In questo periodo il reddito minimo garantito è nuovamente al centro
del dibattito politico. La premessa necessaria a qualsiasi riflessione
sulla politica sociale ed economica è che l’austerità è insostenibile, e
che entro il quadro già deliberato per i prossimi anni e sancito dai
trattati l’Italia è destinata al disastro economico e sociale e non è
quindi possibile ritenere che si possano portare avanti riforme del
welfare significative e progressiste.
Esiste una certa varietà
lessicale che può generare confusione, definirò quindi di volta in volta
cosa intendo indicare con i vari termini.
Un reddito di
cittadinanza inteso come un reddito assolutamente universale fornito a
tutti gli individui maggiorenni compresi gli occupati avrebbe un costo
del 20% del PIL per 500 euro mensili erogati a persona (il 40% del Pil
per una somma erogata doppia) Non sarebbe quindi sostenibile
economicamente, a meno di smantellare quasi completamente i servizi
pubblici – sanità, istruzione, trasporto locale - sostituendoli con quel
trasferimento monetario, cosa questa che a mio parere renderebbe il
mondo peggiore, non migliore, e francamente non apre a prospettive anche
‘utopiche’ interessanti.
Preferisco quindi discutere di ipotesi di
reddito minimo garantito, cioè di un reddito assicurato a persone non
occupate e la cui erogazione può essere soggetta a criteri definiti in
base al reddito, la disponibilità a lavorare o altri.
Intorno
alle proposte di reddito minimo vi è una insolita convergenza tra
‘movimenti’ radicali e ed economisti liberisti. I ‘radicali’ sembrano
vedere in questa proposta (o in quella considerata più avanzata, di
reddito di cittadinanza) la possibilità di una ‘liberazione dal lavoro’
oppure la possibilità di una radicale trasformazione dei rapporti di
forza in un sistema non più in grado di garantire buona occupazione.
Credo che tali posizioni siano piuttosto ingenue e velleitarie da un
lato (questo singolo provvedimento non può cambiare così profondamente
le cose – e se lo facesse, non passerebbe mai!) e dall’altro accettino
troppo rapidamente come ineluttabile la crescente precarizzazione e
disoccupazione che sono invece il risultato di scelte politiche
progressivamente compiute nei paesi industrializzati a partire dalla
fine degli anni ’70.
Il modo appropriato di guardare alla
questione del reddito minimo è pensarlo come una riforma progressista
del welfare, come tale auspicabile, che va nella direzione di un suo
ampliamento e non solo di un cambiamento nella composizione dei
trasferimenti e delle prestazioni.
In Italia sembra esserci una
contrapposizione tra chi sostiene la necessità di forme di reddito
minimo garantito sulla base della convinzione che il sistema economico
non possa più essere in grado di garantire una buona e piena
occupazione, e chi ritiene invece che la priorità sia appunto garantire
l’accesso al lavoro, e da questo punto di vista avversa l’idea di
trasferimenti monetari come ‘compensazione’ per l’impossibilità di
accedere ad un lavoro.
A questo riguardo è molto importante
ricordare che storicamente sistemi di welfare generosi, anche nel
garantire un reddito, si sono sviluppati in associazione ad un insieme
di istituzioni e politiche macroeconomiche volte al mantenimento di
elevati livelli di occupazione e bassa disoccupazione con strumenti di
tipo Keynesiano e socialdemocratico: politiche della domanda aggregata,
redistributive, politiche industriali e del commercio con l’estero (è
così nei paesi nord-Europei compresa la citatissima Danimarca e, in
grado un po’ minore, nell’Europa continentale). Le due cose – sistemi di
welfare generosi e politiche di pieno impiego – si sostengono a
vicenda. Un livello elevato di occupazione è necessario a consentire la
sostenibilità economica, ma anche politica e sociale del welfare in
generale e in particolare di forme di reddito garantito a chi non
lavora. D’altro lato l’esistenza del welfare e di trasferimenti di
reddito rilevanti è un fattore che contribuisce significativamente al
sostegno della domanda aggregata, e quindi al mantenimento di elevati
livelli di occupazione.
In presenza di elevata disoccupazione e
bassi tassi di occupazione, come avviene in Italia soprattutto nel Sud,
un sistema ampio e generoso di trasferimenti diventa di difficile
realizzazione in generale – e impossibile nel quadro di accettazione dei
vincoli di bilancio pubblico e delle politiche di austerità.
Dunque
politiche per l’occupazione e politiche di ampliamento del welfare non
vanno viste in contrapposizione/alternativa ma come necessariamente
intrecciate e complementari.
In un certo senso, molti tra i
fautori ‘moderati’ e liberisti di un reddito minimo tengono conto del
problema della sostenibilità di un sistema di trasferimenti solo in
presenza di elevata occupazione, dandone però una soluzione che è
errata: si tratta della proposta di coniugare trasferimenti di reddito
(ai poveri, ai disoccupati) con una maggiore flessibilità del mercato
del lavoro. Si sostiene infatti che quest’ultima potrebbe consentire una
riduzione della disoccupazione. E’ proprio nella possibilità di
coniugare il reddito minimo con maggiore flessibilità del mercato del
lavoro che va ricercata una delle ragioni, forse la principale, del
consenso oggi di molti liberisti e moderati su proposte di reddito
minimo.
Tuttavia ormai numerosissimi studi empirici hanno
mostrato che la flessibilità del mercato del lavoro e la connessa
maggiore flessibilità del salario non sono associati né ad una minore
disoccupazione complessiva né ad una minor disoccupazione giovanile[1]. E
anzi alcuni studi mostrano che i paesi con maggiori protezioni
all’impiego sono anche i paesi che, nella recente crisi, hanno avuto una
performance migliore (cfr ad esempio Tridico, 2013)[2].
Il
necessario intreccio tra politiche di piena occupazione e reddito
garantito non può quindi essere risolto dal binomio reddito e
flessibilità, come proposto da molte parti, ma può essere affrontato
solo con un ritorno della politica economica al perseguimento
dell’obiettivo della piena occupazione con un insieme di strumenti di
politica macroeconomica e industriale.
Riferimenti bibliografici
David
Howell, Dean Baker, Andrew Glyn, John Schmitt (2007) Are protective
labour market institutions at the root of unemployment? A critical
review of the evidence, Capitalism and Society, vol 2 n. 1.
Antonella
Stirati (2008), La flessibilità del mercato del lavoro e il mito del
conflitto tra generazioni, in Paolo Leon e Riccardo Realfonzo (curatori)
L’economia della precarietà, Il Manifestolibri, Roma.
Antonella
Stirati (2012), Crescita e ‘riforma’ del mercato del lavoro, in Sergio
Cesaratto e Massimo Pivetti (curatori) Oltre l’Austerità, ebook,
Micromega-on-line.
Pasquale Tridico (2013), The impact of economic
crisis on eu labor market: a comparative perspective, International
Labour Review, n. 2.
Note
[1] Per una
analisi molto dettagliata della letteratura e dei dati si veda il
lavoro di Howell e altri del 2007; per un approccio più legato al
dibattito italiano si vedano i miei contributi del 2008 e del 2012. Per
una riflessione più ampia sul reddito minimo si rinvia al mio saggio in
corso di pubblicazione su “Rivista del diritto della sicurezza sociale”.
[2]
Si veda ad esempio il saggio di Tridico del 2013. Non si tratta
naturalmente solo di risultati empirici, ma di diverse teorie economiche
che portano a risultati opposti circa che cosa determina la
disoccupazione. Da un lato la teoria “ortodossa”, per quello che qui
interessa, individua una tendenza spontanea dell’economia di mercato a
realizzare il pieno impiego se non sussistono vincoli e ostacoli al
mercato e quindi piena flessibilità di prezzi e salari. Dall’altro
l’approccio teorico che rappresenta uno sviluppo del pensiero di Keynes e
altri grandi economisti, secondo il quale è la domanda aggregata che
determina livello di produzione e occupazione non solo nel ciclo ma
anche nel lungo periodo, e la flessibilità nel mercato del lavoro non è
quindi in grado di ridurre la disoccupazione, e non può di conseguenza
svolgere il ruolo di garantire livelli di occupazione compatibili con un
sistema di reddito minimo garantito generoso.
tratto da economiaepolitica.it