Conflitto e organizzazione nella città neoliberale: l'attualità dei centri sociali

Alcune considerazioni del Cso Pedro

30 / 1 / 2019

Discutere intorno al ruolo del “centro sociale” è di per sé un fatto in continua evoluzione, innervato dagli stimoli quotidiani che si ricevono dall’essere parte di una storia “di movimento” e “in movimento”. Allo stesso tempo riteniamo fondamentale fissare alcuni punti utili per leggere il ruolo di questi spazi, e in generale delle forme di autorganizzazione, nella fase attuale.

Organizzare l’eccedenza

Il materialismo storico, con il quale tentiamo sempre di guardare al mondo, ci aiuta a comprendere come si evolve, oggi, la “sussunzione reale della vita nel capitale”, ovvero la condizione oggettiva di riproduzione della vita nella quotidianità. Si tratta dello stadio di sviluppo più avanzato del capitalismo nel quale la vita stessa, in tutte le sue articolazioni produttive e riproduttive, è pienamente integrata nella forma sociale del capitalismo, nei suoi meccanismi di comando e sfruttamento. Non siamo più solamente piegati alle regole del capitale, ma sempre più creati, formati e strutturati dentro un rapporto di capitale. Non c’è un fuori dal rapporto di capitale; c’è solo un dentro. Il capitalismo non è solo un modello di funzionamento dell’economia; è un rapporto sociale che crea la società intera. Per parafrasare il vecchio, ma sempre valido, detto operaista “dentro e contro il capitale”, oggi questa enunciazione di antagonismo radicale va pienamente oltre i confini della fabbrica fordista, si dispiega in tutte le articolazioni complesse della “fabbrica sociale”, della macchina globale della circolazione produttiva e riproduttiva.

Una sussunzione che, però, non è mai totale, perché si scontra con la possibilità del bios di sovvertire il rapporto sociale di dominio. La potenza della vita è un divenire in continua trasformazione e nessun apparato di cattura di bisogni e desideri può impadronirsi completamente del flusso vitale. Come questa eccedenza da possibile diventa reale? Come dalla dimensione meramente oggettiva si passa a quella soggettiva? Quali gli spazi in cui l’eccedenza si organizza assumendo i tratti di potenza collettiva rivoluzionaria?

Sono le domande che hanno sempre accompagnato il nostro agire politico, ma che nella fase attuale assumono una nuova valenza fondativa. Questo perché si collocano in quell’interregno di gramsciana memoria, in cui il “vecchio” modello di governance sta morendo, ma il “nuovo” non è ancora nato, come fosse situato nella fase magmatica della Pangèa. Una fase in cui l’agire autonomo della soggettività di classe può schiudere spazi inediti, come stiamo vedendo in Francia con i gilet gialli, a patto che si fondi sull'ambizione di plasmarsi oltre le forme organizzative e i lessici politici del passato. Questa ambizione consiste nel cogliere i punti di rottura principali del rapporto contemporaneo tra capitale e vita, trasformarli in un nuovo divenire articolato sul piano teorico, sul piano del linguaggio egemonico di medio-lungo periodo, sempre “messo in continua prova e revisione” dalle pratiche materiali di lotta ed organizzazione.

Il centro sociale come forma organizzata e organizzatrice

È necessario costruire una nuova narrazione, che riaffermi la capacità da parte di un “centro sociale” di essere luogo organizzato e organizzatore, nel contempo, della cooperazione sociale e del conflitto, all’interno di un piano spaziale in cui la dialettica tra “locale” e “globale” si è arricchita di nuove potenzialità e contraddizioni.

Una di queste riguarda senza dubbio l'Unione Europea, che continua a rappresentarsi ai suoi cittadini come vampiro-esattore dell'austerity, inquadrata come primo nemico da abbattere all'interno di una campagna elettorale permanente che forma un gioco grottesco, sospeso tra l'impossibilità della chiusura del cerchio della governance continentale (vedi la recente manovra finanziaria italiana) e l’evocazione di una sovranità nazionale assolutistica, pura mistificazione nell’epoca di progressiva dissoluzione dello Stato Nazione.

I temi del razzismo, del fascismo, del sessismo, della lotta al climate change e all’impoverimento di massa devono pertanto uscire dai binari di quella finta dicotomia tra globalismo e sovranismo, ma allo stesso tempo accompagnare e distinguere la nostra capacità di azione in uno spazio molteplice, che parta dalle mura del centro sociale e guardi immediatamente alle lotte globali e allo sviluppo di processi organizzativi transnazionali.

La fase attuale ci consegna un quadro in cui la crisi della rappresentanza novecentesca ha rotto qualsiasi rapporto mediato tra capitale e vita. C’è bisogno, al di fuori dell’autonomia del politico, di leve organizzative capaci di intersezionare le istanze e trasformarle in lotte moltitudinarie anticapitaliste. Per questa ragione i centri sociali assumono un ruolo centrale e, per certi versi, inedito che guarda immediatamente al rapporto tra soggetto politico e moltitudine. È in questa relazioni che la discussione assume valenza ontologica, perché interroga la nostra capacità di creare pratiche e soggettività autonome nella molteplicità dei contesti in cui ci troviamo ad agire.

La città come spazio di contesa

La capacità di innervare il tessuto sociale di azioni e discorsi “autonomi” è quella grammatica che ci permette di cogliere le spinte sociali, di politicizzarle e potenziarle. Per assumere concretezza questo deve avvenire a partire dal livello di prossimità spaziale in cui operiamo e in particolare lo spazio urbano. La città neoliberale è il luogo dove il conflitto tra capitale e vita emerge in tutta le sue contraddizioni. Da un lato ci sono i dispositivi della rendita, che gerarchizzano la città attraverso dispositivi di inclusione differenziale definiti in base a linee etniche e socio-comportamentali. Dall’altro ci sono corpi sociali che reclamano spazio, cittadinanza, potere. Vite che si intrecciano in quel confine tra “centro” e “periferia” diventato sempre più mobile, relazioni che si assemblano e si trasformano in laboratori, all’interno di un contesto dove i corpi intermedi tradizionali – partiti, sindacati, associazionismo – sono pienamente investiti dalla crisi della rappresentanza.

È in questa ambivalenza che i centri sociali si affermano sempre più come luoghi di rottura e di elaborazione, non solo per un’intrinseca azione che sottrae spazi reali alla rendita urbana, ma soprattutto per la capacità autonoma di intercettare le spinte innovatrici e conflittuali che attraversano la città. Il superamento del “centro sociale-ghetto” è ormai avvenuto almeno due decenni fa e la sfida che si apre adesso è quella di trasformare l’esercizio di contropotere nella costruzione di istituzioni del comune. Istituzioni del comune che non sono tali solamente perchè cooperano al loro interno, anche il capitalismo estrae valore dalle forme di cooperazione: istituzioni del comune sono tali poiché si danno una forma autonoma e creano la possibilità di fare del Comune un agente autonomo libero ed estendibile. Una sfida che inevitabilmente fonde le categorie dal politico e del sociale, che guarda al piano complessivo per ambire alla creazione di una città altra, di un mondo altro. Per questa ragione è necessario ragionare all’interno di piani diversi, da quello – costituente! - del conflitto a quello della rappresentanza e delle istituzioni.

A questo proposito crediamo che l’approccio più corretto debba avere come riferimento situazioni contingenti e circoscritte. Il caso del civismo politico, che negli ultimi anni ha investito il dibattito pubblico sulla rappresentanza, è emblematico in tal senso. Nel momento in cui il civismo è stato estrapolato dai piani locali ed è stato teorizzato come modello – o addirittura come nuova forma di militanza metropolitana – se ne colgono più limiti che pregi. Leggendolo in linee tendenziali, il civismo riproduce tutti i “difetti” dell’autonomia del politico, in primo luogo per non aver mai saputo affrontare a pieno il nodo della lottizzazione dei vecchi partiti, in secondo perché continua a ricercare la sua ragione di essere negli istituti di uno Stato di diritto sempre più in dismissione. Emerge così la contraddizione primaria di non liberarsi mai dal “vecchio”, sovradeterminando con una sorta di “assemblearismo verticista e gerarchizzato” le istanze maggioritarie delle assemblee larghe e plurali delle quali dovrebbe essere espressione e alle quali, spesso, non riesce a dare adeguata concretezza politica ed esecutiva.

Partendo da questi presupposti, è difficile immaginare, nel quadro della post-democrazia, azioni nella rappresentanza politica che eccedano i livelli di compatibilità con il potere costituito; e questo diventa maggiormente problematico quanto più si allarga la scala di riferimento spaziale, diventando nazionale ed europea. Questo non vuol dire che la questione della rappresentanza vada affrontata con un approccio antagonistico tout court, ma è essenziale intenderla in un rapporto che sappia discernere linearmente tra piano tattico e strategico, amministrazione/governo e autogoverno, potere costituito e istituzioni del comune.

Il “caso padovano”, che ci vede in qualche modo protagonisti, può fornire un interessante piano di lettura. Le elezioni comunali del 2017, e in particolare il boom elettorale di Coalizione Civica, hanno prodotto a Padova un’anomalia capace di rompere quel blocco di potere che aveva imbrigliato la città in un rapporto tra rappresentanza e movimenti ancora fortemente ancorato ai retaggi degli anni ’70. Una “novità” che va interpretata al di là del mutato quadro elettorale, ma nella possibilità concreta di esercitare nuovi rapporti di forza. Rapporti di forza che nascono da esperienze di lotta e che si sono espressi, ad esempio, con gli scontri del 17 luglio 2017 contro la presenza a Padova di Forza Nuova a pochi giorni dall’insediamento dell’amministrazione Giordani, che hanno spostato in avanti il baricentro del dibattito pubblico e politico cittadino. E lo hanno fatto grazie al primato della lotta politica e alla forza autonoma dei movimenti, non attraverso processi subordinati alla verticalità dell’autonomia del politico.

Contrariamente a chi ha scelto “il governo” come sbocco politico, tentando goffamente di leggere in maniera omogenea esperienze “municipaliste” molto diverse tra loro, la nostra direttrice è quella di avere uno sguardo da un lato analitico e dall'altro immediatamente pratico, che ci ha evitato di cadere in semplificazioni che stanno andando a ledere e decomporre i processi di mobilitazione sociale radicale nel nostro paese.

In funzione di questo, il nostro approccio non può che porsi in termini materialisti. Interazione, discussione, contrapposizione, progettualità nuove al servizio della città, proposte, lotte: il tutto come modus operandi di una costruzione quotidiana, quartiere per quartiere, che vede i processi autonomi e istituzionali (ove possibile) mai ibridarsi, ma porsi all’interno di una dialettica conflittuale.

Ciclo reazionario e attacco ai centri sociali

Proprio per la loro capacità di aggregare e creare contropotere territoriale (e non solo), i centri sociali sono duramente messi sotto attacco dal potere costituito. Un attacco che viene da lontano e che spesso ha avuto la sua elaborazione politica nelle tante amministrazioni comunali di questo Paese guidate dal Pd, ma che oggi assume connotati nuovi, direttamente connessi con il corso storico reazionario che stiamo vivendo su più livelli.

La narrazione della destra salviniana si ostina nel tentativo repressivo e mediatico di mettere all'angolo le esperienze sociali, soprattutto laddove sono emerse come laboratori politico-sociali della solidarietà, di cultura e saperi emancipati dai processi finanziari, di forme di vita avulse da razzismo e sessismo. Il potere statuale, svuotato di sovranità organica, amplifica il suo carattere coercitivo, attaccando tutti quei processi che ricercano indipendenza e autonomia del bios sociale.

Nel contesto nazionale, la ricchezza e potenza che si manifestano nella vita dei centri sociali fanno paura a chi oggi, nell'impasse della “sinistra”, non mette in discussione le identità e le eredità storiche. Ma fanno paura soprattutto al populismo razzista di Salvini, poiché il loro agire politico è in grado di smascherare i simulacri continuamente proposti dal governo giallo-verde.

Non a caso la linea di continuità tra Marco Minniti e Matteo Salvini è rappresentata dalle politiche di sgomberi e repressione nei confronti di chi oggi indica in maniera lineare percorsi di alternativa. Non a caso il Veneto leghista, cogliendo il vento destroide repressivo, inizia a muovere i primi passi contro i centri sociali della nostra regione. Quel Veneto leghista che ha devastato le nostre città e i nostri territori con grandi speculazioni finanziarie, elargendo fette di patrimonio pubblico alle grandi imprese, ha costruito un’ideologia basata sullo sviluppo illimitato delle forze produttive e il falso mito del progresso, fino ad arrivare ai disastri idromorfologici ambientali degli ultimi mesi.

Per contrapporsi a questo attacco la dimensione resistenziale è fondamentale, ma la posta in gioco è molto più alta. La sfida da cogliere è legata a due parti di società che si contrappongono su temi molto più ampi: vita contro controllo securitario; produzione e riproduzione illimitata del capitale contro ricerca e progettazione di forme di vita altre, contro il consumismo sfrenato, per una liberazione dall’alienazione delle merci e del denaro; ricatto e sfruttamento contro reddito e diritti; devastazione ambientale contro chi lotta per un nuovo equilibrio tra uomo e natura.

E questo scontro non potrà esser altro che uno scontro duro, sul quale non fare un passo indietro, sul quale mettere in gioco molto e mettersi in gioco tutte, tutti e tutto: per riaffermare con forza, in maniera moltitudinaria, la vita e l'esistenza di un altro mondo possibile.