Come ci si annoiava prima del 2000?

Perchè dobbiamo riappropriamoci della noia

24 / 12 / 2019

Ok boomer, questa è una domanda serissima, in nessun modo retorica, al massimo un po’ provocatoria. Come vi annoiavate voi che ora siete i nostri genitori? Come si passava il tempo alla fermata dell’autobus prima che mettessero snake sul Nokia? La metro esiste da diversi decenni, ma prima che tutti si incollassero a uno schermo, cosa si faceva? E in classe? Non ci credo che si stava più attenti a lezione solo perché Facebook non esisteva ancora. Quando i fattorini erano ingaggiati da una persona e non da un algoritmo, tra una consegna e l’altra, cosa facevano? Leggevano il giornale? Secondo me si annoiavano e basta.

Tantissimi degli oggetti che prima erano parte della nostra vita, ora si sono ridotti a un solo schermo e qualche giga di memoria. Diario, casella postale, orologio, rubrica, stradario, orari del bus: tutto in un solo oggetto. Mettendo tutto insieme però, lo smartphone è intelligentemente riuscito a tenerci incollati ben più del totale del tempo che passavamo a fare queste attività prese singolarmente. Ha infatti inglobato anche tutti quei tempi vuoti che passavamo ad annoiarci, i momenti in cui prima facevamo una cosa importantissima: non fare nulla.

Non è un caso, e non una cosa di poco conto. Si potrebbe dire che tutta l’attenzione che non siamo obbligati a spendere in attività che dobbiamo fare per forza o che comunque decidiamo di fare consapevolmente, la impieghiamo a cazzeggiare al telefono. E voi mi direte: «bhè, cosa c’è di male? Mi piace così tanto cazzeggiare al telefono!».

Per capire la gravità di quello che sta succedendo e per capire che affermazioni come quest’ultima sono il simbolo del livello subdolo di sussunzione a cui siamo giunti, è necessario partire da tre considerazioni: 

1. La vita precaria frammenta il tempo che abbiamo a disposizione: muovendoci da un lavoretto all’altro o passando interi periodi a casa a fare nulla, disoccupati e in cerca di lavoro, abbiamo moltissimi “momenti morti” di cui siamo sempre meno padroni. In questi momenti, fino a qualche anno fa, forse ci saremmo semplicemente annoiati. Adesso non possiamo più permetterci di annoiarci. Stare fermi, senza nulla da fare, significa non essere buoni imprenditori di sé stessi.

2. Viviamo in una condizione di costante apatia in cui non desideriamo nulla perché ci siamo rassegnati che non ci sia nulla da desiderare. Cerchiamo di tenere costantemente occupata la nostra mente per non fare i conti con una condizione esistenziale privata del desiderio. 

3.Quindi riempiamo questo vuoto scrollando la bacheca su Facebook e Instagram, o  mandando e leggendo messaggi inutili su Whatsapp. Ma compiendo queste azioni non stiamo cazzeggiando, stiamo in realtà lavorando per la Facebook Inc. In generale, una nuova parte della nostra vita è messa a valore da terzi in modo assai profittevole (e noi non ne ricaviamo un euro, ovviamente). 

1) La condizione di eterni precari 

La progressiva precarizzazione del lavoro moderno e la connessa riduzione delle competenze  

specifiche necessarie per svolgere un determinato compito, sono sicuramente modalità con cui il capitale riesce a estrarre più valore dal ciclo produttivo. Nel corso del tempo si è sostituita la fatica umana con quella dei macchinari, ora la stessa cosa sta succedendo con la fatica cognitiva. Non è più necessario che i tassisti (o i lavoratori di Uber) conoscano le strade delle città e siano quindi “specializzati” nel loro lavoro. Tutti possono farlo, basta impostare il navigatore e parte del lavoro cognitivo alla base della mansione viene svolto da un algoritmo. Piano piano questo meccanismo sostituirà tutti i compiti di questo tipo, anche i più complessi, fino ad arrivare a guidare la macchina senza più bisogno di autisti. Ci sarà sempre bisogno di lavoratori, ma i precari di oggi, la nuova classe ultima, è composta, sempre di più, da lavoratori perfettamente sostituibili, abituati (addestrati) ad essere pedine intercambiabili di uno scacchiere globale, in cui i complessi flussi produttivi gestiti da computer, dettano i tempi della produzione e del lavoro, imponendo repentini cambiamenti di mansione e di orario tramite la retorica della flessibilità e grazie alla delega ad algoritmi delle parti riflessive del nostro lavoro.

In questo nuovo modo di pensare il lavoro, tutta la responsabilità del trovare una mansione e del riuscire a mantenersi viene scaricata direttamente sul lavoratore, anziché essere direzionata verso l’insieme (ormai etereo) delle tante aziende che costituiscono il grande padrone unico dei precari. Si diventa imprenditori di se stessi, schiavi e padroni allo stesso tempo, ci si assume tutti gli oneri e le responsabilità della ricerca di un lavoro e dei relativi fallimenti. Trovare uno stipendio diventa, di fatto, un lavoro di per sé. Si migra da un lavoretto all’altro, passando la maggior parte del tempo a cercare quello ancora successivo, senza mai arrivare a un punto fermo.

In questo quadro, il tempo di attesa assume una posizione assolutamente centrale: non aver niente da fare significa essere un cattivo padrone di sé stesso. Se non ti auto-impieghi in qualche mansione stai perdendo tempo e ti stai amministrando male. Non è un caso che l’essere super impegnati, fino all’eccesso, è sinonimo di successo lavorativo. Il multitasking è diventato un’abilità necessaria per destreggiarsi in questo agglomerato informe di scadenze e obblighi che sono sempre più numerosi e sempre più diversificati.

Conseguentemente è diventato difficile coltivare passioni e interessi perché non possiamo più progettare e programmare nulla; anche in un orizzonte di brevissimo tempo, non abbiamo nessuna certezza sui tempi e sulle risorse che potremo investire. Ci ritroviamo a gestire con ritagli di tempo, senza la costanza o la regolarità necessarie anche solo per organizzare un’attività di svago. Abbiamo progressivamente perso il controllo sul nostro tempo libero e sulla sfera di attività svolte al di fuori del lavoro o del consumo.

Tutto questo ha evidenti ripercussioni sulla vita psicologica dell’intera classe sociale. Tutta una generazione viene travolta da una deprivazione relativa: ci si rassegna cioè al fatto che non si avranno mai le condizioni lavorative della generazione precedente. Disillusione e assenza di speranza sono i tratti distintivi dei miei coetanei (purtroppo!) e l’auto-colpevolizzazione che deriva dall’impossibilità di auto-garantirsi una vita degna, porta inevitabilmente a una depressione senza via d’uscita. Un’ondata di nichilismo si è abbattuta su di noi, siamo depressi poiché rassegnati all’idea di non avere scelta. “Ho un lavoraccio, è colpa mia se non riesco a trovare un minimo di stabilità, non sono all’altezza dei consumi che mi vorrei permettere” e via così all’infinito. 

2) Noia si, apatia no.

In principio, dunque, era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio, annoiatosi della noia, creò la terra, il cielo, l'acqua, gli animali, le piante, Adamo ed Eva; i quali ultimi, annoiandosi a loro volta del paradiso, mangiarono il frutto proibito. Iddio si annoiò di loro e li caccio dall'Eden. (Alberto Moravia)

Spesso siamo abituati a pensare la noia in modo negativo e per specifici soggetti, in determinate situazioni, può diventare problematica e perfino patologica. Moravia ne parlava per attaccare la borghesia benestante di un’altra epoca, non certo in relazione ai proletari operai nelle fabbriche, che se avessero trovato il tempo per annoiarsi, se lo sarebbero meritato. Ma la retorica lavorista ci ha plasmato fino all’inverosimile, ora occorre rivalutare questa esperienza psichica, distinguendola dall’apatia. 

Spesso si accosta la noia all’apatia, entrambe caratterizzate da un fastidioso senso di indifferenza ed attesa passiva. [..] I contributi psicoanalitici recenti chiariscono che, nella noia (a differenza dell’apatia), a sparire è anche il desiderio, non solo l’oggetto del desiderio. [..] Lo stato tensivo desiderante dell’annoiato è il risultato della rimozione dalla coscienza di contenuti inaccettabili o, in condizioni più gravi, di natura traumatica. 

La noia è ben altra cosa dall’apatia. È difficile avere un sogno positivo sul proprio futuro, per chi vive in un mondo precario che annichilisce ogni speranza e che ripete  di continuo che non cambierà mai nulla. Ma allo stesso tempo, non si può accettare di uccidere la voglia di ricercare una strada altra, anche se non la si vede neanche all’orizzonte.

Al contrario, bisogna accogliere questo desiderio e cercare di appagarlo, anche in un mondo in cui lo status quo è letteralmente santificato e dato per immodificabile. Benché viviamo in una parte del mondo che da molti punti di vista potrebbe essere considerata come un Eden, dobbiamo comunque mangiare la mela per cercare qualcosa di più, anche andando contro il senso comune e le leggi di una società che ci vorrebbe appagati nel senso, appunto, di apatici. (Qualsiasi riferimento a peccati originari e divinità dubbie è totalmente casuale n.d.a.)

Ci si abitua ad auto-reprimere il desiderio, oltre che essere certi che non ci sia più nulla da desiderare. La cosa più tragica è che questo processo è finalizzato a renderci più controllabili e più disponibili ai desideri di consumo che ci vengono inculcati tramite la pubblicità. 

E’ l’assenza del desiderio che ci porta ad auto-bombardarci di immagini e suoni in continuazione. Tutto pur di non rimanere soli ad ascoltare il trauma di una vita senza desideri. 

Ci auto-rimbecilliamo per non affrontare il dolore. Avete presente quel senso di urgenza quando dobbiamo assolutamente leggere una decina di messaggi palesemente inutili, ma ci si sta scaricando la batteria? “Oddio e adesso come faccio?” Quello è un chiaro sintomo del trauma che riemerge. Il segnale che la medicina che ci rende apatici sta finendo il suo effetto, terribile.

La paura della noia è uno tra i problemi più comuni tra i miei coetanei: rimanere fermi, senza stimoli, senza qualcosa (o qualcuno) che ci guidi, ci spaventa terribilmente. L'horror vacui è il mostro del XXI secolo.

Quindi assenza di desiderio (condizione apatica) e auto-sfruttamento (imprenditorialità del sé) si intrecciano indissolubilmente nel creare il rifiuto della noia.

Stare fermi, senza nulla da fare, significa autoincolparsi del non aver trovato un lavoro. Letteralmente non possiamo permetterci di annoiarci, il padrone dentro dovrebbe prendersela con lo schiavo che è sempre dentro di noi. 

Di conseguenza riempiamo il tempo scrollando la home, senza però riuscire a riempire il vero vuoto esistenziale dal quale scappiamo, la mancanza di desiderio. Entriamo in un loop di minuscole iniezioni di dopamina generate dai likes, finendo intrappolati in qualcosa che in realtà non vorremmo fare e che non risolve le vere cause del problema: semplicemente dipendenza dal peggiore antidolorifico mai inventato. 

Nella storia zen de “Il filosofo ed il monaco” [..] è riportata la frase “la ciotola è utile  perché è vuota”. Questo spazio vuoto non è il risultato dello svuotamento difensivo, bensì un luogo dell’anima dove poter esistere, lontano da costruzioni finzionali che chiudono la possibilità creativa dell’individuo. [..] indica proprio la necessità di uno spazio interno riflessivo che possa essere scena libera in cui possa nascere l’atto creativo.

Il fatto che la noia possa essere incubatrice della creatività (non solo per la filosofia zen, anche per la psicologia moderna) è un ottimo motivo per rivalutarla e rivendicarla. L’overdose informativa alla quale ci auto-sottoponiamo è dannosa per la fantasia, che infatti è sempre più rara, soprattutto tra i giovanissimi. Non serve dire quanto questa meravigliosa facoltà dell’uomo sia alla base di qualsiasi cambiamento possibile, o appunto immaginabile. La creatività dovrebbe essere uno tra gli strumenti più utili di qualsiasi collettivo, indispensabile per ogni rivoluzionari@. Passare il nostro tempo a scrollare i contenuti prodotti da qualcun altro ci spinge inesorabilmente al conformismo. Divisi in individui sempre meno in grado di comunicare senza la mediazione di uno strumento digitale, creiamo spesso il nostro immaginario tramite i contenuti postati dai nostri amici, o meglio da quelli che compongono la nostra filter bubble. Per essere accettati dal nostro ingroup la maggior parte delle volte finiamo per imitare ciò che ci propone l’algoritmo. Bisogna invece uscire dagli schemi a cui vogliono ridurci, specialmente se partiamo dall’idea di creare un mondo altro e radicalmente migliore.

3) Il ruolo dei social network commerciali.

Proprio per evitare di pensare alla paura che scaturisce dal vuoto esistenziale che abbiamo dentro, vengono create le grandi piattaforme commerciali che cercano in tutti i modi di intrappolare la nostra attenzione per distrarci dai veri problemi della nostra condizione. E dalla grandezza del problema sul quale si fondano, possiamo già intravedere la grandezza dei profitti che ne andranno a ricavare. Facebook di fatto vende la nostra attenzione, Youtube vende il numero di minuti che riesce a coinvolgerci nella navigazione della piattaforma. Vendono il nostro tempo a chi vende nulla di particolarmente nuovo. 

Quello che c’è di nuovo è che non viene valorizzato solo il nostro tempo di svago o di riproduzione, ma anche il tempo che prima passavamo ad annoiarci. Mentre siamo in sella alla nostra bicicletta con la borsa di Glovo in spalla, in attesa che un algoritmo ci indichi dove c’è bisogno di noi, mentre cioè stiamo effettivamente lavorando, siamo sfruttati due volte. Per evitare di pensare alla nostra condizione lavorativa, non avendo più nulla da desiderare, scorriamo la nostra bacheca e “sconfiggiamo” la noia. E...zac! Diventiamo vittime inconsapevoli di estrazione di valore da parte di aziende come Google o Facebook, oltre che da Glovo stessa. Sfruttati al lavoro, sfruttati nelle pause del lavoro, sfruttati mentre cerchiamo un nuovo lavoro, cosa c’è di meglio? 

Molte parti della nostra giornata e soprattutto del tempo che dedichiamo alle nostre relazioni,  viene ora messo a valore da queste compagnie, non solo vendendo pubblicità in cambio di un servizio, ma anche estraendo dati in cambio di un servizio. Quando scambiamo opinioni con i nostri amici produciamo valore (Whatsapp non ha pubblicità, ma utilizza i dati che produciamo quando scambiamo messaggi). Mentre dormiamo, ma con il telefono acceso e un app di Sleep Tracking che registra i nostri stati del sonno, produciamo valore. Perfino quando semplicemente camminiamo in giro per la città con il gps attivato (cioè sempre), produciamo valore. Quando abbiamo uno smartphone vicino produciamo dati che verranno estratti da terzi per ricavarne profitto. Con tecnologie che ci renderanno sempre più cyborg, questa operazione sarà sempre più efficace: se fossero stati commercializzati seriamente i Google Glass, anche guardando nel vuoto, si sarebbe potuto generare dati e quindi valore. 

Se prima esisteva una sfera della vita in cui, non essendo né produttori né consumatori, il capitale non riusciva a sfruttarci, ora ha i mezzi e le tecniche per farlo. L’idea stessa di prosumersta proprio in questo.

In conclusione: le strategie che usiamo per distrarci dal vuoto esistenziale che ci attanaglia è la materia prima di cui si nutrono le 4-5 aziende più grandi del pianeta. Sono riusciti a renderci produttivi anche nella pausa pranzo, anche in disoccupazione, anche in malattia oltre che in ferie, anche se non abbiamo neanche un centesimo, per essere sfruttati basta un profilo, e quello è gratis! Basta avere davanti agli occhi un potentissimo registratore di interazioni ed emozioni chiamato smartphone.

«E io che volevo solo cazzeggiare un po’ al telefono…».

Non so come ci si annoiava prima. Ma probabilmente ci si annoiava gratis.

Prima ci hanno inculcato una paura generazionale verso la noia e poi hanno messo questa paura a valore.

L’ennesimo capolavoro del capitale, questa volta, più cringe che mai.

            L'unica forma di felicità che conosco è la noia.

Sarà anche doloroso, non sarà facile farci i conti, ma è proprio necessario: riappropriamoci della noia!

Per approfondire: