Sull'aggressione avvenuta a Napoli.

Analisi (grammaticale) di un'aggressione omofoba

di Nina Ferrante*

29 / 8 / 2009

Frocio: nome comune di persona da pestare. La stagione della caccia al frocio si è aperta anche quest'anno col primo caldo, col pestaggio brutale di una ragazza a Piazza Bellini, e a Napoli, come in tutta Italia, i vari episodi si sono susseguiti fino a quello degli ultimi giorni al Gay Village. Poi ancora Napoli. Il branco di giovanissimi, spossati dal caldo di una noiosa notte di fine estate, aprono la battuta di caccia alla diversità, una qualunque. Poteva essere il colore della pelle, ma anche i capelli strani, va bene tutto, una diversità vale l'altra. Una coppia che parla inglese: perfetto. “Qui si parla solo la nostra lingua” e giù di botte. Quando Hayk viene colpito comincia a piangere: “frocio”. Frocio significa debole, di chi cade e piange sotto i colpi, maschio di serie “B”. Insomma da eliminare. Frocio non è l'ostentazione inguardabile e disgustosa tra due persone dello stesso sesso, il gay e la lesbica sono da pestare perchè... perchè no? Esiste qualcuno che ne parli bene in TV? Perfino i preti e le suore che stanno sempre con gli ultimi degli ultimi non li possono soffrire. Non esiste una legge, un riconoscimento, che sia dalla loro parte, né il Papa, un ministro o un semplice sindaco. Pestare un frocio si può fare. Figurarsi a Napoli, dove gli impuntiti episodi degli ultimi mesi dimostrano proprio che tutto è ammissibile. È seguendo questo filo che l'aggressione, quella sì, meriterebbe un nome proprio: omofoba. Anche questa volta, però, gli aggrediti si sono affrettati a smentire la propria omosessualità. La dinamica dell'aggressione, l'inseguimento, le catene, il contesto degli ultimi mesi, sembrano escludere l'estemporaneità dell'atto ponendo dinnanzi al quesito di chi, di quale idea, quale movente ci sia dietro questi episodi. Altrettanto difficile è la definizione di chi la violenza l'ha agita, di questi venti giovanissimi; non un bomberino, una testa rasata, una svastichella o un innetto al duce che permettano di appellare queste belve con il nome che meritano per i loro atti: fascisti. Allora tocca ricorrere ad un nome sin troppo comune: branco. Così l'aggressione non può essere definita omofoba , e gli aggressori non possono essere definiti fascisti: di cosa parlano allora le militanti? Il più generale sentimento di disagio sociale, fatto da crisi, disooccupazione, l'inadeguatezza di servizi pubblici come la scuola e l'assenza di servizi sociali, sono il brodo di cultura dell'imbarbarimento delle relazioni sociali. Gli stessi responsabili del disagio, e dunque di questa crisi, spaventati dalla direzione che può prendere l'inevitabile rabbia sociale, creano le linee di frattura con cui dividere il blocco unico degli oppressi, proponendo anche dei veri e propri punch ball contro cui scaricare l'odio. È la stessa paura degli esiti di tanta rabbia sociale, che impone di diffondere all'interno della società un sentimento d'insicurezza tale da indurre e legittimare la delega e la professionalizzazion-e della violenza. Ecco le città addobbate dall'esercito e illuminate dalle sirene. È evidente che esiste una questione sicurezza, e questa riguarda proprio coloro che sono i soggetti più bersagliati proprio dalle politiche securitarie e dai sentimenti omofobi, razzisiti e fascisti di questa italietta. Da un lato le organizzazioni istituzionali, sempre attente a normalizzare gli istinti più radicali dei soggetti che pretenderebbero di rappresentare, si sono poste sulla stessa lunghezza d'onda dei Governi, chiedendo un ulteriore militarizzazione delle città e l'inasprimento del controllo sociale, cercando un dialogo anche con gli ambienti più retrivi della nostra società, come i sindaci (Alemnanno) che non autorizzano le manifestazioni LGBTIQ e non si risparmiano dichiarazioni omofobe, come quelle che richiamano al contegno di questi soggetti della stessa Iervolino, che oggi cade dal pero.

Dall'altro lato, opposto, i residui del movimento che pongono al centro la questione dell'Autodifesa. Nome non affatto comune di tattica da declinare (ovviamnete al femminile!). Il sentimento è quello della rabbia, intensa, contro le continue vessazioni; violenza da canalizzare, ma non delegabile, di cui gay lesbiche trans e donne non vogliono più essere oggetto, ma soggetto. Autodifesa, per quanto sia una parola difficile da nominare nella città teatro di questi ultimi episodi rappresenta,anche se apparentemente impraticabile, la parola d'ordine di chi comunque vuole porre una sponda al senso comune che si sposta sempre più a destra e ancora una volta di più ogni volta che a seguito di un'aggressione si chiede più polizia.

Il tutto in una città dove la sicurezza ha un costo, si vende e si compra dalle famiglie che in ogni quartiere hanno un nome proprio, anzi un cognome.

* militante Sinistra Critica / Collettivo Degeneri