Le sole vie che la tradizione di sinistra propone per uscire da un capitalismo che sembra già entrato in una fase terminale di consunzione sono solo apparentemente opposte. Sia quella parlamentare-legalitaria che quella pronta all’insurrezione per conquistare la stanza dei bottoni rimuovono ogni seria riflessione sul potere e l’alienazione.

Creare spazi autonomi

22 / 7 / 2013

Sostengo da molto tempo l’idea che la costruzione di spazi di autonomia, spazi nei quali cominciamo ad applicare regole del gioco diverse da quelle che ci sono imposte, debba essere il compito principale per qualsiasi movimento che voglia opporsi al capitalismo partendo dalla doppia prospettiva della autogestione e della de-mercificazione.

Credo che la scelta che propongo sia tanto necessaria quanto dignitosa e fattibile. In ultima istanza, essa si basa sulla convinzione che bisogna cominciare a costruire, da ora, la società del domani, con il duplice proposito di uscire con urgenza dal capitalismo e di marcare il profilo di strutture autogestite dal basso, lontano dal lavoro salariato e dalla merce.

A me sembra, inoltre, che tali spazi, logicamente capaci di attrazione ed espansione, possano configurare un progetto molto più realista di quello che propugna da sempre, ma adesso a mezza bocca, la socialdemocrazia illuminata. Quando qualcuno mi parla della necessità di creare una banca pubblica, mi vedo costretto a chiedermi quanto tempo possiamo aspettare che essa divenga realtà, tanto più quando la proposta in questione deve necessariamente passare attraverso i canali di partiti, parlamento e istituzioni.

Aggiungo, anche se lo credo superfluo, che gli spazi di autonomia di cui parlo non possono essere in  alcun modo istanze isolate che si affidano a un progetto meramente individualista e particolarista: la loro prospettiva deve essere per forza quella della autogestione generalizzata. Non solo: la loro preparazione non può lasciare da parte la contestazione attiva, frontale, del sistema. Non si dimentichi che coloro i quali scommettono su questi spazi, la maggior parte delle volte hanno difeso forme di lotta profondamente tradizionali e, a differenza del sindacalismo della contrattazione che si manifesta per ogni dove, lavorano in organizzazioni che da sempre sono state in questo tipo di lotta.

Certo è che il progetto che ora sostengo ha suscitato critiche che meritano attenzione e repliche. Si è detto, in primo luogo e credo contro ogni buona ragione, che esso si fonda su una sotterranea accettazione del sistema capitalistico. Sorprende che lo dicano coloro i quali hanno deciso di accettare il percorso delle due vie alternative che si intravvedono nel mondo della sinistra: quella parlamentare-legalitaria e quella rivoluzionaria-putschista (prevede cioè un’insurrezione o un “colpo di mano” per prendere il potere, ndt). Se nel primo caso la sorpresa ha ragioni ovvie, nel secondo rinvia a motivazioni altrettanto ovvie, a partire dalla clamorosa accettazione di tutto l’immaginario del potere, della gerarchia, dell’avanguardia e della delega.

Non intendo far arrabbiare nessuno quando sottolineo che queste due vie, considerate alternative, condividono invece molti elementi comuni. In entrambe manca qualunque seria riflessione sul potere e l’alienazione; si elude la considerazione di ciò che il potere significa in tutti gli ambiti: la famiglia, la scuola, il lavoro, la scienza, la tecnologia, i sindacati e i partiti. In ambedue le vie si trascurano gli effetti prodotti nelle società complesse sull’industrializzazione, l’urbanizzazione, l’abbandono delle campagne. In tutti e due i casi si nota quasi sempre una silenziosa accettazione dei miti della crescita, del consumo e della competitività. E in entrambe s’intuisce, infine, il rischio di una imminente condivisione di un sistema che nei fatti non si è mai abbandonato. Castoriadis ha parlato, in proposito, decenni or sono, della “costante rinascita della realtà capitalistica in seno al proletariato”.

Devo necessariamente rilevare che se la discussione che oggi recupero è molto antica, proprio oggi ha un rilievo forse maggiore  che non in qualsiasi altro momento del passato. Lo ha almeno agli occhi di quanti di noi ritengono, come me, che il capitalismo sia entrato in una fase di consunzione terminale. Una fase che, grazie al cambiamento climatico, all’esaurimento delle materie prime energetiche, alla continuazione del saccheggio dei paesi del Sud, alla disintegrazione dei precari ammortizzatori sociali e al disperato dispiegamento di un nuovo e osceno darwinismo sociale, ne colloca il collasso ormai dietro l’angolo. Di fronte a tutto questo, la risposta delle due vie alternative prima menzionate appare drammaticamente debole: se in alcuni casi si limita a chiedere poco più che la difesa dello stato sociale e una “uscita sociale dalla crisi” oppure, il che è lo stesso, un irreale quanto squallido ritorno al 2007, in altri casi ci si appiattisce nella illusione che un’avanguardia che si autoproclama tale, investita dell’autorità che conferisce una presunta scienza sociale, debba decidere per tutti sotto l’usbergo della sua intenzione di ripercorrere i molti fallimenti del XX secolo. In mancanza d’altro, gli uni e gli altri sostengono tesi radicalmente anticapitaliste, ma non si preoccupano di chiarire come porteranno a termine il loro progetto. Infine, nel migliore dei casi, tutto il loro impegno si traduce in un’attiva e rispettabile lotta, giorno per giorno,che ha comunque effetti limitati.

So bene che l’orizzonte dell’autonomia, dell’autogestione e della de-mercificazione non risolve magicamente tutti questi problemi. Mi limito a sostenere che ci avvicina ad una soluzione. Né credo che la soluzione sia tra le pieghe di una discussione affrontata mille volte: quella che parte dalla solita domanda: siamo tanto ingenui da pensare che i nostri spazi autonomi non saranno oggetto delle ire repressive del capitale e dello Stato. Non lo siamo: ci limitiamo semplicemente  a domandare quali siano le difese che, per i loro progetti, vogliono o sono in condizione di dispiegare i nostri amici, che sostengono la via parlamentare-legale e quella rivoluzionaria-putschista. Tanto più che, per come vanno le cose, si intuisce che non avranno nulla da difendere. Sono forse le loro difese più solide e credibili delle nostre? O sarà che, permettetemi la malignità, quelli che s’impegneranno nel compito di reprimere gli spazi autonomi saranno, alla fin fine, gli amici con cui oggi dibattiamo?

Lascio per ultima una questione non priva di interesse: quella della compatibilità o meno del progetto di autonomia con gli altri due percorsi che ho esaminato in maniera critica. Risponderò in modo tanto veloce quanto interessato: se la conseguenza più rilevante di questo confronto è consentire a molte persone di avvicinarsi agli spazi liberati, sia essa la benvenuta. Temo però che stiamo parlando di progetti che fanno capo a visioni diametralmente distinte di ciò che è l’organizzazione sociale e di che cosa comporti l’emancipazione. Mi vedo costretto a sottolineare un grave e sostanziale difetto che caratterizza le proposte della sinistra tradizionale: l’assenza completa di qualcosa che anche solo odori di autogestione, mentre invece vi si senta un odore di gerarchie, di deleghe e di riproduzioni fedeli del mondo che apparentemente diciamo di contestare. Malgrado non ci sia alcuna ricetta magica per i problemi, sono sempre più convinto che c’è chi ha scelto di percorrere la strada più rapida e convincente.

*** Carlos Taibo, scrittore e docente a Madrid, è uno dei più noti teorici e sostenitori del movimento della decrescita in Spagna. Le sue tesi sono «orgogliosamente anti-capitaliste», anti-patriarcali e internazionaliste. Sono orientate, comunque, all’autogestione, all’autonomia e a una radicale redistribuzione delle risorse.

Fonte: Nuevo desorden www.carlostaibo.com