Casta dei giornalisti? No, grazie

Solo a Roma sono 2mila i cronisti precari: sottopagati, senza tutele nè diritti. Una giungla di atipici dove a pagarne le conseguenze non sono solo giovani lavoratori ma la stessa libertà di informazione. E’ urgente una legge nazionale sull’equo compenso del “lavoro giornalistico”.

21 / 2 / 2012

 “I giornalisti? Una casta”. O forse è meglio specificare, per controbattere un luogo comune per eccellenza. Chiaro, siamo il Paese delle caste: politici, notai, medici, avvocati e – anche – giornalisti godono di privilegi estranei alla gran parte della popolazione. Ma siamo proprio sicuri che si può generalizzare a tutta la categoria? Ad analizzare meglio la situazione ci ha pensato Errori di Stampa, un coordinamento di giornalisti precari di Roma, che ha svolto un primo censimento della professione.

E i dati sono impietosi: solo nella Capitale esistono più di duemila cronisti precari impegnati in tutte le testate, dalla carta stampata alla tv, dalle agenzie di stampa alla radio. “Si tratta di professionisti, pubblicisti o non iscritti all’Ordine, costretti spesso a collezionare tre o quattro collaborazioni con testate diverse per arrivare a uno stipendio appena dignitoso - specifica il collettivo EdS - L’anomalia vera è costituita dalla moltitudine di contratti atipici: cococo, cocopro, stage gratuiti, lavoro nero, borderò, partite Iva, Frt, cessione dei diritti d’autore, contributi di solidarietà, tempo determinato, indeterminato con facilità di licenziamento senza tutele né indennità e con un preavviso di appena 30 giorni. Per non parlare degli assurdi inquadramenti per risparmiare sul costo del lavoratore: consulenti, autori, programmisti, assistenti, segretari e addetti alla redazione”. Si delinea così un quadro iniquo in cui regna la precarietà totale, della professione come della vita quotidiana dei cronisti in questione. Una giungla.

In gran parte sono giornalisti che producono – magari per 30 euro lordi (questa la media per un articolo pagato dagli editori nella Capitale) – quel determinato giornale che poi in edicola vende migliaia di copie. La tattica degli editori in questo è abbastanza chiara: bloccare il turn-over e restringere le redazioni a pochi componenti per subappaltare il lavoro (e le inchieste) all’esterno. Spieghiamo meglio. Un giornalista assunto a tempo indeterminato (il vecchio articolo 1 del contratto) ha certi – elevati – costi e se una volta le testate erano composte quasi esclusivamente da articoli 1, adesso le cose sono cambiate. Gli editori affermano un altro modello: redazioni di pochi giornalisti assunti a tempo indeterminato che si preoccupano principalmente di fare coordinamento e “desk” e una miriade di free-lance o collaboratori, pagati ovviamente a pezzo e quindi con bassissimo costo del lavoro, che gravitano intorno ad essi.

Persino i giornalisti mandati in pensione o in prepensionamento (quindi pagati dai contribuenti) non vengono sostituiti da altri articoli 1 ma “rimpiazzati” da precari, ai quali non bisogna garantire diritti. “Senza calcolare – si legge nel censimento di EdS – i costi che la realizzazione self-made di un articolo comporta: telefono, connessione, attrezzatura (es. videocamera). Proprio a partire da questa media, abbiamo calcolato che se un giornalista precario a Roma volesse guadagnare 1000 euro netti al mese, dovrebbe scrivere un articolo al giorno, tutti i giorni, senza ferie né malattia… e per 40 giorni al mese! Esistono, poi i fissi forfait, ‘concessi’ ai collaboratori assidui, che variano dai 300 ai 900 euro lordi, a prescindere dalla mole di lavoro richiesta. Se consideriamo che solitamente è quotidiana o quasi, ci si rende facilmente conto del livello di iniquità dei compensi. Tanti, troppi, sono anche i casi in cui non vengono rispettati i tempi di pagamento, slittando di giorni, settimane, mesi o addirittura anni, senza considerare le testate che ritengono ‘normale’ che i collaboratori non vengano pagati, o le proposte di assidue prestazioni giornalistiche in cambio della possibilità di diventare pubblicisti”. Una professione praticamente uccisa dalle leggi del mercato e del profitto dove a rimetterci non sono solo le vite dei giornalisti (precari) ma l’intera libertà di informazione. E il vero approfondimento di inchiesta. Un free-lance ovviamente per arrivare a fine mese deve produrre e badare più alla quantità che alla qualità del servizio. Non può permettersi i costi degli spostamenti o di specifiche attrezzature. Oppure non è libero nello scrivere.

Un articolo sulla Chiesa, ad esempio, viene redatto in una maniera se va venduto all’Avvenire, in un altro se il committente è Il manifesto. Come spiega EdS, un’informazione affidata a professionisti precarizzati e sottopagati non è un’informazione libera: “Il rischio non riguarda solo la vita di migliaia di giovani lavoratori, perché senza un’informazione libera è la stessa democrazia ad essere compromessa. Ecco perché chiediamo che, entro la fine della legislatura, sia approvata una legge sull'equo compenso del lavoro giornalistico”. Una proposta più che legittima. Per salvare una professione e la libertà di informazione nel Paese.

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