Ciò di cui Marchionne è il nome

20 / 9 / 2010

In un articolo del 14 settembre sul Corriere della Sera, Dario Di Vico dedica (come fa spesso) la sua attenzione alle rivendicazioni dei cosiddetti lavoratori autonomi di seconda generazione, le Partite Iva, i collaboratori a progetto e quell’immenso mare che si muove tra l’autonomia formale e la parasubordinazione. L’articolo si apre con «sarà solo una questione di punti di vista ma al popolo delle partite Iva tutto il battage che si è fatto e si sta facendo sul caso Pomigliano non va proprio giù». La battaglia attorno al contratto dei metalmeccanici, lo scontro tra la Fiat e la Fiom, starebbe insomma mettendo in ombra l’universo delle rivendicazioni dei cosiddetti «Piccoli», espressione utilizzata dello stesso Di Vico. Questa stessa preoccupazione sembra del resto essere confermata dalla voce degli intervistati dell’associazione Acta.

Lo spirito che sembra animare il discorso di Di Vico (non quello degli intervistati di Acta) mi sembra sottintenda due presupposti: il primo, l’attenzione mediatica e politica sul caso dei metalmeccanici rischia di confermare e approfondire il dualismo interno al mercato del lavoro italiano, quello che per capirci divide i garantiti dai non garantiti. Secondo, gli uni e gli altri, tuttavia, non sono solo separati dal diverso accesso ai diritti ma più sostanzialmente rappresentano universi di valori irriducibilmente distanti, due differenti modi di intendere e di affermare i propri interessi.

In un articolo precedente (Il rischio Aventino per la Cgil) il giornalista del Corriere esprime più esplicitamente il suo pensiero: il caso Pomigliano ci mostra non solo che l’iniziativa di Marchionne pone a tutti una sfida positiva e innovativa facendo apparire la Fiom per quello che è: l’ultimo baluardo di quella resistenza oltranzista che appartiene in tutto e per tutto ad un passato di contrapposizione che va superato. Ma Marchionne è anche il profeta di quel «nuovo patto sociale» (vero mantra del giornalismo italico in questo periodo), superamento del conflitto tra capitale e lavoro. In quell'articolo Di Vico segnalava, significativamente, l'esempio dei Piccoli, delle Partite Iva, dei collaboratori, come rappresentanti in carne e ossa di quel superamento (in quanto queste figure riassumerebbero sia i tratti del lavoro che del capitale), vittime solo di una colpevole disattenzione da parte dei governi e della stampa.

Il nuovo patto sociale, secondo Di Vico, deve proprio partire da loro, essi sono i garanti di un compromesso non conflittuale all'interno del mercato del lavoro.

Bisogna prendere lo spunto da questo problema per procedere ad alcune piccole riflessioni.

Primo: quella dei Piccoli è una melma ideologica di cui diffidare. Il rapporto, certo aperto e non scontato, tra la battaglia dei metalmeccanici e le rivendicazioni dei Piccoli mi sembra che si dia in termini alquanto differenti: la prima non rappresenta la permanenza del vecchio, ma lo sfondamento del «nuovo». Per i precari, gli autonomi e i giovani infatti, Pomigliano è iniziato 30 anni fa. Il problema è casomai dire che «ciò di cui Marchionne è il nome», ovvero quel miscuglio di restringimento dei livelli salariali, la minaccia della competizione come vettore di ipersfruttamento, la logica del ricatto divenuta ratio suprema dei rapporti lavorativi, lo scaricamento verso il basso del rischio d’impresa, la sterilizzazione della stessa possibilità di animare un conflitto degli interessi, oggi è arrivato fin davanti i cancelli delle fabbriche, e li sta per buttare giù. Bisognerebbe dire allora che c’è un Marchionne diffuso e miniaturizzato dietro ogni stagista, ogni Partita Iva, ogni collaboratore. Dietro ogni Piccolo che piace tanto a Di Vico. Altro che alleanza tra Capitale e Lavoro! Con questo non si intende sorvolare sulle differenze che esistono tra differenti tipo di lavoro o di lavoratori. Abbiamo dedicato gli ultimi anni a descriverle in profondità. Si intende però affermare che le forze che ci rendono sempre più poveri e precari, stanno sempre più parlando una stessa lingua.

Secondo: l’imbarazzante apprezzamento che suscita la verve di Marchionne sulla stampa liberale è probabilmente leggibile a partire dalla necessità che questa ha di resuscitare la figura del manager, parte buona del capitalismo responsabile e produttivo, il capitano d’impresa che accetta le sfide del futuro, figura oramai completamente surclassata nell’immaginario da quella del rentier, dello speculatore, del parassita. Tuttavia, a ben vedere, le due figure non sono così distanti. Non solo Luciano Gallino ci ha chiaramente mostrato come, ben lungi dal rappresentare due razionalità contrapposte, la logica finanziaria ha oramai penetrato fin nel midollo quella dell’industria. L’alternativa tra capitalismo buono e cattivo, è una falsa alternativa. Ma anche e soprattutto perché dietro «la sfida» di Marchionne non si cela alcuna promessa, alcuna indole prometeica, ma solo la (pura) forza, che deriva dalla «posizione» di cui dispone, per imporre un ricatto. Questa è sempre più la forma che assume il Capitale, quando si presenta di fronte al Lavoro.

È il mondo dei cosiddetti Piccoli a mostrarlo. Alla loro miseria materiale, corrisponderà pure la ricchezza di qualcun altro. Sì, solo che questo qualcun altro non svolge alcuna funzione positiva sul loro lavoro, non lo organizza, né lo innova. La loro povertà è data da un diritto di prelievo ingiusto e ingiustificabile, dalla mera forza derivante da una posizione di potere all’interno del mercato, dalla reiterazione senza fine del ricatto di perdere, da un giorno a un altro, tutto quello che hanno conquistato. Nessuno è fuori dai rapporti di potere e di sfruttamento. E se questi sono diventati meno visibili non significa che il riconoscerli non sia un primo passo obbligato. Per questo il problema di tutti noi è quello di creare una nuova forza in grado di rompere questo grado zero. Perquesto le esperienze di associazione, mutualismo, autodifesa e rappresentanza collettiva come quella di Acta sono così importanti.

È questa in ultima analisi la differenza sostanziale tra gli operai della Fiat e i Piccoli. Il fatto che i primi hanno una forza collettiva accumulata negli anni e i secondi stentano a costruirla. Invece di suscitare il risentimento dei non garantiti contro i garantiti, bisognerebbe avere l’onestà di dirlo.

La battaglia di Pomigliano allora ci apparirebbe solo come l’ultima di un’offensiva contro il lavoro che dura trent’anni e che si è concentrata soprattutto e in primo luogo sulle componenti cosiddette deboli del mercato del lavoro, prima di arrivare a tutti gli altri. Allora quella battaglia avrà forse la possibilità, proprio in virtù di questa forza collettiva accumulata di connettersi agli altri, di illuminare il resto della guerra. Per questo non è il caso di annunciare solidarietà a nessuno. Si tratta di fare altro. Far interagire le differenze, proliferare le esperienze di resistenza e farne emergere la sostanza comune. Questa sostanza è ciò di cui i conflitti a venire dovrebbero diventare il nome.