Una cinquantina di poliziotti da una parte, una trentina di immigrati,
sindacalisti e disobbedienti dall’altra. Ci sono stati attimi di
tensione ieri in viale Fratelli Bandiera, dove ad attendere l’arrivo
degli attivisti e degli algerini sgomberati venerdì dallo stabile dell’ex Croce rossa c’era un cordone di carabinieri e poliziotti in
assetto antisommossa, con vigili e Guardia di Finanza. Uno spiegamento
di forze che per alcuni attimi ha reso difficile anche il passaggio
delle auto sul Put. Gli immigrati con gli attivisti si erano dati
appuntamento nel piazzale antistante la loro ex casa per un’assemblea.
Ma hanno dovuto fermarsi ai piedi del cavalcavia della stazione, in
mezzo alla strada che immette sul Put. «Preferiscono deviare il traffico
che concederci di avvicinarci alla casa», dice Sergio Zulian,
rappresentante dell’Associazione difesa lavoratori, a capo del «corteo»,
che prende in mano il megafono. «Ancora una volta le forze dell’ordine
preferiscono spendere cifre incredibili per questo spiegamento di forze
piuttosto che creare il dialogo - dice - Proteggono il vuoto che c’è in
questa città. Una città in cui ci sono solo 4 posti letto per
l’emergenza e 250 alloggi popolari vuoti. I delinquenti veri non sono
questi immigrati. Gobbo dice arrangiatevi? Non lo dice solo a loro, ma a
chi ha lo sfratto». Il più infervorato fra gli algerini è Cheribet
Abdelkrin, stilista in patria, metalmeccanico in Italia. E’ stato
vittima di un incidente sul lavoro che lo ha reso invalido al 46%.
«Ho sempre pagato le tasse - dice - sono disoccupato da due anni. Cosa
faccio ora? Rubo? Mi dicono di rivolgermi alla Caritas o nelle
parrocchie. Ma io sono musulmano e sono venuto qui per lavorare non per
chiedere la carità». (l.c.) - Tribuna Treviso 13 giugno 2010
Samir: «Treviso ci ha lasciati soli»
Parla uno dei cacciati: operaio, specializzato a Lancenigo, due figli piccoli
«Non ho paura di nulla. Non di dormire fuori, né di avere freddo o
di prendere la pioggia. Mi fa paura l’indifferenza della gente». Samir
Nadjar ha 37 anni, studi di economia alle spalle e un diploma preso a
Lancenigo. Viene da Arzew, in Algeria, dove ha una moglie e due figli,
Ilies e Aymane, dagli occhi azzurri. E’ uno dei 24 immigrati sgomberati
dall’ex Croce Rossa. «Chiedo solo di poter vivere con dignità», dice. Samir, quando sei arrivato in Italia? «Nel 1992, a 19 anni. Ero studente di Economia. Sono partito
dall’Algeria perché nel mio Paese avrei dovuto fare il servizio
militare. Ma erano anni di repressione politica e di terrorismo. Perciò
ho deciso di venire in Europa. Sono arrivato a Roma, dove ho vissuto per
tre anni da clandestino. Ho ottenuto il permesso di soggiorno e alla
fine del 1996 sono venuto a Treviso in cerca di lavoro».
Dove
hai lavorato? «In diverse ditte, come operaio generico. Ma ero
sempre precario. Dopo un po’ ho capito che in Veneto per lavorare bene
ci vuole una specializzazione. Così ho fatto un corso da saldatore a
Lancenigo, uno dei corsi organizzato dagli imprenditori. Il diploma mi è
stato consegnato con una cerimonia ufficiale a palazzo Giacomelli di
Unindustria nel 1998. Ho anche una foto. Eravamo fra i primi a fare i
corsi».
La situazione è poi migliorata? «Ho lavorato
per anni al Bit di Cordignano, poi mi sono trasferito alla Fincantieri a
Marghera, abitando però a Treviso. Quindi sono passato a Porto Viro,
Rovigo, lavorando sempre nel settore dei cantieri navali. E a Rovigo mi
sono trovato molto meglio che a Treviso.
Che cosa non ti piaceva
di Treviso? «E’ una città chiusa, razzista. A Rovigo non hai
la sensazione di dare sempre fastidio».
Però sei tornato a
Treviso, all’ex Croce rossa. «Nel 2008 tramite passaparola. Lo
chiamavamo il “ranch”, come il ranch di Bush, perché era sempre sotto i
riflettori delle televisioni. Mancava l’acqua, c’era solo la luce. Ma
eravamo solidali. Ci dicevamo che ogni problema sarebbe passato. Sono
arrivato lì perchè a Rovigo il lavoro diminuiva. Non riuscivo a
mantenermi. Sono andato a lavorare a Casier, in officina. Ma, come si
dice qui da voi, pochi schei. Non ce la facevo a pagare i 500 euro di
affitto minimo per l’appartamento. In più devo mandare 300 euro al mese a
casa, a mia moglie e ai miei due figli. Hanno tutti e tre gli occhi
azzurri».
Hai raccontato a casa dello sgombero? «No,
no. Alla famiglia non racconto le cose più brutte. Non si fa. Mi
vergogno a tornare in Algeria perché li ora c’è progresso mentre io
tornerei dopo tanti anni con nulla in mano».
Cosa hai provato
vedendo le tue cose gettate fuori dalla finestra? «Non ha avuto
paura. Non ho paura di nulla, nemmeno di dormire fuori. Quello che mi
ha fatto paura è stato che nessuno è venuto a darci una mano».
Dove
hai dormito la scorsa notte? «Alla chiesa Votiva, sui cartoni.
Avevamo paura di bussare alle porte della chiesa perché temevamo di
spaventare».
Cosa mangiate, dove vi lavate? «Mangiamo
scatolette perché non possiamo cucinare. Ci laviamo alla sede della
Caritas in via Venier, dove alcuni ragazzi giovanissimi ci hanno
concesso di fare la doccia. Dobbiamo ringraziarli. Hanno 20 anni».
Come
immagini il tuo futuro? «Non chiedo tanto. Mi basta vivere con
dignità. Sono pronto a lavorare sempre».
Laura Canzian - Tribuna Treviso 13 giugno 2010