Cannabis. Cos'è cambiato dopo un anno dalla due giorni di Genova?

12 / 6 / 2015

Quasi un anno e mezzo fa (tra il 28 febbraio e il primo marzo 2014) si sono riunite a Genova associazioni, movimenti e gruppi impegnati nel contrasto delle politiche di stampo proibizionista, per rilanciare la loro ferma posizione contraria alla “war on drugs”. In diverse parti del mondo infatti si stava riaprendo il dibattito sulle sostanze e stavano facendo breccia nell’opinione pubblica internazionale le tesi dell’antiproibizionismo, non senza conseguenze anche nel nostro paese.

Prima tra tutte la sentenza d’ illegittimità della legge Fini-Giovanardi, nel febbraio 2014. Decisione della corte costituzionale con un enorme valore simbolico: anche in Italia si riapre il dibattito e si scatena una bufera di importanti dichiarazioni (il premier Renzi assicura una nuova legge più giusta e umana entro la fine del 2014).

Ma cosa è davvero cambiato da allora?

Annullando la Fini-Giovanardi con effetto retroattivo, la sentenza da una parte ha fatto rivivere la legge Iervolino-Vassalli (del 1990, figlia della stessa “guerra alla droga”, e di stampo altrettanto repressivo, con l’unica attenuante di distinguere tra droghe leggere e pesanti) e dall’altra ha lasciato nel caos il sistema giudiziario. Il Governo ha infatti deciso di rispondere alla sentenza della Corte Costituzionale attraverso il “decreto Lorenzin” (36/2014), che ha avuto due effetti importantissimi: ha spostato la cannabis nella tabella delle droghe leggere e ha reintrodotto come illecite sostanze che con la caduta della Fini-Giovanardi erano ritornate legali (vedi il caso dei fratelli Ongaro, assolti dall’accusa di spaccio di mefedrone perché nel periodo del loro processo il mefedrone era tornato a non essere considerato una droga). E’ però sprovvisto di qualsiasi misura automatica di “revisione” per i condannati, cui è rimasta come unico strumento l’“incidente di esecuzione”, cioè avanzare una richiesta formale di rideterminazione della pena. Si nota inoltre un comportamento poco coerente dei magistrati e un disparità di giudizio che pesa come un macigno sulle spalle dei detenuti, i quali si trovano molto spesso a dover confidare nella tolleranza del giudice piuttosto che nella certezza del diritto.

L’Italia si trova quindi ancora una volta ad arrancare alle spalle degli altri paesi occidentali, nei quali il dibattito sulle sostanze sta finalmente andando nella direzione della liberalizzazione.

Nella maggior parte del mondo infatti possedere marijuana è ancora illegale ma lo scorso anno, sulle orme dell’esperienza uruguaiana in molti stati si è deciso di normalizzare l’utilizzo delle droghe leggere.

Negli USA, ad esempio, sono tre gli stati in cui è concesso il possesso di marijuana per uso ricreativo, oltre a quello terapeutico: si tratta di Colorado, Alaska e Stato di Washington. Anche in Oregon è in via di implementazione una misura votata nel 2014, che prevede legalizzazione di uso ricreativo e vendita.

Anche il presidente Barack Obama pochi giorni fa ha spiegato come “se sempre più Stati della federazione promuovono leggi in merito – come sta avvenendo da qualche anno – che funzionano, anche il Congresso USA potrebbe rivedere le proprie politiche in merito di lotta alla droga”.

Già l’anno scorso, invece, il New York Times ha abbracciato la causa della legalizzazione della marijuana.

Certo, anche in Italia qualcosa si muove. Se non altro sembra ormai constatato il fallimento della guerra alla droga: nella sua ultima relazione annuale la Direzione Nazionale Antimafia, presentata il 25 febbraio scorso, spiega chiaramente quale è il quadro nel quale le istituzioni dovrebbero muoversi, quello della legalizzazione.

Nella relazione gli uomini dell'antimafia decretano, con parole piuttosto definitive, il fallimento del proibizionismo italiano: la DNA certifica di fatto l'ammissione del fallimento della repressione del mercato illegale di cannabinoidi e mette nero su bianco una posizione decisamente inedita in materia di cannabis, una secca apertura alla depenalizzazione del loro consumo e della vendita.

"Davanti a questo quadro, che evidenzia l’oggettiva inadeguatezza di ogni sforzo repressivo, spetterà al legislatore valutare se, in un contesto di più ampio respiro (ipotizziamo, almeno, europeo, in quanto parliamo di un mercato oramai unitario anche nel settore degli stupefacenti) sia opportuna una depenalizzazione della materia, tenendo conto del fatto che, nel bilanciamento di contrapposti interessi, si dovranno tenere presenti, da una parte, le modalità e le misure concretamente (e non astrattamente) più idonee a garantire, anche in questo ambito, il diritto alla salute dei cittadini (specie dei minori) e, dall’altra, le ricadute che la depenalizzazione avrebbe in termini di deflazione del carico giudiziario, di liberazione di risorse disponibili delle forze dell’ordine e magistratura per il contrasto di altri fenomeni criminali e, infine, di prosciugamento di un mercato che, almeno in parte, è di appannaggio di associazioni criminali agguerrite".

Alla relazione ha risposto Benedetto Della Vedova (un passato nel Partito Radicale ed un presente in Senato e come Sottosegretario di Stato del Ministero degli Affari Esteri) proponendo un intergruppo parlamentare con il quale, spiega, vuole imprimere un'accelerata al dibattito sulla cannabis e sulla sua depenalizzazione (la prima riunione si è tenuta il 26 marzo). Una sfida che il renzismo sembrava voler affrontare subito, ma che oggi continua a restare un taboo prigioniero di preconcetti ed ignoranza.

Della Vedova cita come esempio principe la svolta antiproibizionista statunitense, che nel giro di pochissimo tempo ha letteralmente polverizzato ogni preconcetto, arricchito considerevolmente gli stati "open" e abbassato di molto l'incidenza della piaga del narcotraffico: addirittura il Colorado restituirà ai suoi cittadini milioni di dollari di tasse non più dovute.

Là dove non hanno avuto successo il raziocinio e l’ intelligenza umana, infatti, ha avuto successo il business. Detto in soldoni, nella maggior parte dei paesi dove finalmente si sta smettendo di proibire la coltivazione della cannabis lo si sta facendo perché ci si guadagna.

Qualche cifra.

Secondo il presidente di Toscanapa (associazione impegnata nel diffondere le coltivazioni, le lavorazioni e gli utilizzi della pianta canapa promuovendo una nuova idea di industria vegetale, naturale e sostenibile), per quanto riguarda la coltivazione industriale, i ricavi della vendita dei prodotti agricoli provenienti da un ettaro coltivato si aggirano sui 1400 euro.

Negli Stati Uniti la legalizzazione della canapa per scopi ricreativi, ha fruttato un giro economico da circa un miliardo di dollari di vendite in un solo anno, ha portato nelle casse statali 58 milioni di dollari e creato quasi 40mila posti di lavoro.

Emerge da uno studio dell’ottobre scorso della Coldiretti, che con la produzione di cannabis terapeutica, in Italia potrebbe nascere un business de 1,4 miliardi di euro. E la creazione di 10mila posti di lavoro.

Non a caso si è deciso di avviare la coltivazione di cannabis terapeutica preso lo stabilimento militare di Firenze, che è di proprietà dello stato.

La cannabis terapeutica e la mancanza di una legge univoca

La speranza è anche quella di mettere fine alla dipendenza dall’estero dell’Italia, che importa farmaci a base di cannabis dai Paesi Bassi, a prezzi elevatissimi, in alcuni casi fino a 70 euro al grammo. L’obiettivo è riuscire in futuro ad abbassare i costi in maniera significativa e garantire più accessibilità al farmaco da parte dei malati.

In Italia il ricorso ai medicinali cannabinoidi è legittimo ormai dal 2007, quando l’allora ministro della Salute Turco ha riconosciuto l’uso terapeutico del Thc. Ma, a distanza di sette anni, arrivare ad assumere i farmaci che contengano Thc nel nostro Paese è ancora un vero e proprio calvario, una meta irraggiungibile per molti. Tra la resistenza dei medici a prescriverli e delle farmacie a venderli, le procedure burocratiche da seguire e i costi altissimi dovuti all’importazione del prodotto, i malati spesso si vedono costretti a rivolgersi agli spacciatori di strada.

La coltivazione non è ancora possibile, con le sole eccezioni delle autorizzazioni concesse dal ministero alle coltivazioni per scopi scientifici e sperimentali. Fino allo scorso settembre, l’unico centro autorizzato a coltivare marijuana per uso terapeutico in Italia era il Cra-Cin (Consiglio per la ricerca in agricoltura) di Rovigo, che fa capo al ministero dell’Agricoltura, e svolge ricerche genetiche sui cannabonoidi. Ma anche qui, una volta seccate, le piante vengono sequestrate e bruciate dalla Guardia di Finanza.

Il Veneto, dove il centro di ricerca si trova, è una delle nove regioni italiane (con Toscana, Liguria, Marche, Friuli Venezia Giulia, Puglia, Abruzzo, Sicilia e Umbria) ad aver approvato specifiche leggi regionali per l’utilizzo dei farmaci a base di cannabinoidi per la terapia del dolore e altre cure, garantendo il rimborso per i pazienti affetti da specifiche malattie. Da anni Gianpaolo Grassi cerca di spiegare quali potrebbero essere i vantaggi anche economici di una coltivazione della cannabis, e da anni sostiene che le piante del suo laboratorio anziché essere distrutte potrebbero venire utilizzate dalle case farmaceutiche per produrre cannabis medicale. Per le varietà selezionate a Rovigo da lui e dal suo gruppo di ricercatori, il centro è stato contattato dal Colorado, dalla California e anche dall’Uruguay. In Italia, invece, le sue piante finiscono in fumo.

A settembre 2014, però, qualcosa si è mosso. Il ministero della Difesa e quello della Salute hanno dato il via libera alla produzione della marijuana di Stato a uso terapeutico. A produrla sarà l’esercito italiano nello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, che oltre a soddisfare le esigenze sanitarie delle forze armate, produce già farmaci difficilmente reperibili sul mercato, è già in possesso delle autorizzazioni per la fabbricazione di medicinali e l’impiego di sostanze stupefacenti e psicotrope e ha una superficie di 55mila metri quadrati, sufficiente per avviare la coltivazione di cannabis. Gianpaolo Grassi, ma anche il senatore Pd Luigi Manconi, che sul tema ha presentato un disegno di legge, in passato avevano indicato più volte Firenze come soluzione ideale per coltivare marijuana in un regime di alta sicurezza. Il Cra-Cin di Rovigo – da quando si apprende finora - collaborerà con lo stabilimento di Firenze, continuando a fare ricerca sulla marijuana che sarà invece prodotta dai militari.

Dopo lo spauracchio di qualche settimana fa, quando a causa della spending review avviata nell’ottobre scorso dal governo Renzi sembrava che il centro di Rovigo dovesse chiudere, è arrivata l’11 maggio la conferma che il piano per la sperimentazione e la produzione di cannabis terapeutica continuerà senza intoppi.

Nel resto del mondo, intanto, si stanno attrezzando con legislazioni snelle e semplificate per poter facilitare ai malati l’accesso alla marijuana terapeutica. In Germania, da luglio 2014 i malati cronici hanno il diritto di coltivare cannabis a scopo terapeutico se viene dimostrato che nessun altro antidolorifico ha effetto sul paziente. A Berkley, negli Stati Uniti - dove l’uso cannabis per scopi terapeutici è legale in più di 20 Stati - il consiglio comunale della città ha approvato l’8 luglio una legge che stabilisce che ai pazienti che non possono permettersi di comprarla la cannabis verrà fornita gratuitamente. E anche il governo federale australiano sta per approvare una nuova legge di modo che il farmaco sia prescrivibile dai medici senza speciali procedure di autorizzazione, dando la possibilità di coltivare agli imprenditori agricoli in base a specifici requisiti di qualità e senza ingerenze da parte del governo.

Tiriamo le somme

L’Italia sembra essere finalmente pronta per una legge che non determini gran parte degli ingressi in carcere e del sovraffollamento penitenziario, che non costringa migliaia di semplici consumatori, palesemente riconosciuti come tali, a sottoporsi a un labirinto di controlli e sanzioni amministrative. Un nuova legge che non impedisca ai consumatori di sottrarsi al monopolio delle organizzazioni criminali attraverso l’autoproduzione e che incentivi la sperimentazione e la diffusione degli usi terapeutici della cannabis.

Sono diverse le ragioni per cui è necessario ridare centralità al dibattito sula cannabis, per giungere ad una decisione condivisa.

La prima è di politica criminale. La lotta alla droga fatta con eserciti, polizie, carceri e stigmatizzazioni sociali non ha funzionato. Se vogliamo affidarci a un criterio utilitarista si può dire che il consumo su scala globale non è diminuito e i morti non sono calati. Inoltre le organizzazioni criminali hanno costruito imperi economici intorno al narcotraffico.

La seconda ragione è di natura giuridico-costituzionale. Il nostro sistema penale è un sistema fondato sul principio dell’offensività. I delitti senza vittime non hanno dunque legittimità giuridica. Nel caso di buona parte delle norme penali in materia di droghe si fa fatica a individuare quale sia la vittima del comportamento tenuto.

L’ultima, e più importante, è una ragione etico-filosofica che possiamo riassumere sotto il grande contenitore delle libertà. Uno Stato non autoritario è uno Stato che sa ben distinguere l’etica dall’ordinamento giuridico. L’etica è al massimo un criterio di orientamento della formazione delle leggi. Leggi sulle droghe come la Fini-Giovanardi invece partono da un punto di vista etico e lo trasformano in criterio di regolamentazione dei comportamenti individuali. È una legge che nega la libertà, che impone un unico stile di vita, che esprime giudizi morali anche su chi usa la propria libertà senza interferire su quella altrui.

Come da un anno a questa parte non sono cambiate le norme, anche le nostre richieste sono le stesse: lottiamo per la depenalizzazione del consumo e dell’autoproduzione. I consumatori devono essere liberati tanto dal rischio di criminalizzazione penale quanto dalla soggezione a un apparato sanzionatorio amministrativo stigmatizzante e invalidante. Inoltre, consapevoli di come 70 anni di proibizionismo abbiano inesorabilmente cancellato la cultura del consumo consapevole, chiediamo il rilancio delle politiche di “riduzione del danno” e di prevenzione del rischio, per il diritto alla salute e ad una informazione diffusa, corretta e adeguata.