Ci Vediamo a Copenhagen...

Utente: cayest
4 / 11 / 2009

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A dicembre si svolgerà a Copenhagen la più grande Conferenza U.N. sui cambiamenti climatici (COP15), evento che sta catalizzando un’enorme attenzione a livello globale.
Formalmente la discussone a livello ONU sarà basata sulla ri-definizione delle quote di emissioni di CO2, in realtà dietro questo scenario le poste in gioco sono molto più complesse.

Il prossimo dicembre a Copenaghen non si terrà un summit, un vertice di potenti come tanti ne abbiamo visti in questi anni, né una semplice “conferenza mondiale”, sotto l’egida delle Nazioni Unite.

Il tema e soprattutto il momento, in cui si colloca, definiscono la portata storica di un evento, che va ben oltre i suoi aspetti formali: un enorme spazio pubblico, attraversato da dubbi e certezze, conflitti reali tra interessi contrapposti, contraddizioni irresolubili, sancirà la centralità della questione ecologica, a partire dai cambiamenti climatici, nel dibattito globale sulla crisi.

Sarà il riconoscimento, incontrovertibile, che la nostra è l’epoca della precarietà della vita, intesa come bios, sussunta interamente all’interno dei rapporti sociali di sfruttamento capitalistico.

Un bios, all’interno del quale sono divenute indistinguibili, e tanto meno schematicamente separabili, le dimensioni del naturale e dell’artificiale, ma che, sempre più, si rivela come l’esito continuamente ridefinito di un’interazione dinamica, di un rapporto complesso tra uomo e natura.

Un bios che è oggi ontologicamente precario, perché costitutivamente esposto agli effetti molteplici di una crisi eco-sistemica, che mette in questione le condizioni fondamentali della riproduzione stessa della vita nella biosfera e, in quanto tale, anticipa e, in qualche modo, sovradetermina la crisi finanziaria ed economica.

Sono le lotte per la liberazione dallo sfruttamento e i tentativi del capitale di catturarne e imbrigliarne la spinta verso forme del vivere più giuste e più libere, ad averci condotto fino a qui.
Il motore che ha trasformato il mondo, fino a farlo diventare qualcosa che ci è oggi ancora in gran parte sconosciuto, è stata la dialettica tra lotte sociali e sviluppo capitalistico.
E’ stato cioè il conflitto permanente tra il desiderio di emancipazione e i rapporti di dominio ad aver generato enormi cambiamenti nelle forme della produzione e della riproduzione sociale, fino a giungere al paradosso contemporaneo, la coesistenza di abbondanza (nell’immaterialità digitalizzata di idee, conoscenze, affetti, relazioni, anche quando applicate a risorse naturali rinnovabili) e di scarsità (nella materialità di risorse naturali, quando sono per definizione limitate e non rinnovabili) nello stesso bios, nello stesso pianeta.

Ma la crisi climatica ci avverte, e lo fa in maniera pressante, che, come avviene per la relazione tra naturale e artificiale, così non è possibile separare questi due elementi che compongono la nostra vita: non si può pensare di consumare, fino al loro esaurimento, le risorse naturali a favore del pieno godimento delle libertà dell’immateriale, né oggi ha alcun senso riferirsi all’immateriale, che traduce fino in fondo l’infinitezza del desiderio e la potenza della cooperazione umana, aprendola agli illimitati territori della libertà della conoscenza e della condivisione, come a qualcosa di “secondario” e, quindi, meno degno di considerazione.

L’inscindibile relazione tra beni immateriali e beni naturali nel bios contemporaneo, e quindi la contraddittoria coesistenza di abbondanza e scarsità, oggi vero epicentro della crisi sistemica globale, segnalano invece che è nella definizione e nello scontro attorno al concetto di commons, cioè dello statuto di ciò che è comune, il nodo del problema.
Attraverso la privata appropriazione di risorse primarie scarse ed il loro illimitato consumo, il capitale ha imposto la depredazione sviluppista ed industrialista del pianeta, mentre - attraverso la normazione dell’ “eccessiva libertà” del digitale - vorrebbe imporre la rarefazione e il controllo della libera comunicazione e condivisione dei saperi e delle tecnologie.

Al centro del conflitto con chi vorrebbe continuare ad esercitare pieno comando su ciò che esiste e su ciò che si produce, per trarne profitto, vi è dunque altro da ciò che appare: sia nel caso delle battaglie per impedire la distruzione dell’ecosistema, sia in quelle per la difesa della libertà digitale, viene messa in crisi l’idea di “proprietà”, privata o pubblica che sia, verso invece l’affermazione di un nuovo paradigma del comune, come prodotto di molteplici relazioni della vita, in cui scarsità e abbondanza, naturale e artificiale, territorio e soggetti sociali, si ricombinano a favore di tutti.

Viene da sé che la contemporanea battaglia per i commons ha strettamente a che fare con l’affermazione dell’indipendenza. Anzi, essa può essere definita più precisamente nei termini di “decrescita dalla dipendenza” e di “crescita dell’indipendenza”, in ogni aspetto intrecciato che riguarda la vita.

E’ per questo che la crisi ecologica si conferma non come una delle conseguenze della crisi più generale, ma come il suo centro, quello che determina, e non che segue, la crisi della finanza e i suoi effetti sociali.
Al suo interno ritroviamo il precipitato del nuovo bios, geneticamente mutato da un rapporto di sfruttamento che ha sussunto in sé la vita in quanto tale.

E anche la fine della centralità di vecchi paradigmi, legati alla previsione di un’illimitata possibilità di sviluppo fondata su “ciò che è scarso” (perché risorse naturali limitate e non rinnovabili) e non è più indefinitamente privatizzabile (perché percepito come bene comune).

Gli effetti della crisi ecologica obbligheranno i capitalisti a pensare ad uno sviluppo fondato invece su “ciò che è abbondante” (beni immateriali).
Ma, dal momento che questi sono prodotti comuni della cooperazione sociale, questo potenzia la possibilità umana di organizzarsi per l’indipendenza, e costringe noi ad assumere fino in fondo questa come la nuova dimensione della lotta per cambiare questo mondo.

Ci vediamo a Copenhagen quindi, perché precaria è la nostra natura, comune il nostro destino, e più che precari sono i nostri mezzi, ma insieme ad una moltitudine di tanti e diversi possono crescere invincibili speranze.

Ci vediamo a Copenhagen per partecipare attivamente alle giornate della Conferenza COP15, per mobilitarci insieme a molti, per attraversare le mobilitazioni promosse dalle reti internazionali, dalle realtà collettive.

Prime Adesioni all'appello:

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Per Adesioni ed Info: [email protected]

I discorsi sul clima dellʼO.N.U a Copenhagen.