Costretti a pensare

Da Roma a Bologna, da Napoli a Padova, lezioni di clandestinità contro il razzismo

24 / 2 / 2010

Ce lo ha insegnato Deleuze, maestro materialista, che il pensiero comincia con l'effrazione e la violenza. E la violenza è un incontro o la differenza. Non si tratta di essere anime belle, intendiamoci, Deleuze non è mai stato di sinistra, mai, come tutti quelli che pensano la rivoluzione a partire dal desiderio. La differenza non è il diverso, il diverso – continua Deleuze ‒ è già dato, è lì, identico, di fronte a noi. La differenza è ciò che rende possibile il diverso: creazione o genesi nella relazione.

Cominciamo a censire, allora, gli incontri, il disparato, che ci costringono a pensare nel contemporaneo. A Rosarno abbiamo incontrato una rivolta, una rivolta di migranti africani contro la violenza dello sfruttamento, meglio, dell'espulsione. Con Rosarno abbiamo capito cosa significa migrazione nella crisi, laddove le braccia per le arance non servono più, dopo esser state già di troppo nel Nord-est o in Emilia. Abbiamo appreso un lungo viaggio, segnato dalla crisi che mangia la strada e le speranze. Disoccupazione, per i migranti, significa espulsione, con i fucili o con i bastoni o con la polizia. Il mercato delle braccia si restringe, i Cie si allargano. A Rosarno, però, la testa si è alzata su, con coraggio le strade si sono rotte e i migranti sono insorti.

Ma ancora prima abbiamo imparato al Pigneto, a Roma, cosa vuol dire rispondere alla polizia che sequestra borse di merce, quel “secondo mercato” che sostiene tanti e che garantisce un salario magro, per vivere in dieci in una casa. Raid spietato delle forze dell'ordine (affinché i «negri» non dimentichino mai la buona educazione!). Con grande dignità nessuno si è fatto intimidire, Pigneto è tornato a vivere, nuovi legami si sono stretti.

Così come dagli afghani – sempre a Roma ‒ abbiamo imparato cosa significa scappare dalla guerra, la guerra preventiva o la guerra sporca di cui siamo stati e siamo tutt'ora protagonisti. Una guerra che non porta con sé asilo, tanto che alle richieste si risponde con l'indifferenza o con le ruspe.

A Milano, invece, dopo che tanto avevamo imparato dalla rabbia degli amici di Abba, così abbiamo visto in azione lo scontro tra le «gang». Nel mezzo di via Padova l'uccisione di un diciannovenne egiziano da parte dei latinos, poi la risposta. E la polizia e la Lega, tutti d'accordo, tutti insieme a ribadire, nel rumore, che la misura è colma e che Milano non merita via Padova e che i migranti si scannano tra di loro e che il razzismo, tutto sommato, è la soluzione più ragionevole. Il razzismo che riguarda sempre più da vicino i giovani – il 45 % ci dicono i sondaggi ‒ e non più solo le vecchie generazioni. Quel razzismo ormai diffuso, oltre che istituzionale, di Stato.

Quando il sapere sembra sfumare dentro la nube contabile di Tremonti o la classi con i tetti xenofobi della Gelmini, quando l'imbecillità definisce il ritmo della catastrofe politica, è decisivo ricominciare a pensare. E il pensiero non parte se prima non c'è un incontro. L'incontro, nel nostro caso, non ha niente a che fare con la buona educazione del multiculturalismo di sinistra. Né la volgarità del senso comune né l'inutilità del buon senso. Ma un senso nuovo, tutto da costruire, nel racconto, nell'esperienza, nella vita, nelle lotte.

A partire da questa consapevolezza, cifra privilegiata dello spaesamento più generale che ci tocca in sorte e all'interno del quale possiamo inventare cose nuove, vivremo il Primo marzo come una grande giornata in cui riprendere ad “ascoltare la lezione”. «Lezioni di clandestinità», dove il sapere è il sapere della vita offesa, della vita che resiste, della vita che non vuole stare in gabbia. Studenti universitari e medi torneranno nelle piazze italiane, per ascoltare un'altra lezione che difficilmente si impara dietro i banchi, nelle aule, sui libri: la lezione di chi fugge dalla guerra, dalla polizia o da Rosarno. Perché non basta ripetere il ritornello multiculturalista per risolvere i problemi che abbiamo di fronte. C'è bisogno di un'invenzione, ma prima, c'è bisogno di riprendere a pensare.

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