Da Bologna

A che punto è la rivoluzione?

Ricomposizione e coalizione

15 / 5 / 2015

“Cominciamo dall'inizio”. Sembrerebbe un invito scontato ma, come Carroll ci ricorda, non lo è. In questi giorni abbiamo visto e sentito tante cose ma difficilmente ci siamo sentiti a nostro agio fra l'esaltazione lirica del “minchia, bordello” e le paturnie domestiche sulla radicalità. Non ci interessa neanche metterci a fare l'elenco della spesa fra quelle pratiche che sono à la mode e quelle che invece sono scadute. È davvero questo il perno del discorso?

Pensiamo di no. E lo diciamo con il timore e la cura di chi, in fondo, crede che ci possa essere ancora spazio per la rivoluzione. Parola scabrosa, pesante, affascinante, abusata. Ma come chiamare altrimenti quel desiderio di radicale cambiamento del presente che ci spinge ogni volta a lottare? Allo stesso tempo, non ci interessa distinguere tra rivoluzionari e riformisti, tattica di discorso troppo spesso usata per delegittimare altri piuttosto che per costruire proposte politiche (e sentirsi un po' più sicuri di sé). Chi scimmiotta la contrapposizione fra bolscevichi e menscevichi farebbe meglio a lavorare sulla propria auto-stima o a leggere la critica di Hegel all'anima bella. Quello che ci preme è mettere al centro del discorso il cuore politico del problema e stimolare una discussione con tutti quei compagni e compagne che non sentono di appartenere né al celodurismo pseudo-insurrezionale né alla sinistra implosa e residuale.

Cominciamo, dunque, dall'inizio ossia da quella che dicevamo essere la nostra aspirazione: il cambiamento radicale del presente. Come sta andando? Maluccio verrebbe da dire. Grande è la confusione sotto al cielo e la situazione è tutt'altro che eccellente. Se di rivoluzione vogliamo parlare, come già abbiamo detto più volte, non possiamo non ammettere che al momento questa è gestita dall'alto. Nei 7 anni di crisi che abbiamo attraversato si è disgregato quell'ordine del mercato mondiale a trazione statunitense che chiamammo Impero. L'Europa, come spazio politico di gestione del capitalismo della crisi, si sostanzia proprio a partire dall'esigenza da parte del potere di ridefinire i propri equilibri. L'austerity e il debito sono i due vettori lungo i quali si sta operando la creazione di uno spazio differenziale (l'Europa, appunto) all'interno del quale operare nuove processi di accumulazione e valorizzazione. Dei movimenti come Occupy poco è rimasto e quello che si è sedimentato non sempre ha preso traiettorie per noi percorribili. L'Italia, poi, vista dall'Europa, rappresenta un'anomalia negativa per l'incapacità di costruire ampi e complessivi conflitti sociali attorno a un diffuso malcontento verso le politiche di austerity a trazione tedesca. Nessuno ci fraintenda, sappiamo benissimo che nonostante tutte le difficoltà ogni giorno tantissime compagne e compagni danno corpo a occupazioni di case, lotte territoriali, picchetti, esperienze di auto-organizzazione e molto altro; dobbiamo però riconoscere con onestà che non siamo riusciti a ribaltare l'ordine del discorso o, se preferite, a fare davvero paura ai padroni.

Tante categorie e pratiche sulle quali avevamo costruito per anni il nostro fare politica non fanno più presa sul reale e poche volte siamo riusciti a delineare i contorni di piani d'attacco; a volte ci siamo consolati con la retorica del “è tutta colpa delle strutture di movimento” che, a ben vedere, ricorda la teoria neoliberista del collo di bottiglia, per cui tolto il tappo allo sviluppo della spontanea iniziativa privata tutto si risolva. A furia di aspettare o decostruirsi rischiamo di rimanere spettatori di un film ormai in seconda serata.

Il primo maggio a Milano ha mostrato chiaramente che sono due le opzioni politiche in campo. Tranchant: o crediamo che siamo alla vigilia di un'insurrezione degli ultimi o riteniamo che l'estrema frammentazione sociale richieda l'innesco di processi di ricomposizione di classe.

Bacchettare i riot di Milano come puro vandalismo è stupido: come non vedere in quelle pratiche il sostanziarsi di un'opzione politica che parte dall'idea che tutto il potere costituente sia nelle mani del capitale e a noi non resti altra possibilità dunque che destituire il presente?

Ci sarebbe tanto da dire rispetto a questa prospettiva ma siamo poco abituati e inclini a giudicare l'operato altrui. La pornografia del gesto, l'onanismo delle prassi, la presunta invisibilità che invece diventa spettacolarizzazione del conflitto, la rinuncia all'assertività: in tutta onestà, non le condividiamo. Non ne vediamo la proficuità politica.

Abbiamo l'impressione di muoverci in un tessuto sociale disgregato all'interno del quale le diverse parzialità del conflitto fanno fatica a parlarsi e a costruire discorsi generali in grado di esprimere un'opzione complessiva di cambiamento. La crisi ha operato come dispositivo di individualizzazione che richiede di essere contrastato sul piano della ricomposizione. Possiamo credere che il popolo mancante sia da creare oppure credere che non ci sia alcun soggetto da inventare, quanto piuttosto la moltitudine delle forme dello sfruttamento (di classe, di genere, di nascita) contemporaneo da dover sovvertire. Da materialisti propendiamo per la seconda opzione e crediamo sia necessario scendere fin nelle viscere delle contraddizioni del presente, per agirle. In che modo? Avviando processi di coalizione fra quei soggetti che già operano all'interno di settori di classe. Perché se non si dà immediatezza del processo rivoluzionario (non riusciamo a scorgere masse che affollano le strade, scusateci) allora tocca ripartire dalle forme attraverso cui si organizzano le parzialità: i sindacati conflittuali, i centri sociali, i movimenti per il diritto all'abitare, per i beni comuni, per la difesa del territorio, ma anche le associazioni che operano nel sociale (non sono forse tutte prove del fatto che è ancora possibile costruire pezzi di auto-organizzazione, di riappropriazione e di altra società?). Perché non valorizzare politicamente tutta la ricchezza di idee, esperienze e proposte che da queste sono prodotte? Perché non riconoscere che una caratteristica del nostro paese è una diffusa e reale possibilità di “sindacalizzazione” (di categoria, di rete, di territorio, sociale, studentesca e via qualificando) e che questa, però, deve fare i conti con la crisi della forma sindacato?

Occorre mettersi in questione fino in fondo, sfidare prima di tutto se stessi, lasciarsi alle spalle un po' del proprio passato; è proprio questa la sfida che ci lancia il nostro presente e non saremmo rivoluzionari se non fossimo abbastanza eretici da raccoglierla. Occorre riconoscere la propria insufficienza e la necessità di parlare con altre/i anche molto diversi da noi. Blockupy ci ha mostrato che alla fine lo sforzo paga. Lo diciamo chiaramente, ogni percorso di ricomposizione fra soggetti organizzati corre un rischio: la rappresentanza, parola senza corpo. Ne rifuggiamo fortemente. Non c'è coalizione che possa funzionare se non si innerva su un tessuto sociale di lotte, rivendicazioni, pratiche e si cimenta sul programma.

Ed è qui che noi possiamo operare, all'incrocio tra Italia ed Europa, per rafforzare quanto già facciamo, per metterlo in comune e in movimento con tanti e tante, per compiere uno scatto in avanti.

Dopo Milano è chiaro, esistono due opzioni politiche al momento ed una di queste punta al potere. Per sottrarlo a chi ogni giorno accumula profitti sulla nostra pelle e ridarlo a chi produce la ricchezza che gli viene sottratta. Dentro e contro. Se il capitale esercita un potere sulle vite allora sono le nostre vite che devono riprendere il potere di auto-determinarsi, coalizzarsi, redistribuire la ricchezza sociale che produciamo e che ci spetta.

Contro il debito, contro l'austerity, contro lo sfruttamento vi è l'ambivalenza del biopotere.

E, sempre per chiarezza, non crediamo esistano già percorsi in grado da soli di operare questa ricomposizione di classe. Esistono alcuni spazi di discussione, forse insufficienti ma certamente utili ad operare un processo di coalizione. È per questi motivi che abbiamo deciso di partecipare al processo di messa in opera della coalizione sociale. Siamo consapevoli e condividiamo i tanti dubbi che potrebbero essere avanzati a riguardo. Crediamo che la spinta al cambiamento non debba attraversare solo i movimenti ma anche quelle associazioni e sindacati che non vogliono lasciare a Renzi il monopolio del discorso, né appiattirsi sull'ennesima riedizione di una sinistra legalitaria, lavorista e nazionalista. Ed è proprio per questo che la scommessa, in questo caso, sta proprio nella nostra capacità di saper veicolare questo cambiamento anche all'esterno delle geografie a cui ci siamo abituati. Ci accontentiamo del nostro orticello o vogliamo invadere la prateria? Per avere la forza dell'uno senza perdere la ricchezza della molteplicità. Per tornare a respirare aria di cambiamento. Per condividere con tante e tanti passioni gioiose e costituenti ovvero creatrici di nuovo mondo.

Il primo maggio di Milano è dunque uno spartiacque fra due opzioni politiche che viaggiano separate. La pantomima dell'insurrezione o la complessa sfida della ricomposizione di classe. Nel mezzo ci siamo noi, compagne e compagni, con i nostri sogni, le nostre difficoltà quotidiane, i desideri di rivoluzione. È tempo di scelte, anche radicali. Tocca mettersi in gioco, fino in fondo, nell'una o altra direzione. Tertium non datur. A chi prenderà la prima strada auguriamo in bocca al lupo. A chi ci affiancherà nella seconda promettiamo che ce la giocheremo fino in fondo, con coraggio e generosità. Faites vos jeux!

TPO e Làbas

Bologna, 15 maggio 2015

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