Dal trattato di amicizia al silenzio sulle violazioni dei diritti umani, dall’emergenza sbarchi allo stravolgimento del sistema di accoglienza
di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo
I ritardi delle scelte dell’Unione Europea e dell’intera comunità
internazionale sulla crisi libica stanno accordando a Gheddafi quei
successi militari che qualche settimana fa apparivano impensabili. E
malgrado la No Fly Zone, la carneficina di civili
rischia di proseguire per molto tempo ancora. Si rischia anche una
situazione di guerra nel Mediterraneo perchè in queste settimane
Gheddafi ha avuto tutto il tempo per riorganizzarsi, e grazie alle
divisioni presenti a livello europeo e alle Nazioni Unite, il dittatore
libico o i suoi figli, potrebbero restare ancora a lungo sulla scena
politica internazionale. Per comprendere quello che potrà ancora
succedere e per stabilire come, e soprattutto con chi, con quali forze,
procedere nei successivi passaggi dei rapporti tra la Libia e l’Italia
occorre fare un piccolo sforzo di memoria, anche per non ripetere gli
errori del passato.
1. L’Italia è
stata il paese che si è battuta maggiormente a livello europeo a
partire dal 2003 per ottenere la revoca dell’embargo imposto alla Libia
dopo la strage di Lockerbie, commissionata da Gheddafi, come si apprende
adesso dai documenti di Wikileaks. Sotto la presidenza di
Prodi l’Unione Europea ha avviato una serie di contatti con le autorità
libiche in vista della stipula di un accordo globale che avrebbe dovuto
sancire l’avvicinamento definitivo all’area di libero scambio
dell’Unione Europea e il ruolo della Libia nella esternalizzazione dei
controlli di frontiera e nel blocco dei migranti diretti verso l’Europa.
Anche se erano note a tutti le violazioni dei diritti umani e gli abusi
praticati in quel paese ai danni dei migranti, come emergeva anche in
un rapporto del 2005 a cura del SISDE sulla Libia, a firma del generale
Mori.
Nello stesso periodo procedevano i rapporti per concludere una serie di
intese bilaterali tra Italia e Libia per fermare i migranti, in gran
parte potenziali richiedenti asilo, che da quel paese cercavano di
raggiungere le coste italiane. Nel dicembre 2007, dopo una missione di
D’Alema a Tripoli nella primavera di quello stesso anno, il ministro
Amato ed il capo della polizia Manganelli firmavano i Protocolli
operativi che avrebbero dovuto regolare la collaborazione tra le
autorità di polizia italiane e quelle libiche nel blocco e nei
successivi respingimenti dei migranti in fuga dalla Libia. Per oltre un
anno, tuttavia, quei protocolli restavano inattuati perché nel frattempo
si verificava l’ennesimo cambio di governo e Gheddafi rialzava la posta
, esigendo in cambio del suo impegno contro le emigrazioni clandestine
un “Trattato di amicizia” di carattere globale, che riconoscesse la
responsabilità dell’Italia per l’occupazione coloniale della Libia e un
congruo risarcimento che ammontava a diversi miliardi di dollari. Nel
frattempo un giro vorticoso di affari e commesse, anche militari, legava
sempre più l’Italia alla Libia.
Il 30 agosto 2008, proprio a Bengasi, Gheddafi e Berlusconi firmavano il “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia”, nel quale si prevedeva, tra l’altro, l’investimento in Libia di 5 miliardi di dollari provenienti dall’erario italiano attraverso la realizzazione di opere pubbliche, e la collaborazione della Libia con l’Italia nella “lotta all’immigrazione clandestina”. In questo accordo non si prevedeva alcun impegno da parte della Libia alla ratifica e al rispetto della Convenzione ONU sui rifugiati del 1951, né si riconosceva all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati la possibilità di monitorare ed accogliere le richieste di protezione da parte dei migranti provenienti in Libia da paesi colpiti da conflitti armati o crisi umanitarie.
Nel Trattato di amicizia inoltre, all’articolo 3, si prevedeva che “Le
Parti si impegnano a non ricorrere alla minaccia o all’impiego della
forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica
dell’altra Parte o a qualunque altra forma incompatibile con la Carta
delle Nazioni Unite”. Ed all’art. 4 si aggiungeva il principio di “non ingerenza negli affari interni”, con le previsioni che:
1. Le Parti si astengono da qualunque forma di ingerenza diretta o
indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella
giurisdizione dell’altra Parte, attenendosi allo spirito di buon
vicinato.
2. Nel rispetto dei principi della legalità internazionale, l’Italia non
userà, ne permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto
ostile contro la Libia e la Libia non userà, né permetterà, l’uso dei
propri territori in qualsiasi atto ostile contro l’Italia.
Nel successivo articolo 5 lo stesso trattato affermava il principio della “soluzione pacifica delle controversie”, in quanto “in
uno spirito conforme alle motivazioni che hanno portato alla stipula
del presente Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, le Parti
definiscono in modo pacifico le controversie che potrebbero insorgere
tra di loro, favorendo l’adozione di soluzioni giuste ed eque, in modo
da non pregiudicare la pace e la sicurezza regionale ed, internazionale”.
Non si comprende come oggi nessuno senta la necessità di ricordare
questi impegni, e nel quadro della pur condivisibile risoluzione
dell’ONU sulla cd. no-fly zone per impedire altri massacri di civili,
l’atteggiamento interventista e bellicista del governo italiano, dopo i
ritardi iniziali e le dichiarazioni a favore di Gheddafi, rischia di
aggiungere danno a danno. Ed è singolare come sia stata proprio l’Italia
il principale fornitore di armamenti in favore della Libia. Per questa
ragione l’Italia farebbe bene a mantenersi neutrale durante l’auspicato
intervento militare per impedire a Gheddafi di infierire ancora sulla
popolazione civile.
Il 4 febbraio 2009, all’indomani della ratifica del Trattato di Amicizia Italia-Libia da parte del Parlamento italiano, ratifica adottata a larga maggioranza con il voto favorevole del maggior partito di opposizione, il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, si recava Tripoli per incontrare il ministro dell’Interno libico, Abdulfatah Yunes El Abdei, e sottoscrivere il Protocollo di attuazione dell’Accordo Italia-Libia che prevede, tra l’altro, il contrasto dell’immigrazione clandestina attraverso il pattugliamento congiunto delle coste dell’Italia e della Libia. Per tutto il 2009 l’Italia applicava la politica dei respingimenti collettivi in acque internazionali, e per il più clamoroso di questi interventi, risalente al 7 maggio 2009 e documentato da immagini inconfutabili trasmesse dalla RAI, veniva denunciata alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo . Il 22 giugno del 2011 la Grande Camera della Corte di Strasburgo si occuperà del caso. Il 16 febbraio 2010, a Gaeta, l’Italia consegnava alla Libia tre motovedette della Guardia di Finanza per il pattugliamento delle acque del Mediterraneo, che si aggiungevano alle altre 3 consegnate nel maggio 2009. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni, presente alla cerimonia di consegna, ribadiva che «il contrasto all’immigrazione illegale ed alla criminalità organizzata che gestisce il traffico di uomini è l’obiettivo primario per Italia e Libia», ricordando che i frutti della fase operativa della collaborazione tra i 2 Paesi avviata nella scorsa primavera hanno superato «ogni più rosea aspettativa»: 90% in meno di sbarchi sulle coste italiane, risultato che rende «impraticabile una rotta redditizia per i trafficanti di uomini». A partire da quella data, per tutto il 2010 i respingimenti anche in acque internazionali venivano effettuati direttamente dalle motovedette italo-libiche sulle quali erano imbarcati militari italiani della Guardia di Finanza. In un caso una di quelle motovedette apriva il fuoco su un motopesca di Mazara del Vallo impegnato a raccogliere le reti. Un caso sul quale dopo pochi giorni calava la cortina del silenzio, con la rassicurazione fornita da Gheddafi che avrebbe punito i responsabili di quel tentativo di omicidio.
Intanto il 12 novembre 2010 La
Libia respingeva a Ginevra le raccomandazioni, formulate in ambito di
esame Onu, di adottare una legislazione sull’asilo e di firmare
un’intesa sulla presenza dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per
i rifugiati (Unhcr) nel Paese. Tripoli ha respinto tra l’altro
anche la raccomandazione di abolire la pena di morte e di garantire
l’uguaglianza delle donne davanti alla legge e nei fatti. Le
raccomandazioni su asilo e Unhcr erano state formulate all’Onu da Paesi
quali gli Stati Uniti ed il Canada nell’ambito dell’Esame periodico
universale della situazione dei diritti umani in Libia, martedì scorso a
Ginevra. Tripoli ha anche rifiutato la raccomandazione di abolire la
pena di morte, ma ha al tempo stesso rinviato la propria risposta alla
richiesta di adottare una moratoria sulle esecuzioni in vista
dell’abolizione della pena capitale. L’8 giugno 2010 la Libia aveva
annunciato la chiusura dell’ufficio dell’Unhcr a Tripoli,
successivamente la presenza dell’ Unhcr è stata accettata ma solo per
occuparsi dei casi pregressi.
Dopo quella data le trattative tra l’Unione Europea e la Libia subivano
un brusco rallentamento, ma neppure questa circostanza induceva il
governo italiano a rivedere i suoi rapporti di collaborazione con
Gheddafi, malgrado fossero universalmente note le gravi violazioni dei
diritti umani delle quali il regime era responsabile nei confronti dei
migranti in transito in quel paese, soprattutto se di fede cristiana,
come gli eritrei, e nei confronti degli oppositori politici e dei
giornalisti. E ancora oggi, malgrado il ritiro del nostro ambasciatore
da Tripoli il Trattato di amicizia tra Italia e Libia è solo sospeso, e
sembra che si voglia ripristinarlo non appena in quel paese si
affermino nuove autorità statali, per fermare e respingere ancora una
volta i “clandestini” in fuga da quel paese. Una
fuga che, con la gigantesca repressione consentita a Gheddafi in questi
giorni, si potrebbe trasformare, questa volta si, in un vero e proprio
esodo di massa di cittadini libici che cercano di salvarsi dalle
rappresaglie e dai rastrellamenti casa per casa.
2. Dopo lo scoppio delle
insurrezioni popolari nei paesi del Nordafrica l’Italia ha mantenuto una
posizione sostanzialmente attendista annunciando interventi umanitari
ai confini tra Libia e Tunisia, interventi che nessuno ha visto
concretizzarsi in quel campo di accoglienza per diecimila persone che
era stato annunciato.
Nel frattempo le scelte del governo
italiano, tra allarmi di “invasioni bibliche” e tentativi di nascondere
l’inconsistenza del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, hanno
reso insostenibile la situazione a Lampedusa, e stanno dimostrando come,
di fronte ad una emergenza umanitaria, ancora una volta il governo
Berlusconi sia capace soltanto di inviare reparti militari in missione
di ordine pubblico e trattare la materia dei cd. sbarchi, in realtà
salvataggi in alto mare, con i consunti strumenti della “lotta
all’immigrazione clandestina”. Insomma una accoglienza dietro le sbarre o
sotto la sorveglianza di pattuglioni di polizia in assetto
antisommossa.
I ritardi dell’Italia e dell’Unione Europea nel sostenere i processi
democratici nelle regioni del Nord-africa e adesso la posizione
interventista assunta dall’Italia, sia pure all’interno di una
risoluzione delle Nazioni Unite che si prefigge sulla carta l’obiettivo
della protezione delle popolazioni civili, stanno esponendo il nostro
paese al rischio di una afflusso massiccio di migranti, anche perchè
Gheddafi ha già minacciato gli stati europei e l’Italia in particolare
di usare l’immigrazione come un’arma da rivolgere verso l’Europa. Eppure
anche in presenza di questo gravissimo rischio, il comportamento del
ministero dell’interno e dei Questori delle città maggiormente
interessate, perché luogo di sbarco o sede di centri di detenzione,
rimane quello classico del contrasto dell’immigrazione cd.
“clandestina”.
Il 13 febbraio scorso il Questore
di Torino ha emesso 35 decreti di respingimento “differito”con
accompagnamento alla frontiera nei confronti di altrettanti tunisini
sbarcati a Lampedusa.
Nei confronti delle stesse persone sono stati contestualmente emessi altrettanti decreti di trattenimento al CIE.
In questi decreti si fa riferimento alla direttiva rimpatri, citando
l’art. 2, § 2, lett. a), laddove si stabilisce che gli Stati membri possono
decidere di non applicare la direttiva ai cittadini di paesi terzi
sottoposti a respingimento alla frontiera. Alla data del 21 febbraio la
questura di Torino ha chiesto al consolato tunisino di Genova il
rilascio di un lasciapassare cumulativo a nome dei 35 tunisini in attesa
del quale i trattenimenti (già convalidati dal locale giudice di pace
il 14.2) sono stati prorogati l’11 marzo. Come è stato osservato (
Savio), i decreti di trattenimento “illegittimamente richiamano l’art.2 § 2 lett. a della direttiva per la ovvia ragione che intanto gli Stati membri hanno la facoltà di non applicarla ai respinti, in quanto l’abbiano recepita. l’Italia non può avvalersi di una facoltà riconosciuta dalla direttiva se prima non l’ha trasposta nel diritto interno”.
Appare inoltre assolutamente opinabile che la Direttiva rimpatri si
applichi a coloro che sono destinatari di un provvedimento di espulsione
e non anche a chi riceve un provvedimento di “respingimento differito”
emesso dal Questore. In entrambi i casi infatti la sorte è la stessa, si
viene internati in ogni caso in un centro di identificazione ed
espulsione e , se non è possibile eseguire immediatamente
l’accompagnamento forzato in frontiera, sulla base di una normativa che
oggi risulta in contrasto con la direttiva sui rimpatri, si viene
rimessi in libertà con l’intimazione di lasciare entro 5 giorni il
territorio nazionale.
Ad Agrigento sono stati iscritti nel registro degli indagati oltre 6.000 immigrati tunisini che nei primi mesi di quest’anno sono arrivati a Lampedusa, ritenuti dalla polizia colpevoli del reato di immigrazione clandestina. Toccherà adesso alla Procura ed al Tribunale di Agrigento verificare quanto le notizie di reato contenute nei verbali di polizia fossero fondate, e, soprattutto quanto e come sia applicabile in questi casi il reato di immigrazione clandestina. Il 24 dicembre 2010 è infatti scaduto il termine di attuazione della Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, senza che l’Italia vi abbia dato attuazione. Per effetto del consolidato diritto comunitario, una volta scaduto il termine di attuazione, la Direttiva può comunque essere utilizzata dal giudice interno, che può disapplicare le norme che risultino contrastanti, costituendo un criterio prevalente di interpretazione della complessiva normativa previgente.
La Direttiva 2008/115/CE, nella maggior parte dei casi, impone agli organi competenti ( Prefettura e Questura) di considerare l’espulsione con invito a lasciare il territorio nazionale, il cd. rimpatrio volontario, prima di adottare provvedimenti di allontanamento forzato, che comunque possono essere assunti solo sulla base della considerazione individuale del singolo caso, senza quegli “automatismi” (accompagnamento forzato e trattenimento amministrativo) introdotti dalla legge Bossi-Fini n.189 del 30 luglio 2002. La nuova configurazione dell’espulsione con accompagnamento forzato - come ipotesi residuale - incide anche sulla fattispecie del reato di immigrazione clandestina che comporta un avvio automatico del procedimento penale sulla base della “notizia criminis” dell’ingresso irregolare e può avere come conseguenza l’espulsione con accompagnamento forzato. Su questi aspetti si registrano già numerosi interventi della giurisprudenza, e la materia sembra destinata ad acquistare una rilevanza ancora maggiore alla luce dell’aumento degli arrivi in Italia di migranti provenienti dalle zone di crisi del Nordafrica. Non appare sostenibile, sul piano del rispetto dei diritti fondamentali della persona, oltre che per i costi economici ed il prevedibile ingolfamento dell’apparato giudiziario, il mantenimento di una disciplina che considera come reato penale qualunque ipotesi di ingresso irregolare, persino nei casi nei quali venga presentata una istanza di protezione internazionale, fino al momento della conclusione positiva della relativa procedura. E il governo potrebbe approfittare adesso dell’ennesima emergenza creata anche dalle sue stesse scelte, per adottare una normativa di attuazione, magari un decreto legge, da approvare a colpi di fiducia, che tradisca nella sostanza l’equilibrio richiesto dall’Unione Europea tra l’effettività delle misure di accompagnamento forzato ed il rispetto dei diritti fondamentali della persona.
3. Ma non bastava, a Maroni ed al suo governo, la criminalizzazione dei migranti che sono riusciti a raggiungere le coste siciliane in fuga da situazioni diffuse che comportavano il pericolo di un danno grave alla persona. E non bastavano neppure i ripetuti allarmi sulle infiltrazioni di “terroristi” tra i migranti in fuga dalla Tunisia. Si vuole stravolgere adesso il sistema nazionale per i richiedenti asilo piuttosto che implementare le strutture già esistenti dotandole di posti e risorse. Si sta tentando così l’ennesima operazione di facciata a costo zero con lo scopo di concentrare i richiedenti asilo nelle regioni meridionali, “sgravando” le regioni del nord da un onere di accoglienza che evidentemente queste dimostravano di non sopportare più. Ma soprattutto, con lo svuotamento di alcuni CARA si creano le condizioni per trasformare queste strutture in centri di detenzione chiusi nei quali trasferire i nuovi arrivati a Lampedusa. A Lampedusa si sta trasformando l’intera isola in un gigantesco campo di concentramento così da legittimare altri provvedimenti che si traducano nella detenzione a tempo indeterminato di coloro che sbarcano sulle nostre coste. Ancora una volta insomma si va verso un vero e proprio “stato di eccezione”.
Come ha affermato l’ASGI
(Associazione studi giuridici sull’immigrazione) in suo recente
comunicato “i trasferimenti forzati, iniziati dal CARA di Bari e che
stanno avvenendo manu militari, senza alcun provvedimento individuale,
oltre che comportare inutili ingentissime spese, pongono, come già
sollevato da tutti gli enti di tutela e dall’UNHCR, rilevanti problemi
di legittimità per lo sradicamento delle competenze in sede
amministrativa e giurisdizionale. Nei trasferimenti forzati in
corso non si rinviene alcun criterio di ragionevolezza ed utilità
relativamente ad un esame equo e veloce delle istanze di asilo già
depositate (anzi appare evidente come l’intera procedura venga
fortemente rallentata) e comunque avvengono senza tenere conto delle
condizioni di vulnerabilità psico-fisica di molti richiedenti (persone
traumatizzate, vittime di tortura, disabili, famiglie con minori etc)
che avevano già intrapreso percorsi di accoglienza e di cura presso i
servizi socio-sanitari nei vari territori, che vengono così bruscamente
interrotti. Mentre il sistema italiano di accoglienza, incapace di fare
fronte un numero di arrivi significativo ma finora del tutto gestibile,
sta velocemente sprofondando verso il caos, il commissario straordinario
per l’emergenza Prefetto Caruso da una settimana ignora la richiesta di
incontro urgente avanzata da tutti gli enti di tutela italiani (ASGI,
ACLI, ARCI, Caritas Italiana, CIR, FCEI, Comunità di S. Egidio, Ass.
Senza Confine) di concerto con l’UNHCR”.
Questa linea del silenzio e
del rifiuto di incontri, adottata dal Prefetto Caruso, nominato dal
governo Commissario all’emergenza immigrazione a Lampedusa, costituisce
un fatto gravissimo.
Occorre che il Governo adotti un
provvedimento di protezione temporanea ex art. 20 del D.Lgs 286/98 nei
confronti di coloro che stanno arrivando dalla Tunisia e che potrebbero
presto arrivare anche dalla Libia. La gestione dell’accoglienza
dovrà avvenire con modalità diffuse su tutto il territorio nazionale,
reperendo nuovi posti anche nelle regioni settentrionali, attraverso il
Servizio per la Protezione dei richiedenti asilo ed evitando le
concentrazioni in Sicilia e a Mineo in particolare (area che per la sua
vicinanza alla base militare di Sigonella è altresì la più esposta a
possibili ritorsioni militari da parte del regime libico).
Le deportazioni forzate dei richiedenti asilo dai vari CARA italiani devono essere immediatamente sospese.
L’isola di Lampedusa deve essere al più presto
decongestionata con trasferimenti quotidiani verso altre strutture di
accoglienza e con l’abbandono del folle progetto di allestire una
tendopoli nell’area della Riserva naturale. Sembra in questi
giorni che la stessa improvvisazione e la stessa incomunicabilità delle
istituzioni con la società caratterizzino tanto la politica estera, che
la politica interna in materia di immigrazione ed asilo. Di fronte a
questa serie di comportamenti irresponsabili e deleteri dal punto di
vista della coesione sociale non rimane che chiedere le immediate
dimissioni del ministro Maroni e la costituzione di un comitato
interministeriale di crisi nel quale siano ammesse a partecipare le
organizzazioni non governative, per individuare soluzioni capillari su
tutto il territorio nazionale, per fare fronte alle conseguenze
devastanti che potranno essere prodotte tanto dalle scelte in tema di
politica estera,che dalla prosecuzione della guerra ai migranti, sia
alle frontiere esterne, che, una volta giunti sul territorio italiano.
Le scelte del governo in materia di politica internazionale, e le modalità meramente repressive di “gestione” di un emergenza sbarchi, creata ad arte con il concentramento di diverse migliaia di profughi in luoghi simbolo come Lampedusa e Mineo, ormai si potrebbe dire luoghi sulla linea di un fronte di guerra, stanno dimostrando in modo sempre più evidente come l’Italia sia governata da politici che badano solo al proprio vantaggio elettorale ed alla difesa di tutte le zone più ricche e di tutte le sacche di privilegio presenti in Italia, anche a costo di scatenare una “guerra tra poveri”. Contro questa classe di governo, che si avvantaggia di una opposizione parlamentare sempre più debole, occorre costruire giorno per giorno nuove reti di solidarietà dal basso, aprire nuovi canali di comunicazione e costruire soggetti politici che siano capaci di aggregare tutte le forze dell’opposizione sociale. Magari, per battere la rassegnazione alla sconfitta e il settarismo auto-consolatorio, bisognerebbe prendere ad esempio il coraggio delle popolazioni che sull’altra sponda del Mediterraneo non esitano ad affrontare i carri armati che invadono le loro città. Ogni giorno che passa, anche attraverso le scelte irresponsabili adottate a livello di politica internazionale e di controllo dell’immigrazione, è sempre più a rischio il nostro futuro, la nostra democrazia.