Compagne di sogni

Il quinto articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo contributo scrivi a: [email protected]).

2 / 6 / 2020

Il quinto articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo contributo scrivi a: [email protected]).

Un’altra mattinata sprecata. Da quando è iniziato il lockdown, il sonno è il mio cruccio peggiore. Fatico ad addormentarmi se non a un’ora molto tarda; ci riesco solo grazie a qualche goccia di olio di CBD e tiro avanti fino alla mattina presto, quando canonicamente mi sveglio di soprassalto dopo qualche incubo terribile. Ho sempre fatto sogni complessi (mia madre diceva, già quando ero bambina, che sognavo romanzi interi), ma con questa quarantena mi sono superata.

Ogni notte intorno alle 3:00 - almeno questo l’orario che riesco a ricostruire, non senza un certo riferimento esoterico per nulla sgradito - ho appuntamento con gli scenari più assurdi: bombardamenti, calamità naturali, la casa che mi crolla in testa, malattie incurabili. La costante paradossale di tutti questi scenari di distruzione collettiva è che la vittima sono io sola.

Da qualche tempo, riemergendo dall’incubo di turno col fiato corto, noto infatti che nessuna di queste ambientazioni catastrofiche ricade su un gruppo. O meglio: nel sogno ho sempre la sensazione che la calamità si abbatta su un grande numero di persone, ma mi tormenta la consapevolezza infestante che è da sola che dovrò affrontarne le conseguenze. Così mi sorprendo a scappare da bande scure coi loro manganelli in un bosco privo di sentieri tracciati, senza sapere se prima o poi troverò altre compagne e compagni in fuga. La casa mi crolla in testa senza che nessun_ mi dia un ultimo bacio; muoio di fame e di sete in un angolo buio. A volte, invece, comincio a notare il tremore febbrile delle lampadine sul soffitto, un paio di libri sono scaraventati sul pavimento a suggerire una scossa violenta; in altre occasioni, riconosco i sintomi di un virus che spaventa il mondo, ma che oggi ucciderà proprio me.

Ho riflettuto a lungo su questa sorta di solitudine collettiva che infesta i miei sogni, tentando di darmi una spiegazione a partire da me, dal mio particolare al generale. Mi viene voglia di chiedere ad altr_ della mia generazione se sentono la stessa cosa.

Sembra che il lockdown, al di là di eteree promesse di redenzione nella fase due, tre o enne - per persone come me, precarie della ricerca filosofica, davvero vane, in quanto tutte le fasi prevedono sempre lo stesso scenario esposto alle deadlines e alle luci blu degli schermi - il lockdown nella sua interezza, dicevo, ha realizzato l’incubo peggiore di noi sfigate, cresciute in seno e all’insegna della recessione economica.

Mi riferisco alla consapevolezza che la crisi riguarda tutt_, ma che è da sole che dobbiamo pagarne le conseguenze. E quale momento migliore di un isolamento, quando il termine alienazione si fa universale concreto, direbbe qualcuno, per precipitare in questo incubo? Presto si manifestano i giudizi delle generazioni più adulte, ancora come fantasmi: la vostra generazione ha fallito, non avete inventato il vostro futuro perché non siete state in grado di fare la rivoluzione che progettavate, e altre amenità che si palesano ancora da un pulpito ideale e altissimo. Arrivata ormai al momento del goccio di caffè freddo mattutino, mi chiedo come possiamo liberarci dai giudizi infestanti, insieme all’incubo della solitudine collettiva.

Come sempre - così, d’altronde, mi ha abituata la mia formazione umanistica - devo accettare di non avere soluzioni precise al mio problema. Mi viene in mente, forse ancora presa dall’intontimento mattutino, che mi piacerebbe avere delle compagne e compagni di sogno. Forse, se i miei incubi quotidiani sono così utili da mostrarmi ciò che temo di più, possono anche indicarmi la via giusta per scansarmi da quella solitudine collettiva che tanto mi perseguita. In effetti, questa solitudine è ovunque.

Ogni volta che, durante questo isolamento, ho chiesto ad amic_ e compagn_ di lotta come si sentivano, le risposte erano vaghe, ma dense di angoscia, terrore per le conseguenze che il precariato ormai onnipresente avrà sulla loro (nostra) salute, sull’accesso al welfare, sulla capacità di progettare il proprio futuro. In effetti, è proprio questo che succede nei miei incubi: l’esposizione ad una catastrofe totale e alle sue conseguenze particolari, sulle nostre vite, sui nostri corpi, persino sui nostri sogni.

Non so a voi, ma a me sembra che il dolore che proviamo ci appaia così impossibile da esprimere perché per essere lenito esigerebbe un cambiamento radicale. Non è, in altri termini, il lavoro che faccio a dover cambiare, ma l’intero impianto del mercato che lo regola. Non è la mia mancanza di tempo a farmi soffrire, ma un sistema di vita che ruba tutti i miei attimi di felicità.

Ecco che i miei incubi catastrofici mi mostrano che c’è ancora molto per cui lottare e che la nostra felicità, la cosa più importante, non si conquista con un contratto con condizioni meno ridicole o con una casa più grande, come ci hanno fatto credere. Non vogliamo solo questo, vogliamo tutto, come cantavano gli operai della FIAT in sciopero tanti anni fa. Allora, mi dico anche da sveglia, sì, voglio compagne e compagni di sogno, un intero corteo di sognatrici e sognatori ribelli, che si cercano nei boschi, si tengono per mano durante terremoti fittizi, scongiurano per sempre quella solitudine fantasmatica, per urlare fieramente che vogliamo tutto. Costi quel che costi.

La compagine di sognatrici e sognatori che immagino può scacciare l’incubo dell’alienazione. Può smascherarla come costrutto sociale e politico, a dispetto di chi la racconta come un predicato necessario o, peggio, “naturale” dell’essere umano. Può indicare la necessità di una critica complessa, che rimetta al centro le nostre vite, che si occupi della nostra felicità, che si appropri di un cambiamento radicale senza solo subirlo. Le compagne e compagni che immagino scoprono di poter ancora inventarsi un mondo completamente diverso. Magari, iniziando a sognarlo.