Coronavirus - La percezione del rischio: emozioni o statistica?

27 / 2 / 2020

La paura è una delle emozioni di base, è utile dal punto di vista evolutivo perché è funzionale alla sopravvivenza dell'individuo e della specie. E' un sistema di allarme che ci avvisa quando una minaccia si manifesta, mettendo in atto la reazione di attacco o fuga (Fight or flight, W.Cannon, 1932), che attiva il corpo a reagire velocemente e focalizza la nostra attenzione per permetterci di rispondere in modo rapido ed efficace al pericolo. La paura quindi è utile, necessaria alla sopravvivenza, ma la risposta ad una minaccia può essere più o meno proporzionata alla sua reale pericolosità: questo dipende da come noi percepiamo la minaccia, cioè dalla valutazione del rischio che ne facciamo.

La percezione del rischio non è un concetto stabile o obiettivo e non è basata su dati oggettivi e statistici, ma è influenzata da una serie di variabili soggettive, che dipendono da come percepiamo la realtà esterna, da come giudichiamo le cose e da aspetti personali, che in quanto tali possono essere distorti e alterati.

Se ci confrontiamo con la minaccia di un virus, non visibile e potenzialmente mortale (abbiamo detto che la percezione del rischio va al di là della statistica, quindi dire che il rischio è al 2% non cambia la nostra percezione di mortalità), la nostra percezione del rischio sarà maggiore rispetto a quella di essere coinvolti in un incidente stradale.

Per essere più chiari, la statistica ci dice chiaramente che è più pericoloso fare un viaggio in macchina piuttosto che in aereo, ma ci sono molte più persone che hanno paura dell'aereo. Come detto precedentemente la sensazione di rischio che percepiamo non si basa su dati reali, ma su valutazioni soggettive. L'informazione in questo caso contribuisce a modificare la nostra percezione del rischio: in genere le catastrofi aeree, rispetto agli incidenti stradali, vengono messe maggiormente in risalto dai media, anche se questo succede proprio perché si tratta di eventi rari. La macchina invece è un mezzo con cui abbiamo a che fare ogni giorno e su cui sentiamo di avere un controllo diretto e siamo portati a sottovalutarne il rischio, rispetto alla probabilità decisamente più bassa di un incidente aereo.

Nel caso di un virus, che si diffonde in maniera veloce, possiamo avere un'alta percezione di rischio e un elevato livello di paura, perché è un rischio nuovo, di cui non abbiamo ancora una cura o un vaccino ed è la prima volta, a memoria della gran parte delle persone in Italia, che vengono messe in atto delle ordinanze per contenere la diffusione di una malattia. Avere paura è un meccanismo sano, utile e ed evolutivamente essenziale.

Approfondiamo meglio il concetto di percezione del rischio: il nostro cervello, e quindi i nostri meccanismi di pensiero, funzionano molte volte utilizzando delle scorciatoie.

La categorizzazione ci permette di classificare oggetti differenti all'interno di un medesimo insieme. La funzione primaria di questa operazione è quella di semplificare la complessità dell'ambiente. In questo modo ogni volta che incontriamo un nuovo oggetto sociale non dobbiamo ripartire da capo per comprendere le sue caratteristiche, ma possiamo definirne la categoria di appartenenza e fare ricorso alle nostre precedenti conoscenze riguardo questa categoria. La categorizzazione ha quindi due funzioni: la semplificazione dell'ambiente e la possibilità di compiere inferenze rapide. Questo porta inevitabilmente a una conseguenza: ogni esemplare presente all'interno della categoria verrà trattato in modo sostanzialmente uguale, non verranno quindi prese in considerazione le differenze e le caratteristiche individuali.

Cosa succede quindi se le persone pensano che a portare il coronavirus in Italia sia una persona di origine cinese? La categorizzazione, che è anche uno dei meccanismi alla base degli stereotipi, interviene mettendo insieme tutte le persone che fanno parte della categoria "cinese". Non considerando le caratteristiche individuali sarà indifferente, senza una riflessione adeguata, se la persona sia stata in Cina o meno, se sia malata o no. E' riconoscibile ad un primo sguardo, fa paura e scatena i meccanismi discriminatori di cui purtroppo sentiamo parlare sui media in questo periodo. Ciò che non conosciamo ci fa paura: vediamo persone asiatiche con la mascherina, ma non sappiamo che è un'abitudine che va al di là dell'emergenza attuale e attuare un meccanismo discriminatorio verso un'intera popolazione dai tratti somatici ben riconoscibile è piuttosto semplice, anche se chiaramente non giustificabile.

Un altro meccanismo interessante che riguarda la percezione del rischio è l'euristica della disponibilità (Tversky e Kahneman, 1974), che rende falsamente più probabili, gli eventi che vengono maggiormente portati alla nostra attenzione. Questa euristica (def: scorciatoia di pensiero grazie alla quale si cerca di formulare giudizi a partire da informazioni limitate) prende il nome dalla disponibilità di un dato in memoria. In gran parte dei casi quindi utilizziamo i dati che abbiamo in memoria per stimare l'incidenza di un rischio: più un dato o un evento emergono facilmente in memoria, più è probabile che le persone lo stimeranno come frequente.

La nostra memoria non è perfetta, non ci propone una stima accurata dell'incidenza di un fenomeno, ma dipende da molti fattori, tra cui le nostre emozioni. Più un evento è emotivamente rilevante, più sarà disponile nei nostri ricordi: le persone di fatto distorcono il rischio percepito di un fenomeno, valutandolo più frequente se maggiormente disponibile in memoria.

In questo senso, è facile pensare a come l'intervento dei media possa influenzare la nostra percezione del rischio. Il numero delle volte in cui un evento viene proposto dai media di fatto ha un impatto importante sulla disponibilità per la memoria di questo evento, inducendo a sovrastimarne i danni e la diffusione.

Il bombardamento mediatico relativo al coronavirus a cui siamo sottoposti in questi giorni, di certo attiva questo tipo di meccanismo, non solo perché è impossibile non esserne influenzati a meno di isolarsi totalmente dai mezzi di comunicazione, ma anche perché ogni notizia scatena l'emozione della paura, che a sua volta influenza i nostri meccanismi di memoria, influenzando la nostra capacità di percezione del rischio.

Le fake news, in questo caso, rendono la situazione ancora più complessa, impedendo un'analisi realistica delle notizie, a causa della forte attivazione emotiva e della nostra scarsa capacità di valutazione della realtà effettiva del rischio.

Un altro meccanismo di pensiero, un pregiudizio cognitivo che utilizziamo nella vita quotidiana e influenza la nostra percezione e le nostre decisioni, è l'effetto framing.

Nel 1981 i due psicologi Tversky e Kahneman hanno studiato come il modo in cui le informazioni che riceviamo vengono presentate influenza le nostre decisioni.

In uno dei loro più famosi esperimenti "Il problema della Malattia Asiatica", a due gruppi di soggetti è stato presentato lo stesso problema, in due differenti contesti.

È stato presentato il seguente scenario: “Immagini che gli Stati Uniti si stiano preparando per l’epidemia di un’insolita malattia asiatica, che si prevede ucciderà 600 persone. Vengono proposti due programmi alternativi per fronteggiare la malattia. Supponga che la stima scientifica esatta delle conseguenze dei programmi sia la seguente”.

Al primo gruppo sono state presentate le alternative nel modo seguente: “Se viene adottato il Programma A, verranno salvate 200 persone. Se viene adottato il Programma B, vi sarebbe 1/3 di probabilità che 600 persone vengano salvate, e 2/3 di probabilità che nessuna persona venga salvata”.

La maggior parte dei partecipanti (72%) hanno risposto evitando il rischio: certamente la possibilità di salvare 200 vite è più attrattiva della possibilità rischiosa di un valore atteso uguale, come una possibilità su tre di salvare 600 vite.

 Al secondo gruppo è stata fornita una diversa formulazione dei due programmi: “Se il Programma C viene adottato, moriranno 400 persone. Se il Programma D viene attuato, vi sarà 1/3 di probabilità che nessuno muoia, e 2/3 di possibilità che 600 persone muoiano”.

Nel secondo problema, la scelta maggiore è di propensione al rischio (78%). La morte certa di 400 persone è meno accettabile rispetto a due possibilità su tre che 600 persone muoiano.

Questo e altri esperimenti simili mostrano che molte delle nostre decisioni sono profondamente distorte dal modo in cui le informazioni ci vengono presentate. Abbiamo la tendenza ad evitare il rischio, quando ci viene presentato un quadro positivo, ma è più probabile che accettiamo il rischio quando abbiamo davanti un quadro negativo.  L’effetto framing è un pregiudizio cognitivo che ci porta a decidere tra diverse opzioni in base al modo in cui ci vengono presentate le loro conseguenze positive o negative. Perciò, non analizziamo la situazione in modo obiettivo, ma diamo maggior peso ad alcuni fattori in base al modo in cui sono esposti.

Le persone sono maggiormente motivate ad evitare una perdita piuttosto che ad ottenere un guadagno e anche in base a questo possiamo comprendere come il contesto attuale, mediato dai mezzi di comunicazione, ci porti a prendere alcune decisioni senza effettuare un'analisi obiettiva della situazione in cui ci troviamo, portandoci anche agli estremi che stiamo vivendo: comprare 10 l di disinfettante, anche se non ci serve o 200 mascherine,anche se non sono consigliate, 20 kg di pasta, anche se non è necessario riempire la dispensa.

Abbiamo capito che la percezione del rischio ha poco a che fare con le statistiche e le informazioni reali che ci arrivano, va quindi considerata secondo una prospettiva "risk ad feeling" (Slovich at al. 2004) e non solo "risk as analysis". Le persone valutano il rischio di un'attività o di un evento basandosi non solo su ciò che sanno (cognizioni), ma anche su ciò che sentono (emozioni). Secondo questa prospettiva quindi le risposte ad un rischio dipendono in parte da influenze legate alle emozioni provate. Abbiamo da un lato una valutazione di tipo cognitivo, basata sulle conseguenze attese in termini di probabilità e costi/benefici, dall'altro una risposta emotiva che è determinata da diversi fattori come l'immediatezza del rischio, la sua chiarezza o anche dallo stato d'animo della persona in un determinato momento. La valutazione cognitiva e quella emotiva non sempre vanno nella stessa direzione: ad esempio sappiamo che è necessario fare una visita specialistica, ma possiamo rimandarla perché ci fa paura.

Un meccanismo psicologico che si lega alla prospettiva "risk ad feeling" ed è utile per comprendere la percezione del rischio è l'euristica dell'affetto (Finucane et al., 2000). Di fronte a situazione complesse, che richiedono elaborazioni cognitive impegnative, le persone tendono a basarsi maggiormente sulle informazioni veicolate dalle reazioni emotive.

L'emozione legata ad uno stimolo pericoloso, in quanto soggettiva e personale, può quindi essere soggetta a errori.

E' semplice comprendere quindi come ad esempio, un virus che si sta diffondendo, anche con una bassa probabilità di conseguenze importanti, faccia più paura delle conseguenze del riscaldamento globale. Le emozioni correlate ad un pericolo che percepiamo come vicino e imminente sono più forti rispetto a quelle che proviamo rispetto alle conseguenze dell'inquinamento, non tangibili nell'immediato.

La caratteristica del terrore associata ad un rischio ne influenza la percezione: tanto più un rischio suscita sensazioni di paura, tanto più la sua percezione non dipende da un'analisi cognitiva di costi e benefici e la sua pericolosità viene sovrastimata. Anche in questo caso il ruolo dell'informazione è essenziale e influenza la nostra percezione di ciò che succede intorno a noi. Inoltre un rischio a cui siamo "abituati" come potrebbe essere vivere di fianco ad un vulcano, tende a diminuirne la percezione di gravità, al contrario una fonte di rischio totalmente nuova, di cui non si ha avuto prima un'esperienza diretta, porta ad una sovrastima della sua pericolosità. La percezione del rischio aumenta anche nel caso in cui cresce il grado di esposizione personale. L'emergenza Ebola, che ha una mortalità stimata del 50%, ma è confinato in un'area lontana dalla nostra, fa meno paura dell'emergenza coronavirus, che ci tocca in prima persona.

Conoscere questi meccanismi di pensiero non ci rende immuni dal loro utilizzo nella vita quotidiana, può aiutarci però a comprendere sia le nostre reazioni, che quelle delle persone che abbiamo intorno.

In questo momento la paura è un'emozione non solo utile, ma anche necessaria, perché come abbiamo già detto ci protegge dai pericoli. Riuscire a introdurre un'analisi della situazione basata non solo sulle emozioni, ma anche sui dati reali ci permette  però di non passare dalla paura al panico, che può portare a reazioni esagerate, poco sensate e addirittura pericolose. Pensiamo a cosa succede se qualcuno inizia a correre e urlare in un luogo affollato: il panico porta a scappare, calpestando le persone che cadono, senza fare attenzione a chi abbiamo intorno o alle uscite di emergenza, anche se non abbiamo idea di cosa stia succedendo e del perché le persone abbiano iniziato a correre.

Il panico può creare più pericolo del pericolo stesso.

Letture utili:

https://angolopsicologia.com/effetto-framing-come-la-prospettiva/

https://www.psicologiacontemporanea.it/blog/la-paura-del-coronavirus-come-difenderci-e-affrontarla/

Prati, Gabriele & Cicognani, Elvira. (2011). Percezione e comunicazione del rischio: uno sguardo alla letteratura.

Arcuri L., Cadinu M. (1998) Gli stereotipi: dinamiche psicologiche e contesto delle relazioni sociali.

Castelli, L. (2004) Psicologia sociale cognitiva. Un'introduzione.