Crimini Impuniti

Assolutamente inadeguata la posizione assunta dal Senato in ordine all'iscrizione del reato di tortura nel nostro Codice Penale.

8 / 3 / 2014


Il Senato ha approvato sostanzialmente all'unanimità, con modificazioni, il disegno di legge che introduce il reato di tortura nel nostro ordinamento penale. Il testo passa ora alla Camera. Si tratta degli articoli 613 bis del Codice Penale, che disciplina il delitto di tortura e 613 ter, che punisce la condotta del pubblico ufficiale che istiga altri alla commissione del reato. E' il primo risultato utile a interrompere la paralisi che da anni caratterizza la permanenza in Commissione Giustizia di qualsiasi ipotesi normativa volta a raccogliere il dettato della Convenzione Onu, risalente al lontano 1984, che imponeva ai suoi Stati membri di ricomprendere nel proprio ordinamento giudiziario il reato di tortura, da punirsi con pene adeguate attraverso rapidi e imparziali giudizi. Sono 22 gli Stati europei che hanno nel tempo recepito la direttiva. Il primo tentativo fallito di messa a norma in Italia risale al 1989, con ciò ponendoci in posizione arretrata rispetto a Paesi come la Lettonia, l'Islanda, la Macedonia. Ritenendo il nostro legislatore che le condotte richiamate nella Convenzione siano riconducibili a fattispecie penali già in essere come l'omicidio, le lesioni, le percosse, la violenza privata, le minacce. Tutto bene dunque? Niente affatto.

La battaglia politica condotta dai movimenti, principalmente in seguito alle giornate del G8 2001 a Genova, è stata volta ad attualizzare il testo dell'articolo 13 della Costituzione Italiana che recita testualmente “E' punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte arestrizioni di libertà”, essendo di tutta evidenza la mancanza di un articolo del Codice adeguato a sanzionare i comportamenti attuati dalle nostre quattro forze di polizia ai danni dei fermati, così come previsto dal dettato costituzionale. Vuoto rilevato senza perifrasi dagli stessi giudici chiamati a presiedere i processi per le violenze alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto, essendo il punto chiave della questione il fatto che gli oggetti delle violenze si trovavano in stato di privazione della libertà. Gli unici titolati a privare un cittadino della propria libertà personale sono gli agenti di polizia: è alla correttezza del loro operare che la norma si intende rivolgere.

Il testo licenziato al Senato è una manomissione sostanziale del disegno di legge presentato dal senatore Manconi, presidente della Commissione sui diritti umani del Senato stesso, che pure lo ha votato anche se con “forti perplessità e insoddisfazione”. Se la sua relazione mette in evidenza che il delitto di tortura non è assimilabile a quelli preesistenti, elencandone le molte ragioni, il testo è condensato in due brevi articoli che pongono coerentemente al centro della norma come il destinatario della stessa sia “il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio”. Lo stravolgimento operato un aula va focalizzato in due punti: tortura come reato comune e non come reato compiuto da un titolare della funzione pubblica; tortura come reato che, per essere integrato, deve essere il risultato della reiterazione degli atti di violenza. Nessun riferimento alla previsione dell'esclusione della prescrizione.

Prescindendo dall'osservare come venga ignorato il centro della determinazione Onu secondo cui la tortura è un delitto proprio del pubblico ufficiale, è di tutta evidenza che nel configurarla come delitto generico non solo si finge di ignorare il dato storico (come pratica giudiziaria estorsiva, come pratica poliziesca vessatoria di affermazione di potere) ma si afferma principalmente il dato politico, che mette in salvo le forze dell'ordine dall'essere esclusivo destinatario della norma. Configurando il reato come generico, tale da essere commesso da chiunque, anche in un contesto criminale o familiare, se ne svuota la funzione di contrasto agli arbitrii di potere e se ne depotenziano completamente la prospettiva e la finalità, malgrado la previsione di un'aggravante nei casi riferiti all'agire del pubblico ufficiale. Se poi si aggiunge il dato tecnico della necessità della reiterazione ecco che l'annientamento della sua efficacia trova perfetto compimento. Per essere crudi ma espliciti: un solo piercing sul capezzolo strappato con le pinze nella caserma di Bolzaneto non configura il reato, che per essere integrato deve essere seguito da altri (quali? quanti?) atti di violenza. Ma attenzione: nel nostro Paese la responsabilità penale è personale. Quindi dieci piercing ai capezzoli strappati con le pinze da dieci agenti diversi nello stesso contesto non servono a configurare comunque il reato.

La finalità preveniva risulta completamente vanificata: questo il risultato delle larghe intese, con il silenzio-assenso di Sel e 5 Stelle. Serve a poco allineare la lunga lista di nomi di cittadini che, dopo le giornate di Genova, sono stati massacrati di botte fino a morirne da uomini in divisa. Se questo pacchetto di norme non verrà modificato alla Camera costituirà solo una declinazione aggiornata di quel salvacondotto giudiziario da sempre in vigore in ordine all'agire delle nostre forze dell'ordine - che siano impegnate in funzione di ordine pubblico o in quella di semplice controllo di routine - affiancandosi alla negazione della possibilità dell'identificazione del personale attraverso numeri o sigle sulle divise, alla evanescenza delle regole di ingaggio, all'assenza di vincoli certi riguardo l'uso delle armi. Ma costituirà soprattutto una chiave di mantenimento in capo alla magistratura della possibilità di agire con due facce e due velocità.

Il protagonismo del potere giudiziario si è nell'ultimo decennio rafforzato, rendendo più solida l'elaborazione di strategie direttamente politiche all'interno delle aule dei tribunali. L'inerzia o meglio la complicità delle forze istituzionali nel paralizzare qualsiasi nuova norma a tutela dei soggetti esercitanti il conflitto sociale ha incentivato nella magistratura la capacità di reinterpretare i meccanismi giuridici repressivi in funzione di sostegno del comando. Il dato politico della condotta antagonista è sistematicamente negato, frantumando completamente il principio della proporzionalità tra pena e condotta illecita (si vedano le condanne per i fatti di piazza San Giovanni) assieme a quello della presunzione di innocenza. Sono riesumati reati (devastazione e saccheggio) direttamente riferibili al codice fascista Rocco rendendone costante l'utilizzo, sono contestate aggravanti per finalità di terrorismo e di eversione in quadri di conflitto assolutamente trasparente. E' diffusa l'adozione di fattispecie difficilmente oggettivabili (compartecipazione psichica). E' utilizzato l'innalzamento della soglia della condanna penale al fine di restringere spazi di libertà e di movimento. Viene rafforzato lo strumento della custodia cautelare come risposta immediata a comportamenti direttamente conseguenti alla sofferenza sociale determinata dalla crisi economica, soprattutto se orientati a pratiche di riappropriazione di strumenti di difesa dalla crisi stessa.

In uno scenario in cui il dato politico del comportamento conflittuale viene utilizzato per mettere a valore un'aggravante specifica, la determinazione assunta al Senato mira a disinnescare l'effetto deterrente che una norma semplice e nitida in tema di delitto di tortura potrebbe e dovrebbe contenere in sé. La normativa così come viene presentata alla Camera rischia di offrire maggiori garanzie all'esercizio dell'abuso di potere da parte delle forze dell'ordine di quanto uno specifico vuoto normativo di fatto comporti. Mantenendo in evidenza che nulla è stato fatto a tutela dei diritti dei movimenti e più in generale dei cittadini costituisce una mistificazione che va con forza smascherata.