Austerity e finzioni

29 / 2 / 2012

Il dibattito pubblico sui salari in italia, e sul loro livello in rapporto a ciò che accade in altri paesi europei, offre l’ennesima riprova di come questo governo utilizzi dei nodi aperti e mai risolti della questione sociale, solo per manipolarli e ricavarne arnesi utili a perseguire con le proprie politiche di austerity.
Dal punto di vista propagandistico, le modalità sono esattamente le stesse per ogni argomento che riguardi la cosiddetta riforma del mercato del lavoro. I salari, secondo i sapienti interventi dei governanti, sono bassi perché il costo del lavoro è alto, cioè gli oneri a carico dell’impresa, e la produttività non è sufficiente, e qui si intendono le prestazioni lavorative dei dipendenti.
Nessun ragionamento sulla forbice che allargandosi sempre più in tutta europa, trascina sul livello di quasi povertà oltre cento milioni di cittadini, molti dei quali lavoratori salariati. Nemmeno un cenno alla composizione degli utili di impresa, che con buona pace di coloro che vedono nell’economia reale una sorta di mitologica soluzione da contrapporre ai guasti di quella “astratta” generata dalla finanza, è il prodotto, ormai difficilmente distinguibile, dell’interelazione tra profitto e rendita. Se la discussione non fosse già orientata, questo permetterebbe di capire perché, ad esempio per Marchionne, sia più interessante l’andamento in borsa del titolo Fiat- Chrysler che la ricerca su modelli innovativi di auto.
E naturalmente figurarsi se il tema della redistribuzione della ricchezza, che è una grande questione del nostro tempo come la povertà, entra con serietà nel dibattito. Esso è solo “arnese da scasso” per fare altro, se vogliamo il contrario di quello che è in principio affermato: la diminuzione delle diseguaglanze, dice il governo, passa attraverso l’aumento dei salari che sarà possibile solo facendo pagare meno il lavoro alle imprese e quindi riducendo le tutele e le rigidità, sia in ingresso che in uscita.
Ricapitolando per avere un aumento di salario, bisogna che i contributi delle imprese per “assicurare il lavoro”, come la cassaintegrazione o a mobilità, siano drasticamente ridotti. Riducendo o eliminando del tutto l’estensione e l’utilizzo di questi dispositivi. Quindi, sempre riassumendo, per avere una busta paga un po’ più consistente, bisogna avere meno diritti. Cioè il salario potrebbe, alla lunga, essere di meno se si considera l’intero periodo lavorativo e non solo la quota corrisposta per la prestazione mensile.

A fianco di questo, il governo è già intervenuto sul salario differito, cioè la previdenza, e la ricetta è stata la stessa: allungamento dell’età pensionabile e diminuzione delle pensioni. Anche in questo caso, le ragioni sono “scientifiche”: il tempo di vita è aumentato e quindi “non possiamo permetterci di pensionare persone ancora in grado di lavorare”. A parte l’ovvia considerazione sui lavori usuranti, se il discorso su quella che viene comunemente definita “terza età” fosse approfondito, ad esempio utilizzando l’ultimo libro di Pugliese, scopriremmo che c’è anche una “quarta età”, che è quella finale, nella quale l’anziano non è più in grado di essere autosufficiente. Considerando che le aziende non si tengono i settantenni in produzione, visto che già in media dai 55 anni esse tendono ad espellere dal ciclo produttivo i dipendenti, e visto che gli ammortizzatori sociali saranno ridotti in quantità di tempo utilizzabile e in quantità di reddito percepito ( perché si dice che così ci saranno per tutti, proteggeranno il lavoratore e non il lavoro ) ci dobbiamo preparare ad avere un esercito di riserva di sessantenni pronti per l’intermittenza lavorativa che dalla terza alla quarta età saranno ulteriormente spremuti.

L’azione del governo poi si concentra, ma non è certo una novità dei tenici, sul salario sociale, sul welfare. Pubblico e privato, nella moderna governance europea della finanza, non sono quasi più distinguibili: le cosiddette “liberalizzazioni” sono di fatto privatizzazioni di servizi pubblici. Quindi costano di più, oltre che essere gestite con la logica d’impresa, e quindi con l’obiettivo di dover garantire profitto e rendite. Questo governo non ha alcuna intenzione di mettere mano ai dispositivi imposti ai comuni e alle regioni dal precedente esecutivo, anzi. D'altronde, in termini generali, l’inserimento nelle costituzioni del pareggio di bilancio, come l’imposizione del patto di stabilità agli enti locali, uccide definitivamente qualsiasi possibilità di utilizzo di denaro pubblico per servizi non mercantili, cioè che non rendono in termini monetari.
Come se la qualità della vita e i diritti social si potessero misurare in spread o Pil.
Il denaro pubblico, proveniente dalla tassazione tra le più alte d’europa, dal taglio del welfare, dalla dismissione di beni collettivi, dalla compressione dei salari diretto, indiretto e sociale, serve per le banche.
Tutti questi balletti di cifre, strategie, grandi conoscenze regalate al popolino da un governo di rentier, inscenano la finzione di avere a cuore i giovani, ed è questo il motivo dichiarato di tanto impegno nel demolire le ultime rigidità del welfare state. Salvo poi aggiungere che la grande riforma del mercato del lavoro, quella che dovrebbe intervenire sulla precarietà eliminando il dualismo tra troppo garantiti e per nulla garantiti, deve essere a costo zero. Come dire che è tutta una grande buffonata.
La tassazione aumenta, e non vi è, tesoretti o non tesoretti, nessuna reale volontà di utilizzare diversamente le risorse pubbliche. I salari diminuiranno in termini generali, il tempo di lavoro si articola in tempo di lavoro continuativo e intermittente insieme, come la precarietà si articolerà di intensità, e la traiettoria non sarà quella definita da un sistema di protezione sociale, ma dai dispositivi del credito. Il “debtfare state” è servito.
Di fronte a tutto questo l’unica incognita, l’unica variabile indipendente, sono le persone. Dobbiamo opporci alle politiche di austerity perché esse non sono altro che i sacrifici imposti alla maggioranza per alimentare un sistema ingiusto e senza uscita. Dobbiamo batterci perché la finzione della “democratizzazione” del mercto del lavoro sia disvelata, e si mostrino invece i reali effetti delle politiche liberiste in tutta europa. Dobbiamo batterci al fianco di chi resiste per non far cancellare le tutele e i diritti, perché solo con loro potremmo conquistarne di nuovi.
Salario, reddito, audit pubblico sul debito, difesa dei beni comuni, conversione ecologica e territoriale della produzione, sono i nodi centrali di una bttaglia comune. Anzi per il comune contro la rendita, la privatizzazione, l’austerity con cui i banchieri rapinano i cittadini.
E’ per tutto questo, per quello che sta accadendo in Grecia e in Val di Susa, che il 9 Marzo, a fianco della Fiom, dobbiamo esserci.
Luca Casarini