A Treviso va in scena la "guerra differenziale ai poveri"

Riflessioni sui fatti di venerdì 17 luglio

19 / 7 / 2015

Quanto accaduto venerdì scorso a Treviso segna un cambio di passo nella gestione delle mobilitazioni sociali in questo Paese. Non lo dico con retorica, ma con sano empirismo militante visto che, a mia memoria, non ricordo in Italia azioni simboliche finite con 37 fermi e la richiesta d’arresto per 5 persone. C’è quindi un dato minimo di lettura della giornata, che precede tutte le riflessioni politiche, ma che ne è allo stesso tempo propedeutico. La negazione violenta ed autoritaria della libertà di poter manifestare, in particolare nei termini in cui si è verificata ieri, scomoda in maniera inquietante il tema dei diritti civili. Manifestanti malmenati ed arrestati per antirazzismo ricordano scene usuali nell’Alabama degli anni ’50 o nel Sudafrica pre-mandeliano. Addirittura il prefetto Augusta Marrosu ed il questore Tommaso Cacciapaglia dimostrano di avere una concezione pre-illuministica del diritto e dell’autorità pubblica, basata sul concetto di arbitrarietà.

Capisco che aver palesato in forma politica e pubblica tutte le contraddizioni e i nodi scoperti del sistema regionale dell’accoglienza ha particolarmente innervosito Prefetto e Questore, ma è’ evidente che questi soggetti non possano rimanere ai propri posti. Mi aspetto che questo sia un pensiero che accomuni tutte le realtà politiche e sociali e tutte le persone che abbiano la Rivoluzione francese come base storica minima, morale e culturale, del proprio agire e pensare. Sono certo che lo stesso sindaco di Treviso Manildo sia tra queste persone. Ricapitolando: libertà incondizionata per le 5 persone per le quali è stata fatta la richiesta d’arresto e dimissioni per Prefetto e Questore. La notizia del respingimento da parte del pm delle misure cautelari richieste dalla Questura carica di valore istituzionale questa richiesta.

Ci sono altre questioni che i fatti di Treviso mettono in luce in maniera piuttosto chiara. Innanzitutto gli attivisti fermati stavano facendo un’azione simbolica davanti alla Prefettura di Treviso per denunciare una gestione sbagliata e pretestuosa di tutta la “questione profughi”. Ghettizzare queste persone in quartieri periferici o in casermoni poso ospitali, lasciarli per due giorni negli autobus di fronte alla stazione cittadine,  non sono solamente atti di incapacità o incuria, ma chiare scelte politiche.

La governance dell’emergenza è uno dei più raffinati modi attraverso i quali il biopotere manipola, condiziona ed indirizza le nostre vite. Il Veneto accoglie solamente il 4% dei migranti ospitati in strutture temporanee su tutto il territorio nazionale (fonte: Ministero dell’Interno, dato relativo a febbraio 2015). Eppure le politiche e le esternazioni di Zaia, sostenute e rinvigorite da alcune Prefetti e Questori, sono tutte orientate nel costruire ad hoc uno stato d’emergenza artificiale, nell’alimentare scientificamente la retorica dell’invasione. Principio, quest’ultimo, che è alla base dell’ideologia e della strategia politica del fascio-leghismo salviniano.

C’è però un nesso tra la governance dell’emergenza, applicata alla questione dei profughi ed in generale alle migrazioni, ed un piano economico, sociale e politico complessivo. Un nesso che esce dalle porte delle prefetture, delle questure, dei consigli comunale o regionali e va dritto al cuore della governance europea. Senza scomodare Piketty, è innegabile che il new deal neoliberale affermatosi dentro la crisi sistemica ha come elementi fondanti la redistribuzione verso l’alto della ricchezza e dei patrimoni e la rinegoziazione verso il basso dei diritti e delle libertà, individuali e collettive. Quella “lotta alla povertà ed alla miseria”, che sarebbe dovuto essere il presupposto etico della politica per uscire dalla crisi sistemica, si è trasformata in “guerra ai poveri”, come la definiscono in tanti. Se è vero che si tratta di un’espressione semplificatrice, che sottintende una sorta di strategia malthusiana da parte delle élites, è vero anche che può assumere un significato più complesso nel momento in cui le viene aggiunto il termine “differenziale”. L’espressione diventa così “guerra differenziale ai poveri”, che consiste principalmente nel rompere dall’alto quell’unità delle masse di poveri ed impoveriti che la crisi ha generato. Le tensioni tra autoctoni e migranti che stanno emergendo con forza in tutta Europa si collocano all’interno di questa “guerra differenziale ai poveri” come motori di scomposizione della subalternità sociale ed economica.

Niente di nuovo, dal punto di vista delle strategie del potere costituito. “Divide et impera” era uno slogan coniato già in età classica e, nel corso del tempo, ha saputo rigenerarsi e rideterminarsi storicamente. Basti pensare alla divisione tra mezzadri e braccianti, che rompono l’unità contadina nell’Europa post-feudale, all’ormai abusata espressione marxiana di “esercito di riserva”, alla separazione tra garantiti e non garantiti che ha segnato il mondo del lavoro negli ultimi 30 anni. Il “divide et impera” dei giorni nostri sta assumendo sempre più le sembianze di una vera e propria “guerra tra poveri”, drammatica, cruda, pericolosa. Da “gli immigrati ci rubano il lavoro” si è passati “usiamo i 35 euro al giorno dati ai rifugiati per gli italiani in difficoltà”; da “prima gli italiani” siamo ormai giunti a “solo gli italiani”. Il problema è che non si tratta ormai solamente di slogan populistici utilizzati dalla destra e dall’estrema destra, ma di espressioni che stanno diventando parte di un lessico comune, che spesso non ha niente a che vedere con il razzismo tradizionalmente inteso.

E’ quasi una conseguenza naturale che in questo quadro crescano di consenso formazioni di estrema destra, fino a poco tempo fa relegate ad una totale marginalità politica e mediatica, quantomeno laddove siano capaci di strumentalizzare il malcontento popolare determinato dalla presenza concentrata di profughi e rifugiati. E’ il caso di Forza Nuova a Quinto di Treviso, che ha provato a mettersi alla testa del pogrom di alcuni giorni fa, e di Casapound a Casale San Nicola, periferia di Roma, che ha tentato di bloccare un autobus con 19 migranti diretti ad una ex scuola adibita a centro d’accoglienza. A ben intendere si tratta di episodi molto differenti tra loro, e non solo perché fanno riferimento a due territori difficilmente comparabili. Nel caso di Quinto la dimensione popolare e spontanea della “rivolta” è reale, frutto di un territorio compromesso da 20 anni di gentilinismo (che ha basato la propria retorica nemica sul legame straniero-nemico), ma anche della scelta errata, sebbene politicamente consapevole e voluta, da parte della Prefettura di ghettizzare in periferia decine di profughi, come accennavo prima. In questi termini la presenza di Forza Nuova rappresenta un aggravante, più che una determinante. Nel caso di Roma si è trattato di un fatto direttamente riconducibile a Casapound, che ha chiamato a raccolta altri pezzi di estrema destra, tra cui gli irriducibili di Militia. Poco importa se i soggetti protagonisti della “rivolta anti-immigrati” siano legati mani e piedi a tanti personaggi indagati per mafia-capitale proprio per il “business dell’accoglienza”. Al di là delle differenze tra i casi citati, il problema vero è che questi atti scellerati stanno acquisendo consenso, rischiano di innescare meccanismi di riproducibilità, di far emergere con forza quel “lato oscuro della moltitudine” che si autorganizza per bloccare qualsiasi forma di accoglienza.

Non possiamo inoltre fare a meno di leggere il fenomeno in una dimensione europea. Gli ultimi episodi avvenuti in Ungheria, dove alcuni giorni fa sono iniziate le costruzioni per l’edificazione di un muro metallico al confine con la Serbia, ma anche i continui respingimenti operati dal governo francese ed austriaco al confine con l’Italia ci indicano che sulla questione delle migrazioni si giocherà una battaglia politica fondamentale, che può ridefinire in toto l’idea stessa di Europa.

Per questa ragione l’accoglienza da sola non basta, soprattutto se intesa in termini caritatevoli e se gestita nel modo in cui stiamo vedendo, se non si unisce ad una lotta campale per l’affermazione di una nuova cittadinanza europea aperta a tutti e tutte. Cittadinanza che passa da un lato dalla redistribuzione della ricchezza, dall’altro dall’affermazione delle pratiche di mutualismo come nuove istituzionalità del comune. La governance neoliberale post-crisi si combatte innanzitutto sovvertendo la “guerra differenziale ai poveri”. Si chiama lotta di classe, se qualcuno se ne fosse dimenticato.