Colpo di scena o colpo di spugna?

17 / 6 / 2012

Era annunciato per lo scorso venerdì 15 giugno il ritiro in camera di consiglio della sezione di Corte di Cassazione chiamata a decidere in ordine alle posizioni dei 25 tra agenti, funzionari e alti dirigenti di polizia condannati in sede di appello per la mattanza della scuola Diaz durante il G8 di Genova 2001. Ma la presidente Ferrua, dopo le tre ore della penultima delle arringhe difensive, ha a sorpresa rinviato tutto al prossimo 5 luglio. In ballo c'è la richiesta della Procura Generale di ratificare per intero il dispositivo della Corte di Appello. Se l'unico tra i reati a non essere ancora prescritto è il falso, che va a scadenza nel 2014, la Corte si confronta con la responsabilità di  mantenere comunque le condanne precedenti. Non certo per consegnare al carcere i relativi imputati, ma obbligandosi a confermare la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Con l'esito della conseguente rimozione di Gilberto Caldarozzi dai vertici del Servizio Centrale Operativo, Francesco Gratteri da quelli dalla Direzione Centrale Anticrimine, Giovanni Luperi da quelli del Servizio Segreto Civile, Spartaco Mortola da quelli della Questura di Genova e via sciorinando i nomi dei pochi responsabili identificati, tutti promossi ai vertici di Polizia e Servizi.

A undici anni di distanza dai fatti la Corte si è guadagnata la fama di ottima conoscitrice degli atti processuali. Le ultime normative le consentono di giudicare anche nel merito e non più esclusivamente sugli aspetti procedurali. Ciò ha generato una palese preoccupazione tra gli avvocati difensori e in seno all'avvocatura dello Stato, in affanno nel sostenere che certo violenze alla Diaz sono state compiute (e ci mancherebbe...) ma non è in capo agli uomini sotto processo che vanno ascritte. Quella notte nella scuola sono entrati in 300, debitamente travisati e irriconoscibili nella tenuta antisommossa: ancora va provato da parte di chi sono stati commessi quei reati. Non esattamente nuova come tesi difensiva, ma dal ministero dell'Interno era difficile attendersi novità. Qualcosa di nuovo è invece possibile leggerlo nell'improvviso e inatteso rinvio disposto dalla Corte. Il sospetto è che lo slittamento possa alludere al tentativo di abbinare la sentenza a quella relativa alle posizioni della decina di manifestanti rimasti intrappolati nell'accusa di devastazione e saccheggio. Un bel colpo di spugna bipartisan, magari in piena estate, può essere una bella tentazione  per chi deve occuparsi di salvaguardare le brillanti carriere di uomini dello Stato.

Come sempre la questione è però un'altra. E non attiene nemmeno all'esiguità della campionatura espressa da una manciata di imputati a fronte della complessità della catena di comando, in primo luogo politica, che ha determinato la sperimentazione di prova tecnica di regime concretizzatasi nelle giornate di Genova. Con i nostri quattro corpi di polizia chiamati a svolgere un compito di esercito da guerra interna schierato contro un movimento mai prima di allora così ricco, composito e complesso. Un esercito che ha voluto e ottenuto il morto. La questione è che nulla è cambiato. In tutti i quadranti di lotta dei nostri territori si registra le stesso rapporto tra comando politico e agire poliziesco. Nulla di cambiato in ordine alle regole di ingaggio, l'uso delle armi e dei deterrenti illegittimi come il gas Cs. Nulla che porti all'identificazione degli uomini in divisa come avviene ormai in quasi ogni altra parte di Europa. Nessun passo avanti nell'introduzione del reato di tortura, così come suggerito da una risoluzione Onu del 2004.

 Indipendentemente da quale sarà la decisione dei giudici romani i conti vanno fatti con la repressione violenta attuata una decina di giorni fa in Brianza, con quella snodata tra Roma e Bologna, con i tre anni di galera a Er Pelliccia, con le “brillanti” operazioni antiterrorismo firmate da uomini come Giampaolo Ganzer, ancora saldamente a capo del Ros malgrado i 14 anni di reclusione portati a casa ormai più di due anni fa. Con il fatto che il comando contro i movimenti continua a tradursi in uso della forza poliziesca ed è connotato dalla stessa impunità di sempre. Perché l'uso della forza, graduata, ma senza che alcun limite sia stato ridefinito, è l'unica politica di risoluzione del conflitto e delle contraddizioni sociali. Che l'agente scelto Nucera il giubbotto se lo sia accoltellato da solo lo sappiamo da tempo. Cambia poco che la Cassazione confermi o meno.    

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