UN
FIUME IN PIENA
Il
16 Novembre Napoli sarà invasa da una delle più imponenti
manifestazioni popolari degli ultimi anni. Un fiume in piena,
come recita lo slogan di lancio, l'hashtag che sta invadendo la rete,
l'ambizione spregiudicata che sta in testa alle centinaia di
attivisti ed attiviste che stanno lavorando instancabilmente per
vincere questa scommessa. Un fiume con centinaia di piccoli
affluenti, che da mesi stanno già straripando in tantissimi comuni
del nord della regione, su quelle terre appellate negli ultimi anni
con mille mortiferi nomi: terra dei fuochi, paesi dei veleni,
triangolo della morte.
Questa immensa presa di coscienza
collettiva si respira dappertutto. Mentre bevi il caffè al tavolino
di un bar di un quartiere popolare, mentre ordini un mobile ad una
commessa dell'Ikea, mentre fai la fila alla posta.
Ovunque, la
metropoli, parla, con rabbia e indignazione, di biocidio.
Bisogna
vivere questi giorni campani strada per strada per capire fino in
fondo come si traduce il portato collettivo di almeno quindici anni
di lotte instancabili, in un contagio di sapere diffuso, reticolare,
capillare che oggi non lascia scampo ad alcun populismo offensivo.
Ha
probabilmente poco senso interrogarsi oggi su quale sia stata la
goccia che ha fatto traboccare un vaso saturo da troppo.
Se le
ennesime dichiarazioni di un Ministro della Repubblica che, solo
pochi mesi fa, ribadiva l'assenza di un nesso causa-effetto tra le
malattie tumorali e il disastro ambientale campano, sostenendo che
l'incremento spaventoso dei tassi di tumore fossero causati dagli
stili di vita dei campani. Dichiarazioni che facevano eco a quelle
identiche del ministro tecnico Balduzzi di qualche mese
prima.
Se lo straparlare del super-pentito Carmine Schiavone , che
negli ultimi mesi ci ha restituito il quadro di uno Stato più che
assente, più che complice, vero e proprio protagonista di
sversamenti ed avvelenamenti. Dichiarazioni che fanno ancora più
rabbia se si pensa che il Ministro dell'Interno in quel lontano 1997
era proprio Giorgio Napolitano, figlio cinico di queste terre, che
ancora una volta, in nome di equilibri di potere, è stato complice
della secretazione di quelle carte.
O se piuttosto la semplice e
meravigliosa sedimentazione di un lavoro costante di comitati, gruppi
informali, cittadine e cittadini, spesso offesi da accuse di
nimbismo, che hanno portato avanti senza posa battaglie anche
durissime, in barba alle misure cautelari, alle denunce e al
carcere.
Quello che ci consegna il presente è un'assunzione
moltitudinaria e per questo imprevedibile di un termine, il biocidio,
che serve a raccontare compiutamente l'assassinio indiscriminato
delle forme di vita tutte, su un pezzo di territorio sconfinato, che
giorno dopo giorno si allarga a macchia di leopardo a tutto il
sud.
Non è un tema semplice da affrontare, lo abbiamo sempre
saputo.
Siamo dinanzi ad un salto di qualità politico rispetto
alle battaglie “vertenziali” contro i siti di stoccaggio, gli
inceneritori o le discariche.
Ci sono voluti più di quindici anni
per rintracciare un minimo comune denominatore attorno alla cosa più
singolare che riusciamo ad immaginarci: la morte.
Non ci sono
fabbriche dove si sono esalati gli stessi fumi, non c'è un accertato
incidente nucleare. Per anni c'è stata solo la conta anomala degli
scomparsi famiglia dopo famiglia, dolore dopo dolore.
L'unica cosa
in comune e che lega assieme queste orribili ed inspiegabili storie
di malattia e morte è il territorio, il luogo in cui il bios
si articola in tutte le sue forme.
Un territorio d'altra parte
vastissimo, che la speculazione edilizia ha trasformato in una enorme
distesa di isole di cemento, cinte dai terreni gonfi di rifiuti
tossici, legate l'una all'altra solo da orribili statali.
Le
comunità della provincia napoletana e casertana hanno cominciato a
parlarsi a partire da una slow violence efferata a cui sono
stati sottoposti e dallo sgomento per la quantità di morti per
tumori, morti che hanno cominciato ad essere “inspiegabilmente”
anche i bambini. Le madri di questi bambini, hanno cominciato ad
esprimere il coraggio e la rabbia e stanno trovando nelle
mobilitazioni di questi mesi una prospettiva collettiva di riscossa,
fondendo il singolare di una dolorosa esperienza personale, nel
comune della rivendicazione di giustizia.
Come la madri di
Plaza de Mayo, combattono una battaglia contro poteri radicati e
diffusi capaci di nascondersi dietro gli alibi della politica,
l'intoccabilità della magistratura, l'imponenza dei grandi clan.
UNA
SINGOLARITÀ IMMERSA NELLA MOLTITUDINE
A
partire da questo quadro composito e però espansivo, ci collochiamo,
come soggettività organizzata in un momento particolare della nostra
storia. Tra pochi mesi il primo spazio che abbiamo occupato,
Insurgencia, compierà dieci anni. Questo autunno, l'irruzione nella
metropoli di un tema che non abbiamo mai voluto declinare in senso
esclusivamente ambientalista e a cui d'altra parte non abbiamo mai
smesso di prestare tempo ed attenzione, ci pare il modo migliore per
cominciare a "festeggiare".
Dieci anni fa decidemmo, non
per caso, di occupare uno spazio in periferia, a ridosso di alcuni
dei quartieri più difficili della città.
Eravamo giovanissimi e
venivamo dai collettivi studenteschi dell'area nord di Napoli.
Conoscevamo la periferia meglio del centro e la lezione che ci
portavamo dietro dalla stagione del movimento No Global e dalle
giornate di Genova, era innanzitutto quella di imparare a declinare
le battaglie contro il capitalismo globalizzato e predatorio, sui
nostri territori, guardando particolarmente al modello zapatista.
Sapevamo
che di contraddizioni che palesavano l'ingiustizia di un mondo che
stava cambiando in senso sempre più anti-sociale, il nostro
territorio era gravido.
E così a partire dal 29 Agosto 2004 ad
Acerra, pochi mesi dopo l'occupazione di Insurgencia, è iniziata una
storia che ci ha visti su ogni barricata, aizzata contro lo scempio
della gestione del ciclo dei rifiuti.
Quelle campane, sono
tutte storie legate dal filo della creazione strumentale
dell'emergenza. Abbiamo scritto e detto tanto in questi anni su come
ad Acerra, Giugliano. Pianura, Chiaiano e Terzigno si sia
sperimentata inmodo inedito la destituzione della
democrazia rappresentativa e dei suoi organi formali a favore di un
intervento condiviso delle governance economiche e politiche. I
cittadini e le cittadine di quei territori sono stati coattamente
espropriati di ogni possibilità di decidere, e, laddove dimostravano
(come è sempre accaduto) una attitudine particolare alla ribellione,
fermati con l'esercito e con l'inasprimento delle pene.
Eppure
niente di tutto quello che accade oggi e che qualcuno potrebbe
definire erroneamente un movimento di mera opinione, sarebbe stato
possibile senza quelle tappe così significative nella storia dei
conflitti sociali non solo locali, ma dell'intero paese.
Il debito
di questo fiume in piena che dalla provincia sta per invadere la
città, verso chi ha trascorso centinaia di notti insonni a
presidiare i mille cantieri, è infinito ed impagabile.
Noi, dal
canto nostro, non abbiamo mai preteso di fare l'avanguardia, neppure
quando, nel 2008, arrivarono a Chiaiano, a pochi passi da
Insurgencia, in pieno stile commissariamento, con un cartello
di corresponsabili che coinvolgeva tanti dei poteri forti locali e
nazionali, con nomi e pedigree (come quello di Gianni De Gennaro) che
avevamo già incontrato nelle piazze dei movimenti alter-mondisti e
che avevano già dimostrato una condotta da macellai cinici e
impuniti.
Abbiamo sempre creduto fosse giusto mischiarci tra
quelle donne e quegli uomini che disobbedivano allo Stato prima e
all'esercito poi, utilizzando i propri corpi a difesa della nostra
terra. Abbiamo portato in quella lotta la cultura politica e il
pensare globale che avevamo imparato nelle strade e nelle piazze no
global, i simboli dello zapatismo, lo stile spregiudicato e
coraggioso dei ragazzi e delle ragazze dei centri sociali, tuttavia
siamo sempre stati nel mezzo. Quello stare nel mezzo ci ha fatto
diventare grandi. Sappiamo di dovere a Chiaiano moltissimo della
storia che festeggeremo il 5 Gennaio, nella data del compimento dei
dieci anni.
Sappiamo che quella lotta vera ci ha proiettati fuori
dallo spazio giovanilista in cui eravamo cresciuti e dentro la reali
complessità della metropoli.
Anche se si è perso allora e la
discarica è stata aperta, provocando un peggioramento estremo delle
condizioni di vita e di salute di chi abitava ed abita quelle zone, a
Chiaiano è rimasto vivo per tutti questi anni un Presidio
permanente, che, a partire da una conoscenza capillare del territorio
e da un'insofferenza profonda per quella occupazione vergognosa da
parte dell'esercito, non ha mai smesso di lottare per la chiusura
della discarica. Ha vinto tre anni dopo. E neppure dopo quella
vittoria è tornato a casa. Si è moltiplicato, ha contagiato gli
altri territori circostanti. E' nato un comitato anche nella vicina
Mugnano fatto di cittadini e cittadine che, a partire dalle
contraddizioni sui temi ambientali, si è posto immediatamente come
soggettività che rivendicava più complessivamente il diritto alla
città. Siamo stati e siamo cellule di questi corpi così. Abbiamo
sperimentato e sostenuto gli esperimenti di autonomia che l'area nord
ha vissuto e vive tutt'oggi, le occupazioni, le campagne, la
promozione di welfare dal basso. Abbiamo costruito un pezzo di quella
metropoli policentrica e diffusa che l'urbanistica neoliberale ha
provato a distruggere. Proprio in questa prospettiva, abbiamo
sperimentato negli anni l'incosistenza della categoria di
“n.i.m.b-y.” (sigla per «not in my back-yard», indicante
l'ipotetica matrice identitaria ed individualista delle battaglie
territoriali). In primis, abbiamo compreso nell'esperienza di lotta
come il “partire da sè” sia un valore aggiunto e non un limite:
quando un tumulto è vero non parte da un sostrato ideologico ma da
una bisogno concreto e da una spinta desiderativa reale. In seconda
analisi, i movimenti territoriali – in particolare quelli contro
discariche ed inceneritori – non si sono mai fermati alla singola
vertenza ma hanno sempre avuto una spinta generalizzante e
soprattutto hanno sempre avuto la capacità di generare saperi
sociali che hanno permesso di alzare il tiro sparando dritto
all'origine delle questioni.
PER
UN'ANTIMAFIA DI BASE E ANTICAPITALISTA
Proprio
la forza generalizzante dei movimenti ci ha portati a Chiaiano,
insieme alle reti territoriali, a metterci in gioco per avere
protagonismo anche nella riappropriazione popolare e nella
riqualificazione dei terreni confiscati alla camorra proprio di
fronte alla discarica. Abbiamo rivendicato la gestione di quei
terreni, connettendoci pure ad esperienze di anticamorra di base.
Abbiamo ragionato sul fatto che il Movimento anti-discarica di
Chiaiano sia stato un movimento immediatamente anti-mafia, dati gli
interessi contro cui ha combattuto e nonostante le mistificazioni di
media e di alcuni magistrati che hanno provato, senza alcun
fondamento, ad identificare le donne e gli uomini in lotta come amici
dei camorristi. La presenza su quei beni confiscati delle comunità
che hanno lottato sul territorio, deve garantire un presidio contro
nuove speculazioni da parte tanto delle criminalità organizzate
quanto delle solite lobbies che sovente determinano le scelte
istituzionali. Inoltre il lavoro con fondo ci permette di sviluppare progetti che vedono coinvolti detenuti ed ex detenuti, maggiorenni e minorenni , che collaborano alla riqualificazione dell'area e partecipano a iniziative di autoformazione sottraendo tempo alla detenzione e consentendoci di sviluppare una prossimita con quella che solitamente è la forza-lavoro sussunta dai capitali criminali.
Del
resto non ci è mai sfuggito che lottare contro la devastazione dei
nostri territori significa essere anti-capitalisti e che essere
anti-capitalisti dalle nostre parti significa porsi criticamente il
problema delle mafie. Proprio per sbugiardare la retorica banale ed
inefficace (perchè falsa) che racconta la camorra come un fenomeno
slegato dai processi di accumulazione capitalista abbiamo preso più
volte parola su questi difficilissimi temi. Abbiamo messo faccia a
faccia la complessità della composizione sociale e di classe
investita dal fenomeno, dimostrando che né il silenzio né il
giustizialismo sono l'antidoto migliore per affrontare un sistema di
potere che si serve in maniera parassitaria delle fasce subalterne
della metropoli, approfittando del ricatto tra disoccupazione e
sfruttamento a cui le giovani generazioni sono sottoposte. E' il
modello TINA (There is no alternative), un modello che declina il
neoliberismo nella crisi, che racconta al meglio il paradigma
culturale e politico che regge la forza dei grandi clan.
Con
la parola camorra ci sentiamo di sintetizzare la modalità di
applicazione di un modello di sviluppo, che declina il sistema
capitalista su un determinato territorio, quello campano. Un modello
concreto di cui troppo spesso si conosce solo un volto, quello che è
abituato a sussumere le attività illegali ed informali. L'altra
faccia, quella meno nota alle cronache, è quella “produttiva”,
che da una parte investe nell'edilizia, nell'industria e nella
distribuzione, nel terziario e finanche nella finanza, mentre
dall'altra produce classe dirigente, vere e proprie governance che
negli anni hanno destituito gli apparati statali,
imponendo la tempistica e la protervia tipica del governo
dell'eccezione. Questa è a nostro avviso una delle ragioni politiche
per le quali la Campania era evidentemente il teatro migliore per
mettere in scena vent'anni di gestione emergenziale sul tema dei
rifiuti, dopo il precedente commissariamento sul terremoto. Una
storia fatta di shock costanti ed economicamente
vantaggiosissimi, per quegli attori , quasi sempre gli stessi, che
hanno “gestito” e “governato” lo spazio delle
emergenze.
Questi sono alcuni dei presupposti per i quali
leggiamo da sempre la questione rifiuti non come un'anomalia, un
falla del sistema.
La camorra di fatti, nella migliore
rappresentazione della figura mediatrice tra economia e politica, ha
offerto alle imprese italiane e a tante imprese europee, la
possibilità di smaltire i propri scarti industriali a un costo quasi
nullo se paragonato a quello dello smaltimento legale. Il fenomeno ha
avuto proporzioni talmente grandi ed ha coinvolto un numero di
imprese così vasto da non rendere sostenibile la teoria della
perimetrazione netta tra legalità ed illegalità, tra criminalità
ed attività produttive.
Le vicende dello smaltimento dei
rifiuti in Campania è una delle storie del capitalismo italiano e
siamo convinti che non sia un caso che il main stream abbia
cominciato a prestare attenzione ad esse proprio quando la piccola e
media impresa vivono una crisi dai tratti irreversibili.
L'Italia ha d'altra parte una storia longeva, fatta di cinismo e brama di profitto, senza cura dei costi ambientali e sociali.
DA
NAPOLI NORD A MEZZOCANNONE OCCUPATO: RICONQUISTA DEI TERRITORI E
DIRITTO ALLA CITTÀ
In
questi stessi anni, oltre a radicarci in periferia e ad ibridarci coi
movimenti territoriali, abbiamo tessuto nuovi rapporti pure con le
soggettività che quotidianamente abitano il centro della città. Si
tratta di studenti, precari dell'università, della cultura, di
settori avanzati del terziario.
Questa
ulteriore contaminazione ha permesso alla nostra collettività di
allargarsi e soprattutto di generare nuovi progetti politici, nuove
occupazioni, nuove battaglie. Nel giro di un anno, ovvero dal
novembre 2011 al novembre 2012, tutti insieme abbiamo compiuto altre
tre occupazioni.
La prima è stata il D.A.d.A. , il Dipartimento
Autogestito dell'Alternativa, ovvero una sperimentazione di
università autonoma a partire dalla riappropriazione di uno spazio
abbandonato proprio nella centrale di uno dei più grandi atenei del
mediterraneo, la Federico II. Con questo esperimento abbiamo iniziato
pure a declinare, tramite percorsi di autoformazione e di ricerca
indipendente, un'elaborazione intorno al rapporto tra saperi e
territori, alla possibilità di valorizzare il general intellect
prodotto tra le donne e gli uomini coinvolti nei movimenti in difesa
di beni comuni, alla critica verso la pretesa di oggettività delle
scienze mediche e tecnologiche, alla costruzione di una storia
dell'ambientalismo popolare.
Un anno dopo per l'appunto, dopo le
giornate di contestazione al Governo_Monti, abbiamo costruito la
campagna NapoliChoosySide che ha portato alla riappropriazione
di Mezzocannone12Occupato e di quello che abbiamo rinominato
Auditorium “Carla e Valerio Verbano” nell'adiacente civico 14. Si
tratta di stabili universitari abbandonati da anni. Queste ultime
occupazioni hanno coinvolto altre e altri giovani “neet”,
soggettività provenienti dalla precarietà diffusa, artiste ed
artisti della scena culturale underground di Napoli. Anche in questo
caso la contaminazione è stata reciproca. Il ragionamento sulle
periferie e quello contro la devastazione ambientale si sono
intrecciati in questo caso con una spinta alla riqualificazione
culturale dal basso per il centro della città e alla creazione di
ambiti per invogliare una produzione immateriale che sia indipendente
dal modello di sviluppo dominante. Il frutto di questa interazione è
stato l'apertura di un dibattito e la diffusione di pratiche,
entrambe intorno al tema del “diritto alla città”. Diritto alla
città, per noi tutt* non è qualcosa da tradurre in normativa ma
qualcosa da agire direttamente. È in primis la rivendicazione della
decisione sulle sorti della città e della sua area metropolitana: da
un lato reclamare con mobilitazioni che invadono le strade e con la
costruzione di presidi permanenti, dall'altro assaltando la proprietà
parassitaria pubblica e privata per la riappropriazione di spazi
nonché di mezzi di produzione. La direzione diventa quindi quella di
una coalizione sociale tra diverse soggettività metropolitane e tra
diverse comunità territoriali per la costruzione di un modello di
sviluppo alternativo e di una idea di città, rispetto a quelli che
stanno fallendo davanti agli occhi di tutti, in termini economici ma
anche di impatto sociale ed ambientale, con la devastazione tanto
della biosfera quanto del tessuto relazionale di interi territori.
Il
BIOCIDIO: UNA CRITICA COMPLESSIVA, UN PROBLEMA EUROPEO
Premessi
tutti i ragionamenti basilari indicati fino ad ora, ci troviamo oggi
nella situazione in cui le lotte territoriali di migliaia di donne
di uomini, da Acerra a Chaiano passando per Terzigno e Giugliano, tra
i meriti che le contraddistinguono stanno esprimendo in maniera
potente quello di catalizzare il dibattito pubblico, oltre che sul
tema dei siti e delle modalità di smaltimento, anche su quello
contiguo dei traffici di rifiuti industriali e tossici. Il ponte tra
le due tematiche è stato ovviamente costruito in virtù della logica
e del meccanismo comuni che stanno alle fondamenta di entrambi i
fenomeni. Contestualmente tutto ciò si è rapidamente connesso con
altre insorgenze di e per i territori, seppur non basati sulla
questione dei rifiuti: tutte le mobilitazioni contro le grandi opere,
quelle contro le speculazioni dopo le calamità naturali, quelle che
lottano per le bonifiche di aree industriali dismesse.
Da queste connessioni è nato il termine “biocidio”, l'uccisione di ogni forma di vita nel senso biologico e sociale, la sintesi di uno scenario apocalittico, ma anche la strada verso la riscossa. Il “biocidio” o esiste e lo si affronta nel complesso delle sue contraddizioni, oppure si nega, assecondando l'assurda epidemia che sta colpendo le nostre terre. Affrontarlo significa essere all'altezza del moto di indignazione che sta pervadendo la città e la provincia, significa non avere paura del meticciato culturale che si produce nelle assemblee e nella discussioni pubbliche, ma neppure assecondare marce di indignazione senza prospettiva. Affrontarlo significa inoltre capire che in gioco c'è il diritto a restare, il diritto a scegliere dove vivere la vita senza che lo scenario di una strage tolga la speranza. Significa capire che la complicità tra il peggioramento delle condizioni materiali e l'incremento della disoccupazione, unite con la possibilità concreta di ammalarsi, sta privando le nostre terre di migliaia di giovani e giovanissimi.
Ecco perché ci premeva prendere parola a partire da una parzialità per ricostruire soggettivamente alcuni dei passaggi analitici e politici che hanno prodotto la costruzione del 16 Novembre.
La grande scommessa di questa data è, dal nostro punto di vista, quella di riuscire ad inserite la rabbia verso la devastazione ambientale, tematica certamente generale e paradigmatica di un modello di sviluppo sbagliato, dentro un orizzonte di indignazione più complessivo.
È inoltre necessario che l'universo complesso ed eterogeneo delle lotte europee in difesa della salute e dell'ambiente, a partire proprio dai costi sociali che la stessa devastazione ambientale porta con sé, si connettano alle mobilitazioni che rivendicano reddito, welfare, diritti. Una prospettiva materialista non può che fuggire una perimetrazione asfittica ed “ambientalista” di quello che è accaduto in Campania. Il termine “biocidio” e la corretta definizione dello stesso a partire dalla differenza qualitativa che passa tra bios e zoé serve proprio a spingere in questa direzione. Ecco perché ci siamo posti immediatamente,, il problema della connessione delle lotte contro il “biocidio” con il piano europeo. Ecco perchè saremo a Francoforte dal 22 al 24 Novembre per lavorare ad una assunzione produttiva di questo termine e soprattutto del portato decennale di lotte territoriali, al fine di contribuire alla costruzione di quello che consideriamo il vero terreno rivoluzionario contemporaneo: quello che mira alla costruzione di un'Europa dei conflitti.
Fa gioco in maniera ancora più efficace la cartografia che si scriverà il 16 novembre in Italia. Quattro grandi appuntamenti, su quattro temi concatenati: il biociodo campano, la difesa di un'esperienza virtuosissima di occupazione ed autogestione a Pisa , la mobilitazione contro uno dei vergognosi centri di tortura e detenzione per i migranti a Gradisca ed il corteo che attraverserà la Valle per dire ancora una volta no alla Tav. Questa composizione meticcia e moltitudinaria che si mobiliterà in maniera diffusa per i commons e per la democrazia dimostrerà che ognuna di quelle piazze ha parlato e conosce le altre e con esse è complice e solidale, è quella che deve permetterci un salto di qualità politico, che fuori da ogni passione estetica e da ogni postura evenemenziale, fa tesoro delle storie singolari longeve dei singoli territori e, producendo linguaggio ed immaginario comune, getta nuovamente i beni comuni sul terreno della conflittualità, ri-afferma l'impossibilità di negoziazione della liberà di tutte e tutti le donne e gli uomini, e cammina verso una prospettiva di cambiamento radicale. Per noi l'obiettivo che deve darsi questo movimento deve essere quello di creare dei poli di presidio fisico e permanente, riprendendo sia l'esperienza delle lotte territoriali avute in Campania sia quelle che ci arrivano dal piano internazionale, una fra tutte quella di Gezi Park e Piazza Taksim ad Istanbul. Per questo riteniamo che sia molto importante che, alla fine del corteo del #16Nov. si inizi almeno simbolicamente ad evocare un'accampata per comunicare l'immaginario di permanenza che caratterizza questa insorgenza.
La comunità ribelle di Lab. Occ. Insurgencia e MezzocannoneOccupato