Crisi, lavoro e guerre

Verso l’assemblea costitutiva dell’ADL cobas. Appunti per discuterne.

24 / 2 / 2015

La crisi che sconquassa l’Europa da oltre 7 anni, prodotta anche dall’onda lunga del crollo delle grandi banche e dei fondi di investimento statunitensi, ha destabilizzato gli assetti finanziari comunitari istituzionali ed internazionali, regolamentati dal FMI, dalla BM, dalla BCE [la così detta Troika] ed influenzati da diversi altri organismi nazionali e sovranazionali, come lo sono le grandi banche asiatiche, i fondi finanziari gestori del risparmio e dell’investimento, l’Opec e altro declinando a piacere, ma soprattutto ha prodotto la destabilizzazione della divisione internazionale del lavoro e la destrutturazione del mercato del lavoro di ciascun paese, in primis, di quei paesi, dove persisteva una qualche forma di rigidità e combattività – leggi diritti e dignità – dei lavoratori.

In Europa, l’Italia è stata, da oltre un quindicennio, il terreno dove questo processo di destrutturazione del mondo del lavoro e della produzione si è manifestato con grande virulenza, producendo gli effetti che ci raccontano le cronache economiche degli istituti di rilevazione, come l’Istat, la banca d’Italia o la Caritas, che ci scodellano dati statistici, dove il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è ampiamente sopra la soglia del 40%, quella generale del 13%, mentre un esercito di 3 milioni di persone ha rinunciato per sfinimento a cercare lavoro, dove la ricchezza si è concentrata in modo tale per cui poco più dell’1% detiene quanto appartiene al resto 99% della popolazione, dove le persone al di sotto dello standard di povertà sono oltre 6 milioni.

Una condizione sociale che, per molti aspetti, è peggiore, a causa della divaricazione della forbice sociale del reddito disponibile, di quella disastrata della Spagna, del Portogallo e della stessa Grecia, e più simile a quella di alcuni paesi dell’Est europeo come la Bulgaria o la Romania. Basti considerare quanto denunciato dall’ultimo rapporto Oxfam che ci ricorda che Michele Ferrero, Miuccia Prada, Leonardo del Vecchio, Giorgio Armani, Luciano Benetton, Stefano Pessina, Silvio Berlusconi, Gianfelice Rocca, i fratelli Perfetti, Renzo Rosso [molti sono veneti] messi insieme, hanno un patrimonio di 98 miliardi di euro, cioè due miliardi in più del patrimonio complessivo di 18 milioni di italiani, in più, c’è un altro milione e 600 mila italiani che non dispone delle mostruose ricchezze dei dieci nominati, ma ha patrimoni milionari, a cui vengono accreditati 2,7 milioni di dollari ciascuno, e di cui nessuno conosce il volto, compreso il fisco che, anche quando li ha nei suoi file, li tratta con i guanti bianchi.

Il lavoro nella crisi.

Una deriva economica e sociale che si è potuta produrre per la particolare struttura produttiva del nostro paese fatta di centinaia di miglia di micro imprese, dove è – tuttora – concentrata la maggior parte dei lavoratori dipendenti, dove la dipendenza nella catena produttiva della divisione e distribuzione del lavoro con le medie e grandi imprese, nazionali ed internazionali, è totale, dove, per mantenersi a galla nella tenaglia della concorrenza globalizzata nella divisione internazionale del lavoro, si è compresso principalmente il costo del lavoro, inteso come insieme di tutele e diritti dentro e fuori i luoghi di lavoro, assunto anche come costo sociale della sua riproduzione, devastando il sistema delle garanzie e dei servizi ai cittadini,  tagliandone la qualità, la quantità, la distribuzione e dislocazione.

I rinnovi contrattuali sono spariti per larghissime fasce di lavoratori, si calcola che negli ultimi 10 anni il potere d’acquisto pro capite per i lavoratori del Pubblico Impiego, dalla Sanità, agli Enti Locali, alla Scuola sia sceso dell’ordine di 3.000/6.000 € annui, per non parlare dei miliardi di risorse pubbliche disponibili tagliati in tutti i servizi essenziali e non. Di qui l’accanimento anche simbolico contro l’art.18, di qui l’approntamento del Jobs Act, di cui la necessità di ricondurre il lavoro e i lavoratori a condizioni ‘cinesi’.

Effetti sociali collaterali.

Così sono state trasferite e usate enormi quantità di risorse sociali e pubbliche per tappare le falle aperte dalla speculazione internazionale e dalla finanza di rapina, giustificate da una governance della crisi economica internazionale tutta volta a rastrellare denaro per produrre nuovi strumenti finanziari, in un loop comunicativo vorticoso da dance hall [attraverso la comunicazione passa la sostanza del controllo e comando sociale]. I cittadini di tutta Europa sono stati bombardati da informazioni reiterate con  ritmi da techno&hause, sono stati accecati da mille effetti&riflessi sociali stroboscopici, che li hanno indotti ad abbandonare le mobilitazioni e le risposte collettive per cercare soluzioni o fughe individuali.

Oggi siamo, in Italia ed Europa, pienamente in una situazione di recessione in ordine alla produzione di reddito e di deflazione in ordine al consumo sociale di merci, che molto semplicemente vuol dire che i cittadini non hanno a disposizione denari per consumare di più e non vi è la propensione ad usare l’eventuale risparmio per l’acquisto di beni semidurevoli o durevoli, come l’auto o la casa. Una condizione economica che da peculiarità, per quanto abbiamo ricordato, italiana si è trasformata in tendenza europea, capace di avvinghiare nella deriva anche la locomotiva tedesca, in sofferenza per la destabilizzazione politica ed economica, che non accenna a comporsi, in atto nell’Est europeo; la ripresa dispiegata degli scontri militari nelle regioni del Donbass ce lo ricorda.

In questo quadro di disarticolazione, differenziazione e disagio sociale, evidente sia sul piano economico come in quello dei diritti e delle libertà del cittadino, è in atto una polarizzazione anche politica, con l’esasperazione degli egoismi sociali e nazionali, con la rivendicazione di una identità fondata sulla xenofobia e sull’odio del differente, poco importa se per sesso o per religione, che ha portato sugli scudi tutti  gli Alba Dorata, Lepen, Farage, Bachmann, Salvini in grado di cavalcare il malcontento diffuso. Questa situazione di epocale crisi economica, che è stata accompagnata da una implosione degli equilibri imperiali a cavallo del fine/inizio secolo e che ha prodotto e residuato una dilagante forma di guerra per procura in molti quadranti geopolitici, anche a noi molto vicini, che viene agita mediaticamente anche come forma di scontro tra civiltà, non può che risvegliare, come ci ha ragguagliato l’Hobbes del Leviatano, la bestia che è in noi: attrezzarci per smorzare questa evenienza è un impegno, fondativo e discriminante, collettivo.

Finanza predatoria.

La Grecia, con Syriza, ci ha mostrato che è possibile tentare di uscire da una devastante crisi economica, sociale e politica, da sinistra, con una piattaforma inclusiva e libertaria che mantiene in sé un orizzonte e una prospettiva europea. È un inedito esperimento politico istituzionale che avrà riflessi su scala continentale, posto l’emergere dirompente della proposta per l’autunno di Podemos in Spagna, e di quanto rapidamente possono cambiare le dinamiche politiche e sociali in tutta Europa; una esperienza politica e sociale che va seguita con attenzione e passione perché contiene anche le proposte di politica economica alternative a quelle imposte dagli ultraliberisti della Troika per una possibile uscita dalla Grande Crisi europea. Si, grande passione; perché nuvole nere si addensano sopra il cielo di Atene spinte dal vento della Grande Finanza Internazionale che teme, fortemente il ripetersi, nelle radici culturali dell’Europa, di quello che è avvenuto nel 2008 in Islanda, di quello che avvenne nel 2003 nell’Argentina di Kirchner e di Lavagna, molto di più che la Grecia stessa decida di uscire dall’Eurozona. Così si stanno creando le precondizioni per una crisi di liquidità monetaria interna che può creare pericolosi contraccolpi sociali: la decisione tecnica, da Ponzio Pilato, della BCE rimanda a una decisione meramente politica che passa inevitabilmente per il Palazzo di Berlino.

La manovra monetaria, detta di Quantitative Easing, con la quale la BCE di Mario Draghi inietta nel sistema bancario dei paesi dell’Eurozona una dose enorme [60 miliardi al mese] di moneta fresca per quasi 2 anni o comunque fin quando non si riavvia un processo inflazionistico, in cambio di una percentuale fissa di Bond [sempre carta è] in giacenza presso il sistema bancario di ciascun paese, col vincolo che ciascuna Banca Centrale ne rimane garante per l’80% dell’ammontare. Tale operazione monetaria, che per l’Italia si stima possa equivalere a circa 170 miliardi di euri, produrrà l’effetto di calmierare le passività e sofferenze del sistema bancario stesso e solo, nel tempo, garantirà un maggiore accesso al credito di investimento per il sistema produttivo e, conseguentemente ancora molto più tardi, un possibile incentivo alla ripresa e all’incremento del reddito socialmente disponibile per il consumo. Le stime dell’effetto Quantitative Easing, attuato nel recente passato da Stati Uniti e Gran Bretagna, valutano che abbia sortito un incremento tra lo 0,25 e lo 0,5% del rispettivo PIL. Rimane, dunque, una produzione di denaro a mezzo denaro destinato a gonfiare la prossima bolla speculativa che potrà giustificare, in circolo vizioso, un nuovo attacco al reddito reale dei lavoratori, dei cittadini.

L’unico effetto effettivo che oggi è possibile riscontrare è un deprezzamento dell’euro sul dollaro e a cascata sulle altre divise internazionali con un conseguente recupero del margine di competitività delle produzioni europee nel mercato globale, margine che per quanto attiene la Germania e l’Italia viene inficiato dalla contemporanea debolezza economica della Russia, in sofferenza perché compressa dal coinvolgimento nella guerra di contenimento alla NATO in Ucraina e dal crollo del prezzo degli idrocarburi molto più che dalle misure dell’embargo commerciale, imposto più dagli USA e che dalla UE, che, infatti, non vede l’ora di toglierlo, porta questo segno l’impegno della nostra ministra UE Mogherini e l’impegno distensivo di Germania e Francia.

Petrolio.

Il crollo del prezzo internazionale del petrolio e, quindi, dei suoi derivati, che, indubbiamente è come la manna per l’Italia, che porterà il miglioramento di un punto o forse più nel rapporto tra deficit e PIL, ma anche per altre grandi economie nazionali, pensiamo solo alla Cina, al Giappone, alla Corea, all’India, che sono carenti di questa primaria materia industriale, abbassando così, a breve, il costo di produzione delle merci e, potenzialmente, scatenando una nuova recrudescenza competitiva nel mercato globale. Un arma, dunque, assai pericolosa e ambivalente questa del petrolio, usata strumentalmente, fin dalla guerra arabo – israeliana del 1967, come condizione per ridisegnare la cartografia del potere economico internazionale, quanto come estintore verso le dinamiche sociali conflittuali nei singoli paesi [ricordiamo l’uso delle crisi petrolifere contro l’insorgenza di classe negli anni 70 in Italia, in Europa].

La recente decisione unilaterale dell’Arabia Saudita di non rispettare le indicazioni del cartello OPEC dei paesi produttori di petrolio e di abbassare il prezzo del barile, passando nel giro di pochi mesi dagli oltre 100 dollari agli attuali 48, sta terremotando il mercato del brent, spingendo fuori mercato, per il negativo rapporto tra costi di estrazione e prezzo di vendita, il petrolio ottenuto con la fratturazione idraulica negli Stati Uniti e Canada, dove, nel mentre si è raggiunta l’autosufficienza petrolifera, si stanno fermando le trivelle e molte piccole compagnie sono già fallite, e mettendo anche in stand by le ricerche e trivellazioni partite soprattutto in Polonia e nella vicina Ucraina. Creando – questo l’aspetto politico più rilevante – grosse difficoltà a paesi produttori quali l’Iran, il Venezuela, la Russia che si sono visti ridurre di moltissimo, se non azzerare, i lauti introiti valutari provenienti dalla vendita del petrolio, con le conseguenti difficoltà interne di redistribuzione sociale del welfare da idrocarburi, da sempre usato in funzione di sedativo dei conflitti sociali interni.

È una mossa concordata a tavolino tra i ‘signori del potere e della guerra’ a livello planetario? No, non lo pensiamo. Probabilmente l’amalgama degli ingredienti della maionese, che si tenevano in un precario equilibrio, è impazzito. Con questo vogliamo dire che in questa fase in cui la guerra di posizionamento, tra le potenze di questo strano multipolarismo, si dipana in forme inedite di ‘guerra fredda’ in Europa e America Latina, in guerre per procura in Medio Oriente e in Africa, in fronteggiamenti muscolari nel Pacifico orientale, in una spirale disastrosa del modello ‘il nemico del mio avversario e mio amico’ tale da produrre mostri come Al Qaeda o lsis, ci sembra improbabile.

Più verosimile sembra essere la possibilità di un azzardo politico del clan Saudita [sunniti] volto a prosciugare le risorse dell’Iran [sciita], considerato il loro principale nemico nel quadrante medio orientale. Un avversario, che è stato riaccolto, dopo gli abboccamenti con gli USA e col congelamento del suo piano nucleare, nel consesso internazionale, e ora è salutato come il salvatore dell’Iraq dall’offensiva dell’Isis, anche se Israele continua a denunciarlo come il finanziatore di Hamas a Gaza e in Libano, e degli stessi Fratelli Mussulmani.

Un azzardo volto a dimostrare a tutti i competitors chi è il vero padre padrone e, come solo passando attraverso il loro consenso economico e finanziario, sia possibile disegnare uno scenario per i futuri equilibri in Medio Oriente e non solo.

Di questa fase si giovano economicamente sia l’India che la Cina, che hanno potuto tamponare il rallentamento del trend espansivo della propria capacità produttiva, segnalato da un abbassamento delle proiezioni del rispettivo PIL, che oscilla tra un più 6 – 8%, con le minori spese per l’approvvigionamento energetico. Potendo, così, sostenere le pressioni sociali sotterranee interne volte ad ottenere maggiore reddito e migliori condizioni lavorative. Andando, indirettamente, a confermare la bontà della strategica alleanza energetica trentennale che hanno stretto Cina e Russia, così da andare a configurare, nell’insieme, un imponente blocco economico produttivo che coinvolge gran parte del continente asiatico in un mix indecente di capitalismo predatorio e sviluppo tecnologico delle proprie capacità produttive.

Guerre per bande.

Quanto possa essere accettata questa prospettiva dipende molto dalla stabilità economica, che ora sembra garantita pur poggiando su di debito enorme, e dalle decisioni di strategia politica degli Stati Uniti, che in questo instabile modello di mondo multipolare rimangono, pur sempre il cardine capace di aprire o chiudere le finestre di questo o quel quadrante geopolitico. Lo dimostrano gli sviluppi, con il coinvolgimento diretto o per procura degli USA, delle ‘nuove forme’ che ha assunto la guerra sia in armi che fredda.

Ci basti ricordare come, pressoché ovunque nelle guerre in atto, si sia passanti dall’uso degli eserciti nazionali a quello di bande mercenarie, poco importa che siano contractor o truppe scelte sotto l’egida dell’ONU o miliziani al soldo di qualche ras locale; dal controllo con il presidio del territorio all’incursione con rapina e ratto; dal bombardamento a tappeto all’uso dei droni per eliminazioni selettive. La forma della guerra si trasforma ma per produrre il medesimo risultato ristabilire il dominio col terrore: quanto assomigliano a Dresda le rovine di Sarajevo, Grozny, Aleppo o Kobane. Un enorme investimento per il futuro del capitale, tanto quanto lo può essere per i movimenti la scommessa di Kobane, della confederazione dei municipi della Rojava, cresciuta nella guerra quale unica opposizione reale al delirio nazista dell’Isis.

Oppure ricordare come si muova l’intelligence internazionale che abbiamo visto all’opera nell’estate 2013, quando aerei NATO hanno costretto l’aereo del presidente boliviano Evo Morales, di ritorno da Mosca, ad atterrare a Vienna per verificare l’identità dei passeggeri, dopo che Francia, Spagna, Italia e Portogallo gli avevano negato l’accesso al loro spazio aereo, temendo che a bordo ci potesse essere la “talpa” del Datagate, Edward Snowden in transito verso la Bolivia. Solo l’intervento del suo collega l’ecuadoregno, Rafael Correa, che ha saputo determinare una reazione comune di tutti i leader sudamericani, ha posto fine dopo 14 ore al sequestro – passato sotto silenzio – del Presidente della Bolivia, uno degli stati che, assieme all’Equador sta facendo vedere i sorci verdi all’amministrazione americana con l’offerta di asilo politico a Giulian Assange e Edward Snowden. Una volta ancora i servizi di intelligence statunitensi hanno preso una cantonata, Snowden se ne sta ancora a Mosca, sono stati sbeffeggiati dagli stessi uomini che hanno saputo produrre il Datagate, tuttavia, aldilà di ogni banale ironia, questo episodio, il sequestro di un Capo di stato nei cieli europei, sta lì a segnalarci quanto pesante, seppur sottotraccia, sia la partita in corso anche in America Latina e come tutti gli attori siano in campo senza esclusione di colpi: in ballo c’è il controllo politico, militare ed economico, ora destabilizzato, su quadranti geopolitici di vitale importanza per gli interessi capitalistici.

Il panorama delle guerre in corso è qui a ricordarcelo.