Beata irrequietezza

29 / 1 / 2022

Per Herbert Marcuse, l’irrequietezza era una componente fondamentale di qualsiasi azione politica radicale di emancipazione, perché poteva trasformarsi in un una potentissima energia vitale collettiva. E questa irrequietezza lui la vedeva innanzitutto in quel corpo studentesco che – negli anni che precedevano il ’68 – portava il peso di un sistema scolastico estremamente arretrato e poco aderente a una società che si era profondamente trasformata.

I paragoni sono sempre qualcosa di pesante ed effimero allo stesso tempo, ma  sarebbe sciocco non scorgere in quello che sta succedendo nelle piazze italiane in questi giorni il sintomo di un’irrequietezza che si va politicizzando. La si vede nella rabbia di una generazione che non si ferma a piangere un coetaneo morto in un modo tanto assurdo quanto prevedibile, ma mette in fila parole d’ordine che vanno subito al punto della questione: abolire l’alternanza scuola-lavoro – e non “riformarla” come balbetta qualche forza politica e sindacale -, ma soprattutto rompere l’idea stessa di “scuola-azienda”. Un modello che si è fatto avanti in Italia fin dagli anni ’90, in concomitanza, guarda caso, con le prime riforme strutturali del mercato del lavoro, è che ha avuto la sua apoteosi con il “grande” disegno renziano della Buona Scuola.

Negli anni ci siamo abituati a un ossimoro, a un paradosso che ha accostato i termini “scuola” e “azienda”, che per decenni avevano rappresentato sfere della vita sociale quasi antitetiche tra loro. Ma questo è potuto accadere per una scelta strategica che il capitalismo – e non solo qualche disgraziato governo - ha fatto nella sua tendenza a rendere “produttivi” e “competitivi” sempre più pezzi della vita di un individuo. E quale luogo, se non la scuola, poteva essere il più proficuo nell’educare le persone alla competizione, alla performatività, a un’idea di società in cui l’unico valore è il self-improvement  e non la dimensione collettiva.

L’ottimo Salvatore Cingari, nel suo libro “La meritocrazia” (2020) analizzava proprio come l’approccio alla scuola emerso negli ultimi anni abbia svuotato questa di qualsiasi funzione etica, proprio nella misura in cui ha valorizzato “il merito” in una prospettiva unicamente competitiva che divide docenti e studenti in vincenti e perdenti, facendo diventare questo il fondamento di nuove diseguaglianza.

È innegabile che la pandemia abbia accelerato questi processi, non solo attraverso l’atomizzazione psicotica prodotta dalla didattica a distanza, ma soprattutto nella chiara scelta di arginare qualsiasi ipotesi migliorativa della scuola, sia a livello di infrastrutture, sia in termini di percorsi didattici che fossero minimamente adeguati alle esigenze culturali e formative di una generazione nata nel pantano di una crisi economica e cresciuta con l’incubo di una crisi climatica diventata inesorabile.

Ma torniamo alla cronaca recente, ai fatti di Roma, Milano e Torino che vanno letti non solo come lampi in cui la gioia dello scontro si sostituisce momentaneamente alla mestizia di un presente involuto. Finalmente quei fatti, quegli scontri ci parlano di un processo, che dialoga apertamente con le decine di occupazioni scolastiche che lo scorso autunno da Roma si sono propagate al resto d’Italia. Ma dialoga anche con le piazze climatiche degli ultimi tre anni, con le mobilitazioni transfemministe che hanno avuto come protagonista assoluta la composizione studentesca.

È una soggettività nuova, quella che in questi giorni si sta prendendo la scena pubblica e politica, che avrà tanto da darci proprio perché è figlia di una generazione a cui hanno davvero tolto tutto, anche la possibilità di bisbigliare con la propria compagna o compagno di banco. E mentre i tromboni della politica stanno dando il peggio di sé per eleggere il tredicesimo Presidente della Repubblica, si fa largo un’irrequietezza vivace e radicale a cui non possiamo che guardare con “viva e vibrante soddisfazione”, per citare una celebre parodia di Crozza a “Re Giorgio” Napolitano, per rimanere in tema di Capi di Stato.

Immagine di copertina: foto di Daniele Napolitano