Come giano bifronte pt. 1: la pancia del popolo

Classe, risentimento e privilegio nel populismo occidentale

6 / 6 / 2019

Il bar del Popolo

Da diverso tempo, qualcosa non mi torna. Quando vado al bar, quando parlo con le persone della mia famiglia che sono più in contatto con la “gente vera” (qualsiasi cosa voglia dire), quando leggo la lunga serie di commenti sui social conditi di discorsi d’odio e di entusiastico fideismo per il governo giallo-verde e, soprattutto, per Salvini. Non mi torna qualcosa neanche quando vado al mercato e nelle rare occasioni in cui mi scontro con dei sostenitori del “momento populista”. Sarà che guardo la realtà con i miei occhiali rosei del privilegio, mi dico: non vivo nella povertà assoluta e frequento ambienti estranei a un certo disagio e problematiche sociali. Non posso capire da dove nasca il consenso a questo governo e l’ostilità verso i migranti, tra gli altri, perché la mia condizione mi permette di avere un supporto materiale nel presente e un accenno di prospettiva futura. Sono questi i due argomenti, in sintesi, sollevati sia dai membri del Popolo stretti attorno al/ai loro leader, sia dai sovranisti o populisti sedicenti di sinistra di fronte alle critiche che denunciano i sentimenti xenofobi alla radice del cosiddetto Popolo. Non puoi tacciare di razzismo chi non ha altri mezzi per tentare di migliorare la sua esistenza, martoriata da decenni di neoliberalismo con i suoi tagli al welfare, il calo del potere d’acquisto e del costo del lavoro, l’austerità.

Eppure, come dicevo, qualcosa non torna. In primo luogo, perché è sempre opportuno individuare attitudini sociali razziste e farne una questione politica, da qualunque classe sociale siano espresse; un atto intellettuale dovuto per non infantilizzare i ceti meno abbienti, i quali, secondo la logica populista e sovranista, non agirebbero che sulla spinta di un fantomatico “moto di pancia” perché, in fin dei conti, sono dei “senza ragione”. Come tutti gli esseri umani, vecchi e nuovi poveri non si schierano da una parte o dall’altra seguendo unicamente l’istinto di sopravvivenza, ma prendono decisioni sulla scorta di convinzioni, credenze, mentalità strutturate su tradizioni passate e immaginari futuri. Essi difendono e praticano un’economia morale, per dirla con lo storico Edward P. Thompson,[1] che può innestarsi su assunti di diverso orientamento politico. In secondo luogo, la sofferenza economica non è esaustiva nello spiegare il supporto delle classi medie proprietarie e delle classi ricche nei confronti della Lega e del Governo. Ecco uno degli stridii che sento nella melodia del canto del Popolo per come viene interpretato dai seguaci dell’opzione populista. Questa stonatura diventa particolarmente acuta quando mi interfaccio con alcuni campioni dei favoreggiatori delle politiche governative e leghiste, la cui fisiognomia è molto distante dall’immagine del proletario con a carico una famiglia monoreddito, in attesa dell’assegnazione di una casa di edilizia pubblica e a stento capace di arrivare a fine mese. Non è così, almeno, per quei vecchi elettori del Pci abitanti della prima campagna toscana e avventori dei circoli popolari che adesso votano Lega, nonostante la villetta a schiera, la pensione assicurata, figli con un impiego stabile. Non è così neanche per molti votanti leghisti del produttivo Nord Italia, dove vi è più concentrazione della ricchezza.

Certo, non voglio dire che non esista povertà economica e che le classi meno abbienti non si esprimano a favore del regime populista. Piuttosto, vorrei mettere in questione l’assolutezza di questo argomento per fare emergere le estremità della miccia del populismo, e ripercorrerne così l’intera trama fino al suo punto di esplosione, avvenuto l’anno passato e ingigantitosi nel corso degli ultimi mesi. Nel fare tutto ciò, non potrò fondare il mio argomento sulle intuizioni empiriche collezionate nella mia esperienza soggettiva. Cercherò quindi di appoggiarmi su studi, ovviamente criticabili e ben lungi da essere verità universali, che inquadrano una tendenza individuabile in diversi contesti dove ha preso piede la variante populista, nello specifico gli Stati Uniti. Proprio qui la comunità scientifica e l’opinione pubblica stanno maturando delle letture della vittoria di Trump – primo leader populista reazionario ad aver conquistato il timone di una potenza occidentale – che decostruiscono la cosiddetta interpretazione “meccanica”, la visione secondo cui, cioè, i dimenticati del neoliberalismo (i left behind) avrebbero risposto alla pressione economica e all’erosione della previdenza sociale con l’elezione del Tycoon. Secondo tali studi sociologici e politologici, il Governo del primo imprenditore nella storia degli Stati Uniti incarnerebbe il contraccolpo culturale (cultural backlash) da parte dei soggetti dalle identità dominanti: in linea generale, gli uomini bianchi perlopiù eterosessuali e appartenenti alla classe media. Minacciati dalla conquista di diritti, libertà e riconoscimento sociale ottenuti dai soggetti subalterni (donne, persone LGBT, migranti, minoranze religiose, ecc.), la tecnica di autodifesa degli uomini bianchi avrebbe previsto l’elezione della figura che più potesse proteggerne il privilegio, agitato a danno di tutti gli altri e le altre. Contrariamente alla vulgata, i soggetti dominanti, per quanto influenzati a vario grado dagli effetti della crisi del neoliberalismo, non farebbero unicamente parte dei gruppi e classi sociali che versano in una situazione di estrema povertà e di marginalizzazione politica.

Purtroppo, in Italia ricerche e dati così mirati sono assenti dal novero delle analisi del governo giallo-verde e dell’ascesa della Lega. Tuttavia, possiamo provare ad osservare alcune informazioni che abbiamo con uno sguardo differente e a stabilire analogie con altri contesti, seppur consapevoli della parzialità di una tale operazione. Ad ogni modo, applicare un filtro di tipo culturale all’analisi del populismo reazionario incontra non poche difficoltà se lo rendiamo avulso dalla crisi economica, dalla ristrutturazione del capitale e dallo statuto contemporaneo del lavoro. In una riflessione che facevo qualche mese fa sul ritorno della caccia alle streghe sotto nuove vesti, parlavo sibillinamente della concomitanza di misoginia e accumulazione originaria, intendendo con quest’ultima lo spostamento delle frontiere dello sfruttamento fatto sulla pelle delle donne. Non sottintendevo, cioè, soltanto le occasioni inedite di profitto che hanno i capitali con le privatizzazioni del pubblico e la liberalizzazione di alcuni istituti giuridici (si prendeva a esempio il mediatore familiare previsto dal Ddl Pillon) promosse dai governi populisti reazionari, ma anche la possibilità di estrazione di valore generata dalla compressione di diritti, libertà e riconoscimento sociale dei soggetti subalterni. Populismo reazionario e neoliberalismo non sarebbero in contrapposizione, dunque: come il dio Giano, essi sono due facce della stessa testa, semplicemente puntano gli occhi verso due orizzonti distinti e complementari. In che senso il primo è il volto autoritario del secondo? Per rispondere alla domanda, dobbiamo tenere assieme la prospettiva culturale (l’attacco ai subalterni e alle subalterne) con la necessità di riaffermare la competizione del soggetto imprenditoriale, di sopperire alla riduzione della previdenza sociale e di trovare nuovi modi di sfruttamento del lavoro dopo la crisi finanziaria del 2008. L’economia morale dei populisti e dei loro votanti, di conseguenza, non rispecchierebbe tanto un rifiuto in toto del neoliberalismo e dei suoi presupposti quanto un suo ritocco con tinte di maggiore sostegno statale e di approfondimento delle gerarchie sociali. Nel tentativo di spiegare al meglio questa tesi, proverò a organizzare per gradi l’argomentazione.

Il «contraccolpo culturale» come perdita del privilegio

Alcuni quotidiani come il Guardian, il New York Times e il Washington Post hanno riportato i risultati di articoli scientifici che hanno analizzato il voto statunitense del novembre 2016. La narrazione per cui la classe lavoratrice e in prevalenza operaia (i blue collars) avrebbe voltato le spalle ai Democratici per esondare verso Trump, semplicemente non reggeva di fronte ad alcune constatazioni, prime fra tutte l’astensionismo e il fatto che Hillary Clinton avesse ottenuto comunque la maggioranza dei voti in termini numerici (non sufficiente, per il sistema elettorale americano, per portarla fino all’Ufficio Ovale). Diffidando del racconto sulla reazione delle classi popolari e sulla loro conversione ai Repubblicani, uno studio[2] ha messo in luce il minimo comune denominatore del voto repubblicano, cioè il colore della pelle: la maggior parte della popolazione bianca avrebbe dato la propria preferenza elettorale a Trump.[3] Le inchieste sociologiche mostrano, inoltre, che tra i moventi della scelta elettorale della popolazione bianca giocano un ruolo di primo piano razzismo e sessismo, non preoccupazioni legate al lavoro e alla ricchezza materiale. Una tesi, questa, ripresa anche da un illuminante articolo di Diana Mutz,[4] nel quale l’autrice raffronta le federali del 2012 con quelle del 2016, notando un cambiamento dell’opinione pubblica da posizioni più progressiste a visioni più conservatrici sul versante dei ruoli tradizionali di genere, dell’accoglienza ai migranti e dell’uguaglianza di etnia. Il maggior bacino di voti su cui ha potuto contare Trump, dunque, proverrebbe da una chiusura reazionaria insita nel cuore dell’elettorato americano bianco avvenuta nei precedenti quattro anni. Anche nell’opinione di Mutz, la percezione del peggioramento economico delle condizioni di vita e la precarietà lavorativa non sarebbero state all’origine della mobilitazione del voto bianco, bensì la sensazione di minaccia per la perdita del proprio privilegio di status legato al genere e all’etnia di appartenenza. Dopotutto, è sufficiente gettare un occhio sui dati degli elettori per sfatare il mito della classe operaia/lavoratrice dal gusto repubblicano,[5] in quanto ne emerge che nel 2016 le classi sociali venute in sostegno a Trump sono state perlopiù quelle medio-alte (con un reddito superiore ai 50.000 dollari annui); la working class non rappresenterebbe che un terzo del totale dell’elettorato repubblicano.

Spostandoci sull’Italia, vorrei proporre una lettura, certamente approssimativa, del consenso populista attraverso delle lenti di analisi simili al caso Trump, seppur consapevole delle differenze storiche e politiche tra i due Paesi. A mia conoscenza, non esiste ancora uno studio sull’Italia che abbia incrociato la provenienza della classe sociale, il livello di reddito e le opinioni sui cosiddetti temi culturali degli elettori del marzo 2018. Se è vero, in linea con un articolo che abbiamo recentemente ripreso, che le classi sociali con un reddito e un’istruzione più alta hanno votato per il PD, da ciò non si deduce un rapporto biunivoco con mentalità più inclini all’uguaglianza, o, detto con il lessico economico, al globalismo. Secondo le ultime analisi di dati, infatti, molti degli elettori del PD con più di 65 anni sarebbe migrato su posizioni più vicine alla Lega per quanto riguarda le politiche sulla sicurezza e l’accoglienza ai migranti;[6] in più, circa un terzo del bacino democratico, benché restando fedele al partito, apprezza l’operato di Salvini sul blocco dei porti. Sebbene le preoccupazioni della cittadinanza non sottostimino le misure inerenti al lavoro e agli ammortizzatori sociali, allo stesso tempo nella scala delle priorità spicca proprio il tema della sicurezza.[7] Peraltro, la propensione di classe (medio-alta) si rintraccia soltanto nei confronti del PD, mentre per tutte le altre forze politiche assistiamo a una sorta di coalizione tra classi e individui con appartenenze variegate.[8] Di conseguenza, risulta fuorviante attribuire alla Lega la caratura di partito delle classi popolari. Il consenso della Lega nelle regioni del Nord Italia e tra il ceto imprenditoriale lombardo-veneto presenta un volto dai tratti diversi, tra cui è molto visibile all’occhio quello della classe media proprietaria. Suggerisco di vedere nella reazione alla minaccia per il proprio privilegio il collante tra quest’ultima e parte dei lavoratori dipendenti o autonomi, suggellato dalle urne dell’anno scorso e in moto ascendente negli ultimi mesi. Senza correre il rischio di sottovalutare l’influenza delle condizioni economico-sociali, vorrei mettere in primo piano un altro fattore legato alla contrapposizione città-provincia che è emerso nelle recenti elezioni europee. Il partito di Salvini diventa egemone nelle città di provincia e nelle campagne, doppiando il suo principale sfidante (il PD) in alcune regioni. In un articolo del Sole 24 Ore si sottolinea a ragion veduta che nelle regioni del nord e del centro-nord le province non corrispondono necessariamente a territori che versano nel dissesto economico, al contrario delle zone extra-urbane del sud. Gli abitanti dei territori più ricchi, in modo non dissimile dai Paesi del Nord Europa, spingono per avere maggiore sicurezza e chiusura nei confronti dei migranti, e, in parallelo, favoriscono chi promette sgravi fiscali.  Nelle grandi città, dove vi è compresenza tra concentrazione della ricchezza e abbandono delle periferie, la Lega non sfonda; sebbene in molti quartieri popolari Salvini goda di un forte riscontro, non si può ancora tracciare una legga generale al riguardo, poiché i contesti metropolitani presentano sensibili variazioni. Certo, la leadership di Salvini, più che il partito della Lega in sé, sta penetrando anche nelle regioni del sud, ma al momento lascia ancora il primo posto al M5S.  Al netto della parzialità delle indagini calibrate sulla professione degli elettori, che non mettono in rilievo la situazione economica effettiva, Salvini ottiene la maggioranza assoluta dei voti solo tra gli autonomi, i commercianti e gli imprenditori (arrivando al pari con la percentuale di astenuti), mentre per le altre professioni, nonostante abbia la maggioranza relativa, non espande la sua egemonia tra gli elettori e gli astenuti.

A fronte della vivisezione del voto, la considerazione dell’aspetto culturale del consenso leghista/populista diviene irrinunciabile. La saldatura tra il discorso politico di Salvini e gli ambienti del cattolicesimo integralista, i continui richiami, più o meno velati, alla dittatura fascista, la crescita in termini numerici dei consensi a Fratelli d’Italia alle europee, il generale attacco alle libertà civili (che includono i farneticanti discorsi su “La droga”…) inducono a riflettere sulla torsione reazionaria dei sostenitori del “momento populista” e dell’elettorato, soprattutto sui temi che riguardano l’eguaglianza e la libertà degli individui che a vario livello non aderiscono alla norme per genere, orientamento sessuale, etnia, stile di vita.

Soffermiamoci ora sulla sensazione di minaccia provata dai sodali del populismo reazionario. Astraendo dai singoli casi, e senza cadere nella tentazione di fare una teoria generale dei governi populisti, possiamo cercare di distinguere analogie e similitudini tra i sostenitori delle forze che animano questa nuova ragione politica. Comparando indagini sociologiche, materiali propagandistici e retoriche pubbliche di più esperienze e partiti populisti, gli studiosi Ronald Inglehart e Pippa Norris[9] hanno notato che l’exploit e la costruzione di consenso di queste formazioni politiche avviene sulla spinta di un contraccolpo culturale da parte dei soggetti dalle identità dominanti. Il sostenitore medio dei populisti, difatti, sarebbe un uomo bianco perlopiù eterosessuale, appartenente alla classe media e in un’età di mezzo, i cui principi etici avrebbero maturato una visione del mondo più oppressiva nei confronti della differenza. Il motivo, spiegano gli autori, starebbe nella perdita graduale del privilegio del loro status, cioè di quell’insieme di possibilità economiche e simboliche, di stima sociale, di libertà effettive che sarebbe loro concesso dalla nascita in virtù di essere chi sono. È come se, per le convenzioni sociali e nella loro stessa mente, tutta una serie di azioni e di opportunità, sulla carta garantite a tutti e tutte per il principio d’uguaglianza formale, fossero raggiungibili con il minor sforzo possibile perché dovute per il fatto di essere uomini, bianchi, ecc.

Le graduali conquiste in termini di diritti e autodeterminazione dei gruppi subalterni dal punto di vista giuridico e la crescente domanda di uguaglianza sostanziale rivendicata dai movimenti passati e odierni (si pensi ai richiedenti asilo e ai migranti, ai movimenti transfemministi, ma anche a chi lotta per avere un salario minimo o in difesa dell’ambiente) sono ricevute dalle identità dominanti come una minaccia al loro privilegio, non più rivendicabile oppure non più esclusivo. Chi sono io – penserà l’uomo al bar mentre beve un campari nel tardo pomeriggio –, se una donna non riconosce la mia forza, la protezione che devo darle, il diritto che ho di decidere sulla sua vita, nel momento in cui diventa indipendente da me? Non sono più maschio. Ancora: non sono più bianco – prosegue il ragionamento –, se una persona dal colore della pelle diverso non solo ha i miei stessi diritti (casa, sanità, scuola, ecc.), ma può ottenere più di quanto abbia io. Cosa rimane del mio vantaggio, se una persona nera può diventare addirittura funzionario di un ufficio pubblico, mentre io non lo sono? E così via rispetto agli altri assi dei privilegi. Ciò che un soggetto dominante si aspetta dagli altri/e subalterni può essere in parte disatteso, generando una vera crisi di identità. Dato che l’individuo egemone – o, nella parole di bell hooks, la maschilità bianca patriarcale[10] – ha coscienza della sua posizione sociale superiore perché davanti a sé ha persone che glielo ricordano continuamente, non essendo titolate a fare o pensare le stesse cose, quando anche il loro campo di azione si dischiude a più possibilità, lo status privilegiato trema; e con esso si sgretola la definizione che ha di sé il soggetto dominante, non avendo in alternativa appigli a concezioni soggettive egualitarie e non oppressive.

La morale del risentimento (populista)

Cosa comporta il dissesto delle identità individuali e collettive? Tornano utili le riflessioni a caldo sulle elezioni statunitensi della filosofa Judith Butler[11], la quale parla di rabbia latente (pent-up anger).  Un sentimento sobillante, che serpeggia nelle esistenze quotidiane penetrando nelle menti e instillando risentimento nei confronti di chi non riconferma il proprio status. I bersagli del risentimento si collocano al termine di due traiettorie: verso il basso, contro i soggetti subalterni; verso l’alto, invece, contro le élite corrotte che ne hanno assecondato le mire politiche a danno dell’uomo bianco eterosessuale e di classe media. Da più di un secolo Nietzsche[12] ci ha messi in guardia dalla morale del risentimento, una disposizione psicologica coltivata dagli impotenti nei confronti di chi, a detta loro, occupa un rango prestigioso e favorito all’interno della società. Essendo considerati gerarchicamente inferiori, com’è possibile che i subalterni, secondo una totale inversione, siano i potenti? Un conto è la realtà con le sue concrete asimmetrie e le discriminazioni in atto, un altro la percezione soggettiva e sociale della propria condizione esistenziale. L’uomo bianco della classe media, infatti, vive l’erosione del suo privilegio nel senso di un attacco mirato alla sua persona, di una persecuzione del tutto simile a quella subita dalle minoranze in epoche passate. In questo quadro capovolto, il soggetto dominante si percepisce come un individuo passivo condannato a patire gli abusi di potere delle élite e dei subalterni, i quali starebbero a capo di una vera e propria congiura vendicativa contro di loro – di qui il clima ossessivo di assedio propagandato dai discorsi reazionari di oggigiorno. La «nuova minoranza», per dirla con il giornalista Justin Gest,[13] proietta le proprie ansie in un futuro dove l’eguaglianza simbolica e materiale di tutti gli individui non viene vista come ricchezza, bensì come sopraffazione personale in favore di altri. Il soggetto dominante si riscopre vulnerabile nel momento in cui gli viene a mancare il riconoscimento da parte dei e delle subalterne; usurpazione e accanimento sono i termini con cui definisce la sua fragilità, in niente stimolo alla costruzione di una identità alternativa compatibile con la reciprocità e la libertà di tutti e tutte. Egli prova rancore perché gli è stato usurpato ciò che è suo per diritto di nascita a seguito di un accanimento politico-personale.

A cosa porta il risentimento, all’origine della rabbia latente, dal punto di vista politico? All’evocazione di una figura redentrice che ristabilisca l’ordine naturale delle cose e disciplini chi non è stato al suo posto. Gli ultimi – o coloro che si percepiscono tali – saranno i primi, ricorda Nietzsche nel descrivere l’avvento di Gesù nella religione cristiana come l’apoteosi del risentimento. Trump, Salvini, Bolsonaro, Le Pen, Farage, ecc., sono scesi in campo nelle vesti di difensori dei più umiliati, sfruttati, bistrattati. I leader populisti reazionari rimuovono colpe dagli uni per attribuirne agli altri, promettono la salvezza terrena nel futuro che verrà delineando uno scenario che unisce novità e tradizione. Il richiamo al glorioso passato – rapporti tradizionali tra i generi e le etnie; l’ordine e la disciplina dei tempi privi di conflitto che furono, con le strizzate d’occhio alle dittature – si mescola con il linguaggio comunicativo del presente, assumendo pieghe più aderenti al mondo occidentale attuale. Su questa scorta, razzismo, sessismo, omofobia, ecc., sono tendenzialmente propugnati con mezzi subdoli e non chiamano in causa ragioni naturali, preferendo mobilitare il concetto di cultura e paventando una uguaglianza di facciata e una sorta di inclusione, ad esempio con candidature femminili, di persone non bianche e non eterosessuali. Più tempi convivono nel presente, ci insegna Ernst Bloch, e il “momento populista” sembra congiungere in un matrimonio duraturo passato e futuro. Il Popolo rispetta le sue tradizioni e convinzioni etiche storicamente determinate, sapendo che solo un leader salvatore che porti a compimento la rabbia latente dei suoi membri, assicurerà la conservazione ventura dell’eredità culturale del Popolo; poco importa che essa continui a fondarsi sulle diseguaglianze di classe, genere e razza.  In mancanza di un orizzonte di speranza opposto e contrario al presente, gli individui che si sentono vulnerabili volgono lo sguardo al passato, da cui traggono la certezza dei vantaggi di cui potrebbero beneficiare.

Torniamo al punto del paragrafo precedente. Il collante del Popolo consacrato dal leghismo salviniano non ha la consistenza della classe sociale, poiché, come abbiamo visto, il consenso è trasversale e si radica maggiormente nel ceto medio. Ciò che unisce le donne e gli uomini del Popolo è la paura di perdere il proprio privilegio di status e il risentimento contro chi rivendica uguaglianza e pari diritti. Nello scenario occidentale di oggi, le linee dell’etnia/razza e del genere/orientamento sessuale marcano lo spazio della coesione sociale e della lotta reazionaria.

Concludo questo primo intervento offrendo uno spunto di riflessione. L’interpretazione del contraccolpo culturale ci permette di escludere che, per far fronte ai populismi reazionari, basti implementare le politiche di welfare, aumentare dei salari e investire nel pubblico. Sebbene tutte e tre siano misure quantomai essenziali, esse non sono sufficienti per arginare il risentimento sorto dalla minaccia ai privilegi di status. Un cambiamento radicale che colga nel segno il cuore, le menti, le passioni e i riferimenti simbolici dei soggetti occidentali è più che mai urgente. A quest’altezza, del resto, si collocano i movimenti transfemministi, anti-coloniali e ambientalisti, che ambiscono alla trasformazione delle modalità con cui si instaurano i legami sociali, al di là della sfera del diritto, della politica istituzionale e dell’economia politica. Detto ciò, non bisogna trascurare l’impatto nefasto delle trasformazioni economiche sulla disposizione politica della cittadinanza occidentale: l’insicurezza sociale come sentimento trova terreno fertile nella depressione finanziaria, nel deturpamento del welfare e nella società della prestazione. Che essa abbia degli effetti reali o sia percepita, che sia rivolta al terrore della futura indigenza piuttosto che al presente, oppure che parli di consumo invece che di sopravvivenza, non mette in discussione la sua incidenza sulla vita delle persone. D’altronde, tra i privilegi di status dobbiamo contare anche l’accesso preferenziale e/o esclusivo ai servizi dello Stato sociale e al mondo del lavoro. Nel prossimo intervento, dovremo cercare di tenerla in considerazione per cogliere le interazioni tra le attitudini sociali e culturali alla base del populismo e la crisi del neoliberalismo.



[1] Cfr. E. P. Thompson, Società patrizia, cultura plebea: otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Einaudi, Torino, 1981.

[2] Cfr. B. F. Schaffner – M. MacWilliams – T. Nteta, Explaining White Polarization in the 2016 Vote for President: The Sobering Role of Racism and Sexism, «Political Science Quarterly», vol. 133 (1), primavera 2018, pagg. 9-34.

[3] Confermato anche dal seguente articolo: N. Cohn, Why Trump Won, «The New York Times», 9 novembre 2016.

[4] Cfr. D. Mutz, Status Threat, Not Economic Hardship, Explains the 2016 Presidential Vote, «PNASS», vol. 115 (19), 8 maggio 2018.

[5] Cfr. N. Carnes – N. Lupu, Trump Voters Were Not Working Class, «The Washington Post», 5 giugno 2017.

[6] N. Maggini, Il voto e l’età: “ringiovanimento” del PD, “invecchiamento” del M5S, netta avanzata della Lega tra adulti e anziani, Cise, 22 dicembre 2018, online.

[7] Ritratto dell’Italia dopo il voto attraverso grafici e mappe, «Internazionale», 9 marzo 2018.

[8] L. De Sio, Il ritorno del voto di classe, ma al contrario (ovvero: se il PD è il partito delle élite), Cise, 6 marzo 2018, online.

[9] Cfr. R. Inglehart – P. Norris, Trump, Brexit, and the Rise of Populism: Economic Have-Nots and Cultural Backlash, «Faculty Research Working Paper Series», Harvard University, agosto 2016.

[10] Cfr. bell hooks, Feminism Is For Everyone: Passionate Politics, South End Press, Cambridge MA, 2000.

[11] Cfr. J. Butler, American Elections Swamped by Racism and Sexism, trad. it. di F. Zappino: Quelle urne sommerse di razzismo e sessismo, «Il Manifesto», 10 novembre 2016.

[12] F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano, 2011.

[13] J. Gest, The New Minority. White Working Class Politics in an Age of Immigration and Inequality, Oxford University Press, New York, 2016.