I lampedusani di ieri e quelli di oggi
Imparate da loro, viene da dire ascoltando le dichiarazioni ufficiali,
del governo come dell’opposizione, e mettendole a confronto con le
parole semplici e dirette dei lampedusani. Provate vergogna, voi che
avreste il potere di decidere diversamente, e imparate da questi
siciliani che non stanno scegliendo la strada più facile, che stanno,
loro sì, vivendo dentro la storia di un mondo in cambiamento.
Nel 2004 ero a Lampedusa per filmare e raccontare le prime deportazioni di migliaia di migranti verso la Libia, caricati a forza su Cargo C-130 e poi scaraventati verso la tortura e la morte nel deserto, a seguito degli accordi bipartisan che i governi italiani degli ultimi dieci anni avevano costruito con il Colonnello Gheddafi.
Allora eravamo solo in pochissimi, arrivati sull’isola
da Palermo, a sentirci indignati da quelle manette di plastica che
imprigionavano anche minori trascinati via dalle guardie in borghese,
dai carabinieri e dagli operatori della Misericordia di fronte alla
faccia di un Borghezio che sembrava ingrassare per ogni essere umano
caricato a forza sui quei mezzi militari.
Allora il rapporto con Lampedusa e con i lampedusani fu difficile,
quegli abitanti sembravano tutti ancora ipnotizzati dalle parole di una
signora Maraventano (che credo ai tempi gestisse una pizzeria) che col
suo fazzolettino verde della Lega Nord aveva appena cominciato a
costruire la propria fortuna politica.
Oggi, invece, a distanza di alcuni anni, ascolto le voci
degli abitanti di quest’isola e penso che hanno capito, che adesso
sanno con chi prendersela e perché, e li stimo profondamente. Guardo le
loro immagini mentre distribuiscono vestiti e cibo, mentre spiegano ai
microfoni che "Lampedusa ha il cuore grande come questo cielo, ma non ce
la facciamo più". Non ce la fanno più ma continuano a parlare, a
rivendicare di fronte a questo governo il diritto alla dignità e alla
libertà di loro stessi e di queste altre migliaia di persone arrivate
dal mare, con cui adesso condividono una battaglia comune. Consapevoli,
così finalmente consapevoli di quanto siano stati e vengano ancora
usati. Indisponibili, adesso più che mai, a lasciarsi strumentalizzare
ancora, pur nello scoramento di questa situazione impossibile in cui
Maroni & co hanno deliberatamente deciso di rinchiuderli.
All’altezza della Storia con la S maiuscola, dei giganti rispetto a chi
li governa, a livello locale e nazionale, persino orgogliosi davanti
all’incredibile vicenda del primo bimbo, etiope-eritreo, nato su quel
loro territorio in cui le donne lampedusane non partoriscono, perché
manca un ospedale.
E davanti a tutto questo la domanda retorica che si pone in ognuno di
questi drammatici ultimi giorni è sempre la stessa: come si può
giustificare una simile gestione delle cose?
La risposta, in effetti, non può che essere una soltanto: non la si può
né si deve giustificare, ma condannare senza mezzi termini, perché è
conseguenza di una decisione politica ben precisa, giocata con
un’efferatezza repellente sulla pelle di ogni singola persona si trovi
adesso a Lampedusa.
1998 – 2011 - L’evoluzione delle politiche italiane attraverso la creazione e lo “spettacolo” dell’isola-frontiera
Nel nostro pianeta martoriato da conflitti e catastrofi ambientali ci
sono circa 75 milioni tra profughi e sfollati. I 3/4 sono accolti dai
paesi del Sud del mondo. È a fronte di queste cifre che bisogna
riflettere davanti al fatto che l’Italia si dichiari, in queste ultime
settimane, messa in ginocchio davanti ad alcune migliaia di persone
arrivate dal Maghreb. Ma i numeri vengono percepiti in maniera molto
diversa, ovviamente, a seconda del contesto e del modo in cui esso viene
costruito e narrato: se 10, 20, 50.000 profughi sul territorio italiano
potrebbero venire rapidamente accolti senza traumi di sorta,
dimostrando per una volta umanità e coerenza di fronte agli avvenimenti
del mondo, appena 5000 arrivati a Lampedusa, o rinchiusi dietro il filo
spinato del residence degli Aranci di Mineo, diventano invece
un’enormità, un’emergenza insostenibile.
È questo che i lampedusani stanno denunciando, è questo che i Sindaci siciliani provano a dire quando dichiarano di essere disponibili ad accogliere i profughi nei loro Comuni, ma di essere contrari al concentramento di queste persone in centri di confinamento che diventano ghetti di extraterritorialità, e pericolosa esclusione giuridica e sociale.
Ma il governo continua a ordinare il “recupero” dei
barconi in mare e il loro accompagnamento a Lampedusa, invece che in
altre parti del Sud Italia. E continua a trasferire i migranti in centri
di detenzione o zone di concentramento dallo statuto ambiguo.
Per comprendere le cause profonde di tutto questo, in fondo, basta però
analizzare la storia recente dei mutamenti italiani in materia di
immigrazione e asilo: la strategia della creazione dell’emergenza per
riformare in senso restrittivo e permanente norme e comportamenti
istituzionali ricorda tanto i meccanismi della Schock economy così bene illustrati da Naomi Klein in un libro di ormai qualche anno fa.
Riflettiamo un momento, ad esempio, su come da Lampedusa
abbiano preso avvio tutti i peggiori cambiamenti delle politiche e
delle prassi italiane di gestione delle migrazioni.
Fin dal 1998, innanzitutto, il Cpt aperto sull’isola è diventato il
luogo emblematico delle funzioni e dei principi su cui si fonda lo
stesso istituto della detenzione amministrativa. In nessun altro luogo
d’Italia la fusione tra “emergenza, accoglienza e detenzione” è stata
consacrata in modo tanto perentorio e retorico. Lampedusa è stata scelta
fin dal varo della legge Turco-Napolitano come il palcoscenico ideale
dal quale guardare allo spettacolo dell’accoglienza , da farsi
ovviamente dietro il filo spinato, e dell’emergenza, sempre la stessa
nonostante si tratti di fenomeni decennali con le stesse caratteristiche
strutturali. Sfruttando queste retoriche, e a partire dalle
sperimentazioni di confinamento attuate sull’isola, si sono affinati
dispositivi di gestione e controllo della mobilità tra i più spietati e
ipocriti, risposte demagogiche fornite a domande emotive costruite ad
hoc.
Attraverso la costruzione e la spettacolarizzazione di questa frontiera
si è riusciti, negli anni, a promuovere anche i peggiori accordi
bilaterali con quegli stessi dittatori assassini di cui oggi si inneggia
alla caduta, primo tra tutti, ovviamente, Gheddafi. Ho già accennato
alle deportazioni del 2004 verso la Libia. Definite allora, come
“respingimenti alla frontiera”, erano le prime prove generali, fatte a
partire dalla momentanea trasformazione di Lampedusa in zona del tutto
extraterritoriale, di quei respingimenti in mare avviati nel 2009 in
violazione al principio di non refoulement che
proibisce di rimandare le persone in luoghi dove possano subire
trattamenti inumani e degradanti. Quelle deportazioni furono precedute
da un incremento del numero di profughi salpati dalla Libia e arrivati a
Lampedusa che fino a quel momento non aveva avuto precedenti. In
realtà, a uno sguardo più attento, è facile accorgersi come, prima di
ogni passo formale mosso verso la stipula dell’accordo di Bengasi del
2008, le coste libiche abbiano lasciato partire, negli anni, migliaia di
migranti tutti insieme. A questa sospetta coincidenza è sempre
seguito, inoltre, un improvviso arresto dei trasferimenti dall’isola
verso il resto d’Italia, e un lasciare quindi che si concentrasse a
Lampedusa una quantità di migranti sufficiente, tutte le volte, da
favorire la retorica della paura e l’ansia da invasione su cui buona
parte di questo governo ( e in alcune fasi anche della sua opposizione)
ha costruito la propria fortuna politica
Prima dell’approvazione del pacchetto sicurezza, nel 2009, per continuare con gli esempi, Maroni decise, con un copione simile a quello attuato nel 2004, di sospendere tutti i trasferimenti da Lampedusa e di lasciare che lì si sommassero migliaia di migranti ricreando ad arte l’emergenza. Anche in quel periodo, banale a dirsi, un numero inconsueto di persone aveva raggiunto nuovamente le coste lampedusane provenendo dalla Libia. A seguito di questa strategia politica si ottennero quella volta tre risultati di straordinaria rilevanza: si avviarono le deportazioni dirette e straordinarie verso la Tunisia di Ben Alì, allora considerata un paese tanto democratico e liberale da non concedere praticamente, a priori, alcuna possibilità di chiedere asilo a nessuno che ne fosse cittadino. Si infiammò ulteriormente la discussione sul reato di immigrazione clandestina poi approvato all’interno del pacchetto sicurezza. E, infine, si spianò la strada verso i respingimenti in mare avviati nel maggio del 2009. Quegli stessi respingimenti che oggi vengono tanto rimpianti dal Ministro Maroni, dal suo Governo, da parte dell’opposizione e che nel corso di un anno e mezzo hanno di certo riconsegnato alla sofferenza e alla morte tanti bambini come quello che è invece riuscito a nascere, ieri, su una barca piena di profughi di guerra che ha raggiunto tra tante difficoltà le acque lampedusane.
Variabili impreviste: la forza, l’indisponibilità, il coraggio di dire Welcome.
In questi ultimi tre mesi, certo, le partenze straordinarie dal Maghreb
non sono dipese dalla scelta momentanea di alcun dittatore che,
semplicemente, non ha più avuto il potere di gestirle perché è stato
deposto dal suo stesso popolo. Anche stavolta, però, il governo italiano
sta cercando di strumentalizzare questi arrivi modificando ancora lo
statuto dell’isola di Lampedusa, bloccando per settimane i trasferimenti
e approfittando di tutto questo per cercare di apportare modifiche
strutturali alle politiche dell’immigrazione e dell’asilo in Italia.
Il caos evidente di questa attuale gestione delle cose testimonia però come in questi anni alcuni elementi fondamentali siano mutati e costringono ora Ministri e amministratori vari a fare i conti con forme di resistenza e di opposizione dal basso che li stanno mettendo in grandi e inedite difficoltà.
Le rivolte in Maghreb, in nome della dignità e della libertà, innanzitutto, hanno contribuito come nulla prima d’ora a destrutturare la retorica dei “clandestini-criminali” che ha segnato i migranti arrivati in Italia almeno dalla fine degli anni Novanta. Questi arrivi, in tanti modi “figli” delle rivoluzioni, hanno scardinato le inadeguate distinzioni tra “veri” e “finti” rifugiati, tra “migranti economici” e “profughi umanitari”, tra meritevoli di accoglienza e destinati alla detenzione. La realpolitik italiana che ha permesso di fare patti con i vari Gheddafi e Ben Alì dell’altra sponda del Mediterraneo usando come merce di scambio il corpo vivo dei migranti ha perso gran parte della sua legittimazione. I cittadini stessi di questa Italia stanca, a partire dai lampedusani e dagli abitanti del suo bistrattato Sud, non sembrano più avere tanta voglia di lasciarsi fregare dalle paure indotte e dalle balle mediatiche attraverso cui le loro ansie e la loro rabbia sono state costantemente delocalizzate verso il nemico sbagliato.
Tutto può succedere, allora, in questo momento, e ancora una volta tutto può succedere a partire da Lampedusa, ma solo se la forza e l’indisponibilità di quei 5000 abitanti diventeranno la forza e l’indisponibilità di altri milioni di persone italiane, il 2 aprile e nelle giornate che verranno. La condizione preliminare, ma anche l’opportunità che si apre, è quella di cambiare di segno al corso delle cose, mutando il linguaggio, riempiendo di un significato completamente nuovo il coraggio di dare un “benvenuto” agli eventi che ci stanno già attraversando, e di dire Welcome - mai nome fu più adatto per una campagna politica come quella avviata in questi giorni a Lampedusa - alla storia che si muove fino a raggiungerci e che costringe noi stessi, per fortuna, a nostra volta a cambiare.