28.01 Forum di Napoli – La relazione introduttiva di Alberto Lucarelli

2 / 2 / 2012

A partire dalla fine degli anni ottanta, e ancor più dopo la riforma costituzionale del 2001, la parola decentramento amministrativo è stata progressivamente sostituita da democrazia locale.

Siamo oggi qui riuniti, su invito e proposta del sindaco Luigi de Magistris, per reagire a quanti vogliono trasformare la democrazia locale in un simulacro: in un luogo di miseria e di speranze negate.

Siamo oggi qui riuniti in quanto fiduciosi e consapevoli che proprio dalla democrazia locale, dalla democrazia di prossimità, dalla democrazia partecipativa possa partire un grande progetto di riscatto e di riconquista della dignità negata.

Un progetto che da subito deve essere consapevole di volere e dovere esprimere una netta discontinuità rispetto al passato; di esprimere una volontà rivoluzionaria.

E dico subito: occorre lavorare per un intreccio forte tra democrazia locale e democrazia partecipativa.

I  Comuni devono trovare  su temi di interesse generale, oltre e contro qualsivoglia logica e pratica di localismo, una piattaforma di valori condivisi e di proposte politiche precise da portare avanti, anche attraverso il conflitto e la disobbedienza civile, su scala nazionale e locale.

Occorre lavorare ad un progetto frutto di un intreccio continuo ed intenso con le pratiche sociali ed i movimenti.

Una democrazia locale che trasformi in azione amministrativa indirizzi politici conquistati e determinati dal basso.

Le  linee di azione convergono tutte verso una valorizzazione profonda dei beni comuni declinati intorno alla tutela dei diritti fondamentali e dei diritti di partecipazione, sulla base di una democrazia rinnovata in grado di reagire alla tirannia del binomio autoritario sovranità–proprietà e alla mistificazione della rappresentanza e della delega.

Una democrazia rinnovata che si sviluppa attraverso istanze partecipative che si collocano molto più avanti del sistema dei partiti e della mistificazione  dellasovranità popolare e che proprio per tali motivi ha bisogno di nuove soggettività politiche.

Dal basso, dunque, la necessità di destrutturare un modello autoritario che ha consentito ad intrecci burocratico-finanziari ed alla borghesia mafiosa  di saccheggiare e sfruttare risorse comuni, imponendo una effettiva dittatura economico-finanziaria.

In questo senso va subito chiarito: la questione dei beni comuni non si limita ad energia, acqua, territorio ed aria, ma coinvolge tutte quelle materie materiali ed immateriali connesse al tema del legame sociale e dei diritti fondamentali.

La difesa e soprattutto il governo dei beni comuni implica la riconquista di spazi pubblici e democratici fondati sulla qualità dei rapporti e non sulla quantità dell’accumulo.

Beni comuni sono proprio quegli spazi nei quali si è manifestata negli ultimi anni una miriadi di azioni dal basso, di micro conflitti, di processi aggregativi spontanei e nei quali la proprietà pubblica non è stata garanzia di tutela dei diritti fondamentali, di eguaglianza, di solidarietà, di protezione sociale; anzi, in alcuni casi, ha accelerato e agevolato processi predatori e di contaminazioni pubblico-private.

Dalla lotta in difesa della scuola e dell’università pubblica, del diritto all’abitazione, all’informazione, alla cultura, alla conoscenza, al welfare, alla resistenza contro lo scempio ed il consumo del territorio prodotto dalle grandi opere, contro la privatizzazione di internet, alla salute – , alla difesa della dignità del lavoro in aree come Pomigliano o Mirafiori.

Quando l’art. 4 della Costituzione recita: ogni cittadino ha il dovere……di concorrere al progresso materiale o spirituale della società” è chiaro che il lavoro quale bene comune è la premessa fondativa del diritto delle generazioni future.

Vogliamo oggi, partendo dalle esperienze delle democrazie locali e dei movimenti, tessere le principali tappe di un percorso ambizioso e articolato: la Rete dei Comuni per i Beni Comuni.

Un percorso che deve articolarsi in due modalità di azioni che possono anche muoversi con la stessa tempistica:

1)  esercizio di azioni politico-amministrative locali concrete;

2)  rivendicazioni, resistenza e disobbedienza civile verso atti statali  illegittimi ed incostituzionali.

Comincio ad indicare quelle  azioni che i comuni, sospinti dalle pratiche sociali, potrebbero far partire da domani. Ne indico ovviamente solo alcune a titolo esemplificativo:

1. In primo luogo, in attuazione della volontà referendaria espressa da 27 milioni di italiani lo scorso giugno, i Comuni devono impegnarsi, attraverso un patto federativo, a gestire l’acqua attraverso un modello pubblico partecipato. Come abbiamo fatto a Napoli con ABC (azienda speciale Acqua bene comune).

2. I  comuni devono eliminare dalla tariffa il 7% relativo alla remunerazione del capitale investito. Ovvero uscire dalla logica del profitto e dello sfruttamento affaristico dei beni comuni.

3. Si invitano, pertanto, i Sindaci delle città che organizzano il servizio idrico integrato mediante società per azioni a totale capitale pubblico (Milano, Torino, Palermo, Venezia, ecc.) a siglare un patto da subito  per transitare tutti verso una gestione del servizio per il tramite di aziende speciali, seguendo, ad esempio, l’iter indicato da Napoli.

4. Si invitano i Comuni all’adozione di piani energetici orientati ad un più razionale utilizzo delle risorse, nell’interesse delle generazioni future, costruendo, da subito, un patto tra amministrazioni e cittadini,  per l’adozione di un piano d’azione per l’energia sostenibile.

5. Prevedere che la gestione dei rifiuti debba fondarsi sulla politica delle “R” , piuttosto che su progetti affaristici fondati su discariche ed inceneritori.

6. Prevedere che la tutela dell’aria e la qualità della vita nelle città passino sempre più attraverso la predisposizione di ampie ZTL e con una prospettiva di radicale riforma della mobilità urbana, trasformare progressivamente vie e piazze in giardini, spazi di gioco e incontro: in beni comuni a vocazione sociale.

7. Definire e gestire il territorio bene comune, arrestando il consumo di suolo e fronteggiando qualsivoglia forma di condono edilizio.

8. Lo sviluppo urbanistico deve accettare limiti rigidi all’espansione su suoli agricoli, trovando spazi nella rottamazione degli edifici di bassa qualità, energeticamente inefficienti, riusando le aree già compromesse. Occorre riconquistare lo spirito di appartenenza al proprio territorio.

9. Immaginare reti di distribuzione locale di prodotti biologici per operare una sinergia fra le città e le campagne circostanti. Creare opportunità di eco-lavoro cooperativo per far cessare le forme più intollerabili di precarietà e sfruttamento

10. Creare laboratori permanenti di consultazione dei cittadini dando loro la possibilità di deliberare ed incidere concretamente sulle grandi scelte operanti nelle città; in particolari quelle che attengono al governo ed alla gestione dei beni comuni, sull’esempio del “Laboratorio Napoli”

11. Nella grandi metropoli il governo dei beni comuni non può che passare attraverso un discorso serio sulla Città metropolitana e della democrazia di prossimità, non già quali ulteriori luogo di mera rappresentanza.

12. Le istituzioni comunali, in quanto enti esponenziali delle comunità presenti sul territorio, devono impegnarsi a porre in essere politiche inclusive sul versante della rappresentanza, aprendosi, ad esempio, alla partecipazione dei migranti, ed ai minorenni (penso alla loro partecipazione ai referendum consultivi) ponendo il problema politico della doppia cittadinanza e dello ius soli per tutti. Anche in questo caso si può fare riferimento a quanto deliberato di recente dal Comune di Napoli.

13. In sede locale vanno rafforzati tutti gli strumenti di democrazia diretta: quali i referendum abrogativi, consultivi, propositivi.

14. I Comuni da subito, insieme ai movimenti,  anche utilizzando alcuni strumenti del Trattato di Lisbona devono, da subito, promuovere e costruire  una “Carta Europea dei Beni Comuni”, così come deliberato dal Comune di Napoli, mediante la quale inserire la nozione di bene comune tra i valori fondanti dell’Unione e fronteggiare la dimensione mercantile del diritto comunitario. 

15. Da subito i Comuni, infine, potrebbero modificare i propri statuti (come di recente fatto dal Comune di Napoli) per introdurre  la nozione giuridica di bene comune, non soltanto simbolica, ma capace di influenzare le politiche pubbliche locali.

16. Occorre lavorare per il pieno accesso gratuito alla rete (internet bene comune).

17. Le istituzioni pubbliche della cultura devono agire come reali istituzioni culturali e non come strumenti politici o finanziari. Soltanto in questo modo i loro organi potranno garantire serietà nella valutazione dei progetti e loro credibilità internazionale. In questo senso molto significativa è l’esperienza del Teatro Valle.

Da subito quindi e a merito titolo esemplificativo un complesso di azioni concrete che coniugano insieme beni comuni e nuove forme di democrazia: di prossimità e partecipative perché vicine e accessibili ai cittadini; rivoluzionarie perché radicali nella critica dell’attuale modello economico.

Pratiche fondate su una conversione ecologica ed antropologica della democrazia e dell’economia.

Spostiamoci ora sul piano della lotta, della resistenza, della disobbedienza ad un quadro giuridico-economico (nazionale e non solo) che tende progressivamente a trasformare la democrazia locale in un simulacro: quello che qualcuno ha chiamato l’ipocrisia della democrazia locale.

Da Napoli dunque dovrà uscire una carta da consegnare al Capo dello Stato e al governo nella quale evidenziare tutti gli atti eversivi e incostituzionali che stanno progressivamente rendendo impossibile il funzionamento dei governi locali e soprattutto l’erogazione di servizi sociali tesi al soddisfacimento dei diritti fondamentali.

1. Occorre far presente che l’art. 8 della l. n. 42 del 2009 attuativa del federalismo fiscale, così come congeniata, non consente di finanziare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali, né le funzioni fondamentali dei comuni, in contrasto con gli artt. 117, 118 e 119 Cost.

2. In questo modo il welfare diventa un lusso, regredendo a forme autoritarie e antidemocratiche antecedenti allo Stato sociale.

3. Il federalismo demaniale, così come configurato (dlgs n. 85 del 2010), rappresenta la condizione per uno smembramento mercantile dello spazio pubblico attraverso procedure di alienazione del demanio che nascondono veri e propri processi di privatizzazione e saccheggio dei beni comuni.

4. Va  promossa  una campagna di “disobbedienza” avverso gli artt. 4-5 della legge n. 148/2011, confermati ed inaspriti dal decreto Monti bis sulle liberalizzazioni, che reintroducono processi a tappe forzate  di privatizzazione dei servizi pubblici locali, violando la volontà referendaria e non consentendo gestioni pubbliche partecipate.

5. In particolare, da subito, occorre reagire all’art. 5 che sottende ad una vera e propria svendita di servizi e beni primari (scuole, asili, ospedali) a favore di cemento e quant’altro.

6. Occorre reagire al comma 4 dell’art. 26 del dl del 24 gennaio 2012 che, in contrasto con l’art. 119 Cost, impedisce alle gestioni dirette di ricorrere all’indebitamento per finanziarie spese di investimento, assoggettandole al patto di stabilità interno. Con le norme sul patto di stabilità interno siamo in presenza di regole eversive – di incalzante pretesa dell’equilibrio finanziario – che toccano ed indeboliscono la normatività della Costituzione, introducendo una vera e propria finanziarizzazione dell’economia, del debito e della potestà di spesa che viola la Costituzione e che impedisce politiche economiche locali.

7. I comuni devono reagire ad una simile e strutturale compressione della capacità di spesa delle amministrazioni. La Corte costituzionale può avere gli strumenti per valutare  gli interventi invasivi dello Stato ed il suo potere di controllo sulla finanza pubblica e sull’attività economica pubblica.

8. In questo senso va espletata una forte reazione al progetto di modifica dell’art. 81 Cost che mira sostanzialmente a costituzionalizzare il patto di stabilità interno.

9. Si è resistito alla barbarie giuridica di impedire all’azienda speciale di gestire i servizi di interesse economico generale, quindi anche l’acqua, ma rimane la norma  (art. 26, comma 5 bis del decreto Monti) che sottopone anche le aziende speciali al patto di stabilità interno, negando sostanzialmente la possibilità alle stesse di accedere a risorse per effettuare investimenti.

10. Si chieda allora con forza che gli investimenti per i servizi pubblici fondamentali debbano stare fuori dal patto di stabilità interno e che la cassa deposito e prestiti torni a svolgere un ruolo attivo di finanza pubblica, sottraendola al percorso di sostegno dei processi di privatizzazione.

In sostanza, non è possibile accettare  in un Paese che pretende di definirsi democratico, che  l’art. 26 del Monti bis, rubricato “Promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali” riaffermi di fatto una disciplina abrogata comportando un’indebita restrizione dell’ambito di applicazione del referendum.

Occorre reagire con forza ad un subdolo disegno eversivo di disarmo del diritto pubblico, di saccheggio dei beni comuni e della democrazia partecipativa, concepito ad arte per neutralizzare l’imponente movimento politico e culturale sorto in questi mesi a tutela dei beni comuni.

La Rete dei Comuni per i Beni Comuni è pronta costituire un modello alternativo di democrazia, oltre l’orizzonte attuale, è pronta ad essere la base per ridiscutere i temi della rappresentanza ed introdurre con forza l’esigenza di nuovi soggetti politici, anche andando oltre l’art. 49 della Costituzione che costituisce il fondamento giuridico dei partiti politici.

Occorre però avere la forza, la compattezza , il coraggio di liberarsi o di resistere a tutte quelle leggi che danno al saccheggio il crisma della legalità.

Occorre avere il coraggio, la forza, ma anche l’entusiasmo, di sperimentare pratiche alternative di democrazia, anche attraverso la ricerca di forme organizzative più adeguate allo stato di cose presenti, disincagliandoci dalla “dittatura” della rappresentanza e della delega.

Modelli di coordinamento e di pratica collettiva meno obsoleti rispetto a quelli che stanno facendo naufragio (rectius che sono naufragati).

Mai più forme di leaderismo, di personalismo di autoreferenzialità, ma azioni coordinate da una molteplicità di soggetti, al fine di mettere in connessione diversità culturali, etniche, linguistiche.

Un laboratorio in grado di superare la separatezza, fondato sull’inclusione e sulla contaminazione dei diversi.

Proviamoci! Insieme possiamo riuscirci.

Grazie!