Chi può dirsi femminista?

24 / 2 / 2020

Questa domanda nasce da una parte dalla lettura del libro Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne di Sara R. Farris, pubblicato recentemente da Alegre, e dall’altra dalla persistente immagine di Chiara Ferragni che indossa una maglietta di Dior con la scritta “We All Should be Feminist”. Dalle riflessioni critiche interne al femminismo, quindi, e dalla constatazione che, se fino a pochi anni fa, femminista suonava quasi come un insulto, ora, almeno per la moda e una parte della cultura pop è diventato quasi un brand.

Femonazionalismo è un’analisi approfondita di tre specifici contesti nazionali (Paesi Bassi, Francia e Italia tra 2000 e 2013) e tre attori e programmi politici: i partiti della destra nazionalista (il Partij voor de Vrijheid nei Paesi Bassi, il Front National in Francia e la Lega in Italia); diverse politiche e intellettuali definite o autodefinitesi femministe, associazioni e femocrate dei tre paesi; infine, le politiche neoliberiste che declinano il concetto di integrazione attraverso programmi e politiche riguardanti i/le migranti.

Questo lavoro a ritroso risulta necessario per ricostruire la genealogia del concetto di femonazionalismo, nel tentativo di comprendere perché le campagne elettorali della destra nazionalista, che ha avuto un’ondata di successi nelle elezioni del 2014 e che tuttora continua, abbiano inserito tra i loro argomenti la parità di genere (alcuni si sono spinti addirittura alla difesa dei diritti lgbt e relativo omonazionalismo)[1], il tutto all’interno di una retorica xenofoba.

Non è nuova l’idea della difesa delle donne dall’uomo nero[2], eppure risulta ancora efficace utilizzare la minaccia di un uomo straniero, in particolare musulmano, che opprime le donne e che vorrebbe imporre lo stesso nella nostra società progressista in cui le donne hanno (conquistato) la parità dei diritti.

Farris ben sottolinea che questo strumento non è solo in mano alla destra nazionalista che tenta di aumentare il proprio elettorato femminile ma è anche appannaggio del neoliberismo progressista che si rivela islamofobo nella convinzione che la civilizzazione e l’integrazione passino attraverso l’assimilazione di pratiche culturali occidentali, nel delineare il concetto di integrazione come l’apprendimento delle regole occidentali, viste non solo e non tanto come migliori, ma come le uniche possibili in un paradigma di civiltà democratica.

Le donne musulmane vengono dipinte come vittime da salvare, e comunque queste campagne ci ricordano costantemente che anche noi donne bianche non siamo troppo al sicuro. Si legittimano così gran parte dei discorsi securitari portati avanti in particolare della destra nazionalista. Citando Gayatri Chakravorty Spivak possiamo riassumere questo atteggiamento come “uomini bianchi [che rivendicano di] salvare donne nere da uomini neri”[3]. Come ha sottolineato la critica postcoloniale è chiaro che la vittimizzazione e la privazione dell’agency di queste donne è funzionale alla giustificazione del dominio coloniale. Non solo quello passato, ma anche tutta quella cultura colonialista rimossa e non riconosciuta che tuttora permea la nostra società.

Come abbiamo già anticipato, queste narrazioni non sono estranee nemmeno a un certo femminismo, che Farris identifica in Élizabeth Badinter, filosofa francese, in Ayan Hirsi Ali, politica olandese, e in Oriana Fallaci, scrittrice e giornalista italiana. Ma anche in quelle che vengono definite femocrate, attiviste di associazioni femminili o funzionarie che si occupano di pari opportunità. Un fronte di donne che ha cominciato a delineare un nemico non tanto nel patriarcato, che spesso viene definito morto, o comunque un problema superato, ma nell’Altro musulmano.

Il termine femonazionalismo allora più precisamente “fa riferimento alla strumentalizzazione dei temi femministi da parte di nazionalisti e neoliberisti nell’ambito di campagne islamofobe (ma anche contro i migranti). Al contempo indica la partecipazione di alcune femministe e femocrate alla stigmatizzazione degli uomini musulmani in nome dell’uguaglianza di genere”[4].

È proprio su queste “femministe” che vorremmo porre l’attenzione. Se infatti la logica secondo la quale nazionalisti e neoliberisti strumentalizzano le questioni di genere ci risulta chiara e viene illustrata molto bene in questo testo a partire da tutte le sue contraddizioni e dalla logica economica che ne sta alla base, comprendere il discorso di queste femministe ci risulta più faticoso, e soprattutto ci riporta alla domanda iniziale: chi può dirsi femminista?

Nel farci questa domanda le contraddizioni che emergono dal femonazionalismo appaiono più evidenti. Se ad esempio molte femocrate basano i loro programmi sul concetto di empowerment socio-economico (di matrice occidentale) e quindi sull’indipendenza economica, è anche vero che questa indipendenza viene ricercata all’interno di un dispositivo neoliberista di workfare in cui il lavoro domestico e di cura è l’impiego principale per le donne migranti che vengono così allontanate dalla sfera pubblica, isolate dal politico per rientrare nel privato.

Farris identifica questa come una contraddizione performativa e cerca di ritrovare nelle rivendicazioni e nei movimenti femministi la radice del concetto di indipendenza economica ma soprattutto di ragionare sul binomio lavoro produttivo/riproduttivo mostrando come non dare la giusta importanza a questa seconda parte porti alla “riconfigurazione della riproduzione sociale come un settore con una prevalenza di manodopera marginalizzata e vulnerabile, ovvero le donne musulmane e non occidentali”[5] e come le retoriche femonazionaliste siano strettamente legate alla riorganizzazione neoliberista del welfare[6], per cui l’unica migrante buona è quella che fa da badante.

Ancor più contraddittorio risulta l’invocare da una parte la laicità alla base di ogni paese democratico occidentale e dall’altra delimitare il soggetto donna solo attraverso il suo ruolo di madre, arrivando anche a mettere in discussione i diritti riproduttivi delle donne.

“Le Pen supporta le politiche nataliste incoraggiando le donne ‘francesi’ ad avere più di due figli: il Fn richiede ad esempio un reddito di genitorialità  ‘al fine di garantire alle madri e ai padri di famiglia di avere davvero la possibilità di scegliere se esercitare una professione o se consacrarsi a tempo pieno all’educazione dei propri figli’”[7].

Si delinea così quello che nel testo viene definito “un fronte femminista islamofobo eterogeneo”, ma spesso l’autrice quando parla delle protagoniste di questo fronte utilizza la perifrasi “autoproclamatasi femminista”, e noi concordiamo sul dubbio: islamofoba e femminista può stare nella stessa frase?

Ci può essere un femminismo razzista, capitalista, che non parte dalla donna ma dalla costruzione di una nazione ricca e bianca?

Per provare a rispondere a questa domanda crediamo non basti più, semplicemente, dichiarare che non esiste il femminismo, ma i femminismi, rendendo chiara la pluralità di un movimento con due secoli di storia e infinite declinazioni. Certamente il plurale aiuta, ma non ci mette al riparo dalla fatica, quando parliamo come femministe, di dover costantemente rispondere a obiezioni che ci attribuiscono posizioni entrate nel dibattito pubblico ma che non ci appartengono. Pensiamo alle connotazioni razziste dei discorsi delle femocrate, ma non solo, perché molte sono le posizioni transfobiche, classiste o profondamente liberiste che attraversano il discorso pubblico sotto il nome di femministe. Per questo crediamo che sia giunto il momento di riconoscere il femminismo stesso come un campo di battaglia, un luogo conflittuale in cui costruire solide alleanze ma anche profonde fratture.

Certamente, infatti, tutte possono dirsi femministe, ma questo non costituisce immediatamente, attraverso un puro atto linguistico, potremmo dire performativo, un campo di sorellanza e condivisione. Dirsi femministe, in questo contesto, significa esporsi alla possibilità anche di costruire divergenze, non per cancellare le differenze e proporre un femminismo singolare, ma per riconoscere nel proprio partire da sé un punto di partenza e costruire alleanze sulla base del desiderio che ci anima e del modo in cui ci muove. Dirsi femministe, in qualche modo, ci connette a una storia ricca e profonda, a una rivoluzione in atto, ma poco dice – e in parte per fortuna perché testimonia una ricchezza – della direzione che ognuna di noi vuole intraprendere.

Per questo non possiamo che pensare il femminismo come un’impresa collettiva, non individuale, che non può mai darsi in solitudine, ma che si nutre sempre di un pensare insieme, di un mettersi in scacco a vicenda, illuminando punti ciechi o poco visibili delle esperienze delle altre e offrendo le proprie perché possano essere destabilizzate. Banalmente anche questo articolo è scritto a quattro mani, perché la prospettiva di una singola persona non bastava per rispondere alla domanda iniziale, e probabilmente, anche se fosse stato scritto da una sola di noi due, l’articolo sarebbe stato poco più della traduzione di un pensiero collettivo di cui facciamo parte e che è cominciato prima di noi. Non è mai un pensiero pacificato o pacificante, ma rinnova, sempre e di nuovo, una parzialità che non può che cozzare contro ogni tentativo di colonizzazione o neutralizzazione. Se femminismo è riconoscere il dominio patriarcale come una struttura fondante della società, mostrando come l’oppressione delle donne sia un dato strutturale, e non culturale, questo vuol dire che possiamo guardare a diverse forme in cui questa struttura agisce, in diversi luoghi e in diverse epoche storiche, senza istituire nuove gerarchie, ma guardando alle diverse pratiche con cui si può lottare per sconfiggere le diverse forme di oppressione, utilizzandole per vedere la propria. La lotta femminista, infatti, secondo Christine Delphy “consiste tanto nello scoprire le oppressioni ignote, nel vedere l’oppressione là dove non la si vedeva, quanto nel lottare contro le oppressioni conosciute” in un continuo mettere in discussione le mappe delle oppressioni così come pensiamo di conoscerle. Dirsi femministe, così, significa anche non vedere e non stabilire confini tra teorie e prassi, ma riconoscere quanto il pensiero prenda vita nell’azione e l’esistere determini la coscienza.

Vediamo come i temi e gli slogan del femminismo vengano usati per chiudere spazi di libertà, invece che per aprirli, e per descrivere il patriarcato solo come una stortura, un intoppo da correggere sulla via del progresso, ma sappiamo anche come, proprio nei femminismi, ci siano le possibilità di resistere ad ogni femonazionalismo.

Il femminismo non è rassicurante, ma è una critica al presente che ci tiene sempre in guardia. Non ci si affida al femminismo come a un’ideologia politica carica di promesse per il futuro, ma è una postura del corpo, del pensiero e del desiderio che scardina il reale con la promessa di sostituirlo non con un domani migliore, ma con un oggi imprevisto.

NOTE

[1] Puar J. K. (2007) Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times. Durham: Duke University Press.

[2] Giuliani, G. (2013) Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani. Milano: Mondadori e Poidimani, N. (2009) Difendere la razza. Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini. Roma: Sensibili alle foglie.

[3] Spivak, G. C. (1988) “Can a Subaltern Speak?” in Nelson C. e Grossberg L. (eds.) Marxism and the interpretation of Culture. Urbana: University of Illinoys Press.

[4] Farris, S. (2019). Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne. Roma: Alegre.

[5] Ivi, p. 27.

[6] Campani, G. (2000) Genere, etnia e classe. Migrazioni al femminile tra esclusioni e identità. Pisa: ETS.

[7] Ivi, p. 55.

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