Benvenuti al Clandestino Day

14 / 9 / 2010

Intervento pubblicato dal settimanale Carta del 10 settembre 2010, n. 29

Quando nell’agosto 2009 abbiamo cominciato a maneggiare la nuova normativa approvata con il pacchetto sicurezza, non è stato difficile immaginare un drammatico peggioramento delle condizioni di vita dei migranti in questo paese. Ciò che forse non eravamo stati in grado di cogliere in pieno è il nuovo lessico che la politica del governo delle migrazioni stava mettendo in campo.
Non è il momento di fare bilanci, ma proviamo ad addentrarci in questo nuovo contesto per cogliere il livello della sfida sul quale siamo chiamati a confrontarci.
L’immigrazione è un problema, mai come in questo momento. Ovviamente, non perché i migranti siano un problema per questo paese (mai lo abbiamo creduto, mai lo crederemo) ma perché quello dell’immigrazione si sta rivelando da tempo il terreno su cui il comando cerca continuamente di ridefinire le sue possibilità, e sembra riuscirci. In molti, a questa stretta sui diritti e le libertà, credevano potesse corrispondere una altrettanto proporzionata risposta sociale. Così non è stato, per diversi fattori. Primo fra tutti perché la crisi ha lavorato e stratificato nel corpo sociale prima ancora che sulla finanza globale. Per i movimenti è la partita è centrale e non aggirabile, per una uscita dalla crisi che parli di un nuovo comune dei diritti per tutti.
Molte cose sono cambiate, alcune rappresentano la continuità di una proposta di governo delle migrazioni che viene da lontano, altre sono inedite, altre ancora stanno prendendo forma e faticano ancora a risultare chiare.

Fino a qualche tempo fa, intorno al nodo immigrazione-lavoro si risolvevano in avanti le enormi contraddizioni che i movimenti migratori proponevano sul terreno della cittadinanza e dei diritti a tutta l’Europa. Tutti, governanti compresi, facevano i conti con questa centralità dei migranti nei processi produttivi. Ma oggi quel nesso non sembra più da solo in grado di proporre una architettura stabile. E non perché il lavoro migrante non esista. Piuttosto perché il governo della mobilità sui corpi in movimento si è spinto oltre, fino a diventare più compiutamente governo della vita, e della morte. Qualcosa si è rotto insomma ed il tentativo di gestire questa rottura non poteva che essere violento. Ancora più di prima.
Tra le pieghe del pacchetto sicurezza sono contenute alcune tracce di questo nuovo linguaggio. L’accordo di integrazione per esempio, subordinerà a breve il diritto di soggiorno dei nuovi arrivati (a patto che vi siano quote a disposizione) ad una valutazione, non più attestata solo sulle loro possibilità lavorative e abitative, come per anni hanno voluto i ritornelli della politica, ma invece su una radiografica ispezione degli stili di vita, delle capacità di linguaggio, delle opzioni relazionali che esprimono i soggetti in questione, misurate in crediti. Si tratta di una tra le tante norme che, regolando la vita dei migranti «regolari», propongono un mutamento qualitativo del ricatto e della precarietà del diritto di soggiorno.
L’altra faccia di questo nuovo terreno di contesa è rappresentata dalla clandestinità: il reato di immigrazione clandestina, i respingimenti verso le torture libiche, il prolungamento della detenzione nei Cie, hanno dato forma, materialmente e simbolicamente, ad una nuova intensità del comando sugli esseri umani che neppure la prima stesura della legge Bossi-Fini aveva saputo immaginare.
Su questo terreno, quella della produzione della clandestinità, molto è cambiato. I clandestini, lo sfruttamento, le violenze ci sono sempre stati. Ma adesso bisogna cogliere la centralità che ha assunto questo paradigma.
Appare sempre meno sufficiente una descrizione della clandestinità che guardi solo alla condizione soggettiva di chi vive senza il permesso di soggiorno e senza diritti. La clandestinità è diventato piuttosto, fino in fondo, un paradigma politico sociale giocato su diversi fronti, con diversi gradi di intensità e drammaticità. Anche i precari della scuola e gli operai di Pomigliano (clandestini a modo loro) sperimentano sulla loro pelle questo processo politico-sociale di clandestinizzazione, delle idee, del linguaggio dei diritti, della vita.
L’estate appena trascorsa ci ha lasciato una eredità che non possiamo far finta di non portarci dietro e che ben sintetizza i problemi sui quali siamo chiamati a confrontarci. La morte di innumerevoli richiedenti asilo respinti dall’Italia verso la Libia di Gheddafi, insieme alle rivolte che hanno attraversato la stragrande maggioranza dei Cie italiani sono figlie di questo paradigma della vita e della morte che la clandestinità oggi rappresenta. Mentre coinvolgono violentemente i migranti, questi stessi avvenimenti raccontano a tutti come il comando si sia spinto oltre, con un grado di brutalità senza precedenti.
Non dobbiamo rispondere solo per proteggere i migranti (non solo), ma perché questo è il piano su cui si sta costruendo l’orizzonte della nostra società nei prossimi anni.
Ciò che abbiamo di fronte ci riguarda eccome. Ecco perché bisogna immaginare, dal prossimo Clandestino Day del 24 settembre in poi, di ricostruire parte del nostro lessico, del lessico dei movimenti.
Sia chiaro, le lotte, i conflitti, non si sono mai fermati. Negli ultimi anni anzi abbiamo forse sperimentato la proliferazione più diffusa di battaglie, resistenze, rivolte, conflitti, dentro una società che via via è parsa diventare nella sua interezza un centro di detenzione a cielo aperto. La rivolta di Rosarno, le insurrezioni che quotidianamente si registrano all’interno dei Cie, parlano proprio di una conflittualità nuova, che è il prodotto neppure troppo collaterale delle brutalità, dello sfruttamento, del confinamento prolungato. Al tempo stesso sono espressione dell’insufficienza collettiva che registriamo nel disegnare uno spazio possibile dei conflitti e dei movimenti capace di proporre un orizzonte, nuovi linguaggi, un nuovo comune dei diritti.
Con questo dobbiamo fare i conti. Ne abbiamo bisogno. È possibile.
È possibile immaginare di costruire a partire da questo terreno un nuovo spazio pubblico dei movimenti. Le occasioni non mancano.
In molte regioni è all’ordine del giorno la costruzione di nuovi Cie. Il Veneto, la Toscana, le Marche, la Campania, saranno chiamate nei prossimi mesi a questa sfida. In altre regioni l’esistenza dei Centri di detenzione per migranti è un nodo ancora aperto e sempre più significativo. Possiamo pensare una discussione sull’immigrazione oggi che si confronti con questi temi? Noi ci crediamo. Abbiamo il dovere di dare dignità a questa sfida.
Non si tratta di riprendere il filo di un discorso interrotto, ma di tesserne uno nuovo, aperto, condiviso. Per i diritti dei migranti, per quelli di noi tutti.
Se siamo d’accordo allora «Welcome!». Benvenuti, queste sono alcune delle sfide che abbiamo davanti.