Come non si racconta un abuso, le distorsioni dei media tra sensazionalismo e morbosità

A Padova i media hanno raccontato un abuso pedofilo, basandosi su stereotipi, finendo per non rispettare la vittima.

17 / 3 / 2021

Lo stupro e la pedofilia non sono ”rapporti sessuali”, né “relazioni sentimentali”.

Sembra strano doverlo ribadire, ancor più assurdo dopo averne parlato apertamente lo scorso 8 marzo, aprendo un dibattito con i giornalisti riguardo alla narrazione violenta e patriarcale che la stampa dà in occasione dei femminicidi ed aver ricevuto il plauso e l'appoggio di questi ultimi.

Eppure, proprio ieri mattina, sulle testate giornalistiche più lette del nord-est capeggiavano dei titoli che non ci saremmo mai aspettati di leggere: “Scandalo in parrocchia: faceva sesso con il catechista da quando era bambino” e “Scandalo in parrocchia, faceva sesso con il catechista e lo ricattava.” 

Il gergo utilizzato all'interno degli articoli per raccontare i dettagli, narrati in maniera voyeuristica con dovizia di particolari e retroscena, purtroppo allontana qualsiasi dubbio sul fatto che la scelta di quel titolo possa essere stata una mossa clickbait di pessimo gusto.

Gli elementi oggettivi della vicenda da soli basterebbero a mettere a nudo l’abominio di una realtà provinciale ancora profondamente arretrata e bigotta: la vicenda che viene alla luce solo nel momento in cui la vittima degli abusi finisce sul banco degli imputati; i sospetti della famiglia della vittima che vengono confessati sottovoce soltanto al parroco, il quale - chiamato a testimoniare - non ricorda più i fatti; nessuno che denuncia gli abusi - si sa che i panni sporchi si lavano in casa; gli amici del catechista pedofilo che decidono di rivolgersi agli inquirenti solo nel momento in cui hanno degli elementi per accusare la vittima di aver ricattato economicamente il suo carnefice; la scuola e la società completamente assenti e, dulcis in fundo, l'autore degli abusi (oggi deceduto) che arriva addirittura a costituirsi parte civile in Tribunale!

Ci sarebbero stati molti modi per raccontare la vicenda sulla carta stampata, quasi tutti in grado di dare la giusta dignità alla vera vittima di questa storia drammatica, eppure anche stavolta è stata scelta una modalità narrativa “tossica” che tende a ribaltare i ruoli. 

Si è scelto di definire “ricattatore” un bambino di 10 anni abusato da un uomo di sessant'anni più grande di lui e del quale si fidava; si è scelto di trascrivere per intero le dichiarazioni del pedofilo, dandogli voce e dando voce anche ai suoi meschini tentativi di giustificarsi, arrivando, in maniera piuttosto esplicita, a colpevolizzare il bambino di averlo sedotto.

Gli abusi, reiterati negli anni, vengono descritti come “una relazione di amicizia sfociata in rapporti sessuali” o “incontri di sesso”, ignorando che tali definizioni possono essere utilizzate solo in caso di rapporti consenzienti tra persone adulte. 

Non si fa alcun cenno e non si dà alcuna voce al dolore fisico e psicologico del bambino -oggi divenuto giovane - ma, anzi, si tende a dipingere la sua figura come quella di una persona che ha approfittato della sua condizione per ricattare il povero catechista.

Le parole d'ordine della piazza dell’otto marzo scorso a Padova, vanno ribadite in quest’occasione: «quando i media, divulgano la convinzione che degli abusi possano essere raccontati come “relazioni” - ancora più grave quando le vittime sono donne o minori -  stanno contribuendo a fortificare e riprodurre la cultura dello stupro, agendo un’ulteriore violenza e discriminazione». 

E questo a noi non va più bene. Una narrazione corrotta darà vita a storie nere. 

Troppo spesso sottovalutiamo quanto sia potente l’influenza che la stampa e l’opinione pubblica esercitano con le loro pressioni.

** Pic Credit: Da web