnare tanto la provocazione simbolica quanto un uso sociale della forza.

È quindi grazie a quella rottura paradigmatica di dieci anni fa che oggi, contro lo smarrimento di un Capitale messo a dura difficoltà, i movimenti riescono a lanciare sfide che mettano insieme operai, precari di ogni genere (da quelli “cognitari” a quelli manovali), comitati in difesa del territorio e di altri beni comuni, studenti medi ed universitari, esprimendo forme di autogestione nella propria lotta e di relazione esterna sempre nuove ma in ogni modo caratterizzate dalla capacità di assumere la ricomposizione a partire dalla diversità, quella delle cause specifiche e delle modalità politiche. È così che oggi la ricchezza di fette cospicue di movimento sta nel superare il rito dell’evento, concependo il conflitto oltre la singola giornata degli scontri e in processi articolati, che comprendano anche la tensione di piazza ma che sappiamo parlare nel contempo pure il lessico referendario se ce n’è il bisogno. È solo così che il tumulto riesce ad essere veramente viscerale, cioè legato sul serio alle radici della popolazione e quindi costituente in senso democratico.

Dato tutto quanto scritto fino ad ora, consegue immediatamente il senso di esser stati presenti ed attivi in questi giorni a Genova, per chi vive oggi l’organizzazione autonoma come modus vivendi del proprio esserci sociale. Si è trattato di giorni di raduno che hanno approfittando di una ricorrenza quale il decennale delle giornate del Genova Social Forum 2001 (ivi compresa la tragica morte di Carlo Giuliani) per condividere in realtà l’analisi sul presente e la prospettiva sul futuro affinché i nodi di soggettività strutturatisi riescano a stare sempre nel migliore dei modi dentro i flussi della società in movimento. Questo soprattutto per chi sta attraversando il percorso comune di “Uniti contro la crisi”, l’ultimo – cronologicamente – degli esiti susseguitesi e generantesi l’un l’altro, proprio nell’ultimo decennio, a partire dalla valorizzazione della differenza per il comune, per la mobilitazione critica in comune e per l’alternativa comune.

«Unirsi contro la crisi e per l’alternativa», significherà allargare la ricomposizione e valorizzarla in un tumulto che è rifiuto dell’esistente e trasformazione costruttiva dello stesso. Questo lo abbiamo visto nei migliaia di volti che hanno affollato un tendone, in una platea (quella dell’assemblea genovese di Uniti contro la Crisi, Uniti per l’Alternativa) che si è riunita a partire dall’ultimo appello (omonimo all’assemblea) sottoscritto da donne ed uomini che vivono i conflitti e i processi di partecipazione di questo paese, sia dalle soggettività autonomamente organizzate che dalle strutture sindacali od associative rimaste funzionali alla causa politica della difesa e dell’emancipazione degli strati della società costretti alla subalternità. Questo lo abbiamo visto non solo nella giornata di esplosione rivoltosa del 14 dicembre o della strenua lotta delle comunità valsusine, ma anche nel sommovimento popolare che ha portato alla vittoria del referendum così come alla prima realizzazione (la vittoria elettorale partecipata da una pluralità che si è tinta di arancione) degli esperimenti amministrativi di Napoli e Milano con de Magistris e Pisapia. Questo lo vedremo il prossimo autunno se il collante ricompositivo sarà ben miscelato, perché se gli eventi sono imprevedibili, i processi si costruiscono meticolosamente.

* Laboratorio Palayana Napoli