La riconversione urbana

La città di Marchionne

da Marghera e dintorni di Rossella Marchini e Antonello Sotgia

Utente: matita
25 / 1 / 2011

1. C’è anche una città dietro il modello Marchionne. Il dispiegarsi della sua teoria sulla fabbrica ha bisogno d’essere fiancheggiata da forme di rendita “altra “. Da tirar fuori, con continue operazioni di alienazione, attraverso il sistematico impossessamento del patrimonio comune. Il “nuovo” orario di lavoro, oltre dell’impossibile fatica, parla del vivere. Chi lavorerà con quei ritmi solo da una condizione per qualche tempo migliore di chi non lavorerà, sopravvivrà ai generali spacchettamenti verso le volute condizioni di precarietà. La città di Marchionne è quella della sopravvivenza e della contrapposizione. Dove sopravvivere illusoriamente affrontarsi l’un l’altro. La fondazione di questa città nuova , che vede nella contrapposizione il suo cemento, pensa al territorio, ancora una volta, come terreno dato. Il territorio in un pianeta che consuma se stesso è ancora considerato come luogo indifferente ad accogliere nuovi scenari. Questo sembra valere per quelli in cui hanno deciso di rinchiudersi. Per quelli che vedono le nostre vite lottare e battersi per ridisegnare l’ambiente sociale e naturale destinato a comprenderle.

2. L’opposizione al ricatto della Fiat lanciata dagli operai della Fiom( e non solo della Fiom) sceglie di misurarsi sulla ricostruzione della vita quotidiana. Un no con cui sfida la subordinazione. Che al tempo stesso offre, a tutti, una nuova possibilità: puntare alla ridefinizione della stessa parola di territorio. Una domanda pesante a cui nessun specialista o portatore di sapere urbanistico può fornire risposta. Definire il territorio, dopo il voto di Mirafiori, vorrà dire partire innanzitutto dalla costruzione di un nuovo paesaggio di riferimento. Dove le buone pratiche che oggi si dispiegano in molti luoghi (dallo stop al consumo del territorio, alla lotta per l’acqua comune,al recupero del patrimonio edilizio inutilizzato) vengano recuperate. Per trasformare la loro singola esemplarità in tante azioni di sabotaggio culturale indirizzate a mettere in discussione quella forma di dominio che, strada dopo strada, città dopo città si è stretta intorno ai nostri corpi, alla nostra vita attraverso l’organizzazione del tempo e del lavoro. Ora che quel tempo di vita si vuole veder consegnare alle imprese per poi trovarselo spiattellato secondo univoche decisioni sui luoghi del lavoro.

3. E’ necessario un nuovo punto di vista che trovi nella definizione del bene comune la capacità di intessere un diversa narrazione del mondo che vorremmo abitare. Dobbiamo riuscire a trovare le parole. Dobbiamo affrancarci dalla lettura simmetrica con cui definiamo il comune. Quando tendiamo a far coincidere il comun con il proprio ecosistema di riferimento. Quando privilegiamo le forme della produzione umana anche di tipo immateriale quali la creatività, i saperi, affetti e relazioni sociali. Possiamo farlo pensando al territorio come sommatoria tra natura e cultura, legato a fenomeni globali e locali, luogo della memoria e prefigurazione del futuro. Guido Viale parlando di riconversione ecologica ci dice, prendendo ad esempio gli impianti di Termini Imerese,che per prima cosa si dovrà ricostruire il contesto. Vuol dire progettare mercato, tecnologia, finanziamenti. Vuol dire curare la formazione, il coinvolgimento dei lavoratori e del tessuto sociale. Pensare e vivere il processo di valorizzazione come spazio comune da salvaguardare da ogni forma di privatizzazione. Sarà possibile a Termini, come altrove, innervando reti sociali capaci di innervare politiche di welfare sul pensiero e sulla conoscenza di tecnologie ecosostenibili. Per ipotizzare un modello economico che, nella proposizione di stili di vita, trovi la propria autonomia rispetto il modello dominante.

4. Ma già ora possiamo fare qualche cosa. Ce lo insegna, insieme a tante altre esperienze, la “casa “di Marghera che ha accolto il nostro meeting. Che da monumento allo spreco il protagonismo sociale ha sottratto al processo speculativo di finanza. Promuovere una richiesta, in ogni territorio in cui fabbriche grandi e piccole sono destinate a scomparire (o sono già scomparse) affinché le singole Amministrazioni sospendano la concessione del cambio di destinazione d’uso per fini residenziali attraverso cui avviene il dispiegarsi della rendita. Un atto, un No collettivo,che potrebbe, anche visivamente rendere tangibile come la legalità rappresentata dalla legislazione urbanistica (per tutti gli accordi di programma) non coincida con la giustizia sociale che vede un bene scomparire. La richiesta di una moratoria ad accompagnare lo stop al consumo di suolo. Due No a indicare un limite. Il territorio come bene sempre disponibile; l’utilizzo del costruito per fini esclusivamente di finanziarizzazione. La difesa della fabbrica. Anche quando non vive. Da inserire in quella strategia che ricerchiamo capace di rendere coevolutivi sistemi urbani e sistemi ambientali. Convincendo e convincendoci che non consumare territorio non vuol dire non costruire. Significa assumere come indicatore della valorizzazione proprio la città come spazio comune. Ad evitare, che come è accaduto per la green economy sia ora il tema del recupero si consegni alla deriva delle operazioni di finanza. 

5. Opporsi alla costruzione di questo scenario territoriale può rendere evidente l’idea di altra società dove lavoratori, precari, senza casa, migranti possano trovare un primo momento nell’opporsi a forme di sfruttamento privato delle risorse. Per ridefinire il proprio abitare e, con questo, il lavoro quale forma di liberazione e connessione con gli altri.
Un lavoro che dovrà partire da una grande censimento territoriale capace di individuare le fabbriche non quali oggetti disseminati nel territorio che come tali vengono considerati nei progetti di finanza, ma quali altrettanti beni comuni che provenendo dai conflitti consentono di unificarle.