Ci sarà un posto

11 / 7 / 2020

Il tredicesimo articolo della call for contribution: uno spazio per sé (per inviarci il tuo articolo, scrivi a: [email protected])

Ci sarà un posto sulla faccia di questa terra in cui nessuno voglia più i miei pochi soldi e io sia dispensata per sempre dall’inviare i cv; io lo troverò e andrò in questo posto e non manderò mai più un cv nella mia vita, mai più e non pagherò più nulla. In quel posto non dovrò pensare continuamente a pianificare una fuga dal qui ed ora, immaginando il momento in cui inizia la vita vera e la mattina andrò in bicicletta a prendere il pane, inviare una lettera, cogliere la salvia e potrò di nuovo concentrarmi sulle mie tenere voglie. Tra le tante cose che fa, questa pandemia sta gettando milioni di litri di detersivo nelle nostre falde acquifere e ho miodepsie che mi ricordano che potrei perdere tutto e continuare ad esserci.

Quando ero bambina ho deciso presto che avrei studiato lettere, un’amica dei miei mi aveva dato la parola chiave, e non potevo immaginare che, in sei anni, non mi avrebbero mai fatto scrivere (avrei potuto scrivere capolavori a 19 anni), che non mi avrebbero mai chiesto la mia opinione (sarebbe potuto essere decostruente), che avrei passato sei anni in biblioteca senza mai declamare versi dalla cima di qualche scalone. Io volevo fare lettere perché volevo diventare una scrittrice di libri per bambini e quello che mi impedisce di averlo fatto e di farlo è una e molte cose, anche se non è ancora finita.

Durante i domiciliari della recente pandemia leggevo Una stanza tutta per sé di Woolf in cui si racconta del rapporto tra le donne e la scrittura. Si analizza la maniera in cui la condizione di repressione in un contesto di valori degenerati e il giudizio sociale abbiano corrotto le inclinazioni e i risultati di ciascuna: “l’intera struttura del romanzo del primo ‘800 viene costruito, se l’autore è donna, da una mente un po’ deviata, costretta ad alterare la sua visione chiara in omaggio a un’autorità esterna. […] Non importa cosa fosse; lei stava pensando a qualcosa di diverso dalla sua materia”. La rabbia ha per esempio corrotto l’integrità della romanziera Charlotte Brontë: “ha cominciato a ricordare di essere stata defraudata della sua parte di esperienza; di essere stata costretta ad ammuffire in un presbiterio, rammendando calze, mentre avrebbe voluto girare libera per il mondo. L’indignazione ha fatto barcollare la sua immaginazione”. E anche se si trattava di donne nobili e senza figli come Lady Winchilsea (1661), la ricchezza e il tempo libero non bastavano per una che scrive in versi ad avere un animo tranquillo: “è turbata e dilaniata dall’odio e dai risentimenti. Per lei la razza umana si divide in due partiti […] Eppure è evidente che se avesse potuto liberarsi la mente dall’odio e dalla paura, anziché accumularsi amarezza e risentimento, il fuoco in lei era acceso”.

A me questa devianza, questa alterazione, questo risentimento e questo odio sono suonati familiari, non solo per l’oppressione femminile che ancora oggi continua e anzi si inasprisce. Oggi sappiamo chiaramente che il sessismo è uno degli strumenti della sovraoppressione del capitalismo, tentacolare e omnipervasivo, onnipresente e fortemente adattivo. E anche per me la razza umana si divide in due partiti: capitalisti e anticapitalisti, e provo risentimento e odio verso i primi; e sono sentimenti continuativi, il che, alla lunga, non può che alterarmi e deviare la mia energia altrove rispetto al suo vero obiettivo, che può essere per esempio la creazione. E non si parla solo della mia di energia. Quando io passo delle ore a registrarmi sui siti di ricerca del lavoro per poter rispondere ad un annuncio che mi interessa, quando mi metto a dormire poi riaccendo il computer perché mi viene in mente di consultare i bandi per lettrice di italiano, quando passo pomeriggi interi a consultare annunci, tutto il tempo che perdo nella ricerca di un futuro retribuito, tutta la vita psichica che consumo pensandoci o parlandone con gli amici invece di parlare di relazioni (che sono la vera cultura come dice Silvano Agosti) o di come organizzare una resistenza, la presenza costante di un cellulare da consultare nella speranza che arrivi un’email salvifica, tutto questo e molto, molto altro non solo è tempo rubato ma è tempo turbato: sento che mi rende materia plastica nelle mani di un sistema sbagliato del quale, a volte, sono più succube di quello che pensavo, visto che nei momenti di debolezza in cui si fa il conto di quello che si ha e di quello che ci manca mi manca tutto, non ho un lavoro, non ho una casa, non ho una famiglia. 

La pressione performativa schiaccia se non si reagisce e non si relativizza, soprattutto in questo scenario in cui non tutto crolla e non tutti falliscono, anzi, chi ha successo, coloro che eccellono, sembrano ovunque, sui poster dell’offensiva pubblicitaria, sui muri dei social, tra gli amici degli amici e adesso tutti a fare aperitivo anche se io non me lo posso permettere; e leggi di quello che veniva all’università con te e ora ha pubblicato un libro, oh guarda, con Mondazzoli, ma non era quindi anticapitalista? Vabbè ma che c’entra, un libro è un libro e poi guarda com’è contento… E l’invidia sociale è una dei motori di sussistenza della classe borghese, meno riconoscibile ma sempre salda sui suoi spregevoli privilegi e nauseabonda come sempre.

Ero appena tornata da un anno in Uruguay quando questa ragionevole conseguenza di un sistema irragionevole mi ha bloccata a casa dei miei, come se non avessi vissuto quello che avevo vissuto per un anno e all’inizio uno può fare lo sbaglio di sentirsi non tanto congelato nel momento, ma congelato nella situazione esistenziale: e quindi questa sono io, nella mia camera scelta a quattordici anni, circondata da libri già letti e con un letto troppo piccolo e insieme troppo grande. Cos’ho sbagliato? Tutto?

Sì e no, forse ho sottovalutato le forze sistemiche. Quando facevo l’università ancora vivevo nell’illusione che in qualche modo, ma serenamente, mi sarei guadagnata da vivere, che mai mi sarei sentita sul lastrico emotivo o relazionale a causa di uno stipendio mancante. Pensavo che a me piacciono tanti lavori, potrei fare la maestra, la bibliotecaria, la fioraia, l’educatrice, la giornalista… Poi ho scoperto che per fare la maestra servono 5 anni di tasse universitarie e migliaia di ore non retribuite di tirocinio, i ruoli di bibliotecari sono riservati a figure a caso messe lì dalle mafiocooperative o a specialisti biblioeconomi, i fiorai non cercano personale, l’educatrice è anche quello un percorso professionale per il quale non ho un titolo e che comunque è pagato indegnamente e la giornalista è una carriera costosa. E potrei continuare, ma mi fermo. Di me resta una figura professionalmente ibrida, che vorrebbe solo lavorare per cose belle (bambini, libri, creazione) e che vi riesce con contratti sempre a scadenza e senza contributi, e tra l’uno e l’altro uno stillicidio giornaliero di stress, paura e cv. Ma non sono solo questa, anche io contengo moltitudini, bisogna ricordarselo.

Il punto è che il sistema poggia su questa rete di illusioni, c’è chi ci casca di più (io) e chi ci casca meno, ma gioca sullo stordimento da realtà proprio per affamare e ricattare. C’è tanta illogicità in giro che questa finzione di vivere in un mondo razionale scricchiola forte e mi tiene sveglia la notte, ma nella notte, sul soffitto della mia stanza, qualcosa si muove, e non solo sul soffitto della mia, ci sono soffitti che stanno assistendo a movimenti e sono molti, si lavora sempre sui soffitti delle nostre stanze, forse da sempre e prima o dopo, usciremo.