25 Novembre tutti i giorni

Un documento del Collettivo Squeert di Padova dopo le mobilitazioni del 25 e 26 novembre

7 / 12 / 2022

Il 25 novembre a Padova la lotta è stata intersezionale: i motivi per scendere in piazza erano e sono tanti ogni giorno, sono diversi ma intersecati, convergenti.

La violenza patriarcale assume tante forme, esplicite o subdole e sottese, ma di cui comune denominatore è l’oppressione perpetrata su più livelli nei confronti dei corpi che dissentono alla norma maschile, cisgenere, eteronormata, bianca, abile e borghese.

Siamo partite osservando la nostra città, le strade, le case, gli spazi che attraversiamo nel quotidiano come scuole, università, posti di lavoro, ospedali e consultori e abbiamo provato a intrecciare i fili della violenza machista, maschile, prevaricante e censurante che viviamo ogni giorno.

Eventi recenti come la progressiva militarizzazione delle strade, l’aumento delle telecamere o il tanto parlare di decoro urbano celano in realtà il tentativo di razionalizzare e isolare i nostri corpi dissonanti dall’armonia bianca e ricca. La retorica per cui le forze dell’ordine si mostrano vicine alle parti lese, schierandosi dalla parte delle donne e assumendo un linguaggio vittimizzante grazie al quale si ergono “nostri difensori” è ad esempio qualcosa che non abbiamo mai chiesto, ma soprattutto a cui non abbiamo mai creduto. Questa narrazione fantasiosa è definitivamente caduta quando abbiamo vissuto lo sgombero di tre case occupate da studentesse e giovani precarie in via delle Melette, alcune settimane fa. È stata la conferma di come le forze dell'ordine non siano altro che massima espressione di una violenza machista e muscolare, funzionale a mantenere un ordine sociale preciso e sicuramente non intenzionato a trasformare l’esistente in un luogo a misura dei nostri corpi e desideri.

Parlando di spazi e bisogni essenziali, come la casa e le strade che sappiamo ed esperiamo non essere luoghi pensati a misura di donne, persone queer, trans, disabili e razzializzate abbiamo provato ad approfondire la nostra analisi ai luoghi di salute, lavoro e formazione che spesso per noi corrispondono a luoghi di marginalità, isolamento e violenza.

È stato poi necessario, questo 25 novembre e il giorno dopo alla manifestazione di Roma, esprimere la nostra solidarietà e vicinanza alla lotta per la vita delle compagne iraniane e curde.

In generale, il 25 novembre non può essere una scadenza, una giornata isolata. Il 25 novembre è tutti i giorni, perché tutti i giorni subiamo violenze, tutti i giorni un corpo dissidente viene ucciso, stuprato, violentato, molestato, discriminato, isolato, emarginato, escluso. Tutti i giorni lotteremo perché non avere una casa è violenza, il lavoro povero è violenza, la medicina patriarcale è violenza, la militarizzazione delle case è violenza, il sapere e l’educazione patriarcale sono violenza.

Non avere una casa è violenza

Uno dei tasselli fondamentali per un percorso di fuoriuscita dalla violenza è l'emancipazione economica. "Dove vado a vivere?" "Come potrò pagarmi un affitto con questi prezzi?" Sono domande che spesso non trovano risposta e proprio per questo impediscono a molte donne o soggettività queer di uscire da situazioni di violenza all'interno della famiglia o della coppia. I servizi di accoglienza e le case rifugio non bastano, le comunità spesso sono luoghi in cui la vita viene stravolta e non sempre sono adatti a costruire indipendenza.

Eppure nella nostra città le case vuote sono centinaia. Gli enti pubblici che gestiscono le case popolari le tengono chiuse perché è più facile e redditizio venderle sul mercato privato che investire nelle ristrutturazioni necessarie.

Non viene minimamente tenuta in considerazione l'enorme precarietà lavorativa a cui sono sottoposte donne e soggettività queer. Ogni volta che ATER (azienda regionale che gestisce l'edilizia residenziale pubblica) chiude una casa con una porta blindata commette una violenza, si appropria di un bene comune e lo gestisce a suo piacimento.

Abbiamo la stringente necessità di smantellare questo sistema, in ogni modo possibile.

Occupare le case sfitte e lasciate a marcire è un atto politico di denuncia dell'emergenza abitativa e della mancanza di risposte da parte delle istituzioni. Le donne che occupano sono la resistenza che si esprime contro la violenza del sistema capitalista, che nei quartieri costruisce villette di lusso che troppo pochi si possono permettere, mentre svende il patrimonio pubblico e spinge le persone povere sempre più ai margini della città.

Vogliamo il centro, vogliamo i quartieri, vogliamo tutto.

Vogliamo stabilire, attraverso un nuovo modo di abitare le case, nuovi concetti di "s-famiglia" che non si basino esclusivamente su una coppia etero con minori.

Abbiamo sperimentato in questi anni che un nucleo familiare è composto da persone che vivono sotto lo stesso tetto, contando l'unə sull'altra, condividendo il cibo e le spese. Abbiamo la necessità di trovare nuovi modi di abitare gli spazi, che non siano individualizzanti, che ci facciamo mettere in rete con chi abita attorno e che ci permettano di non essere solə nel momento del bisogno. Le case che sono ad oggi blindate devono essere aperte e messe a disposizione dei percorsi di costruzione di indipendenza per uscire da situazioni di violenza machista e di precarietà lavorativa.

È ora di dire basta all'isolamento e ai “panni sporchi lavati in casa”, vogliamo costruire reti e situazioni abitative fucine di diritti e dignità.

Il lavoro povero è violenza

Esistono lavori che vengono considerati meno qualificati di altri e per questo vengono pagati meno, sono spesso lavori faticosi, logoranti, sono quelli che lasciano i segni più profondi sui nostri corpi.

In Italia non esiste una paga minima e le tutele per le donne sul posto di lavoro sono pochissime. I lavori precari, intermittenti e part time colpiscono di più le donne, in particolare giovani e migranti.

In Italia solo il 49,5% delle donne ha un posto di lavoro, di cui solo il 31% a tempo pieno.

Molti settori di lavoro povero sono prevalentemente occupati da donne: lavoro domestico, lavoro sociale, educazione, sanità e turismo. Il lavoro domestico in Italia è uno dei lavori pagato peggio, con meno tutele, con tasso di irregolarità del 57%, al di sopra rispetto alla media dei principali settori produttivi (12,6%), ed è svolto in un 87,6% da donne.

Il lavoro delle pulizie degli ospedali, scuole, uffici pubblici e privati, mezzi pubblici, grandi e piccoli negozi, con il passare degli anni lascia segni indelebili sul nostro corpo e sulla nostra salute e continua ad avere una paga di circa 7€ lordi all’ora.

Il lavoro povero è una forma di violenza, ci costringe a vivere sotto la soglia della povertà, a subire ricatto occupazionale in alcuni settori prevalentemente occupati da donne e migranti.

Il sapere patriarcale è violenza

Il 25 novembre anche gli universitar3 sono sces3 in piazza, per opporsi a un’Università patriarcale e prevaricatrice.

In Università i numeri delle molestie sono oscurati, ma alcune ricerche indipendenti sostengono che circa il 70% delle donne abbia subito violenza di genere. La violenza negli spazi del sapere può provenire sia da student3 che da professor3, il che rende più difficile denunciare ed essere credut3 a causa delle relazioni di potere e gerarchiche profondamente radicate in questo ambiente.

La figura a cui rivolgersi se si subisce una molestia in università è la “consigliera di fiducia”, un organo volto alla garanzia del diritto alla tutela da qualsiasi molestia sia essa sessuale o morale. Il codice di condotta per molestie sessuali o morali, dichiara che se subisci una molestia devi rivolgerti a tale organo entro 60 giorni, e uno dei possibili provvedimenti è un colloquio in cui si propone una via para-legale: entro 120 giorni dal colloquio si deve decidere come procedere.

Ciò ci dimostra come questo iter sia uno dei tanti prodotti di una cultura che attraverso procedure burocratiche perpetua meccanismi patriarcali oppressivi e prevaricatori sulla nostra libertà di essere e di agire infierendo sul nostro diritto all’ autodeterminazione.

Tra le altre procedure risolutive riguardanti atti di molestia (art.7), si può constatare come l’obiettivo finale universitario sia quello di “[…] tentare la conciliazione tra i due” evidenziando così, ancora una volta, la depravazione nel cercare soluzioni alternative fuorvianti, invece che seguire misure legislative volte alla tutela in caso di molestia.

Noi vogliamo camminare sicur3 dentro e fuori dall’Università! Vogliamo che l’università predisponga in ogni sede dei luoghi dove rivolgersi a sorelle per essere ascoltate e non essere colpevolizzate se non si denuncia. L’università sicura la fanno i corpi che la attraversano.

Per questo il 25 novembre siamo sces3 furios3 per le strade per ribadire impetuosamente che vogliamo un’università transfemminista! Pretendiamo, ma non aspettiamo. Se non ci viene data l’università che ci meritiamo allora ce la prenderemo.

L’educazione patriarcale è violenza

Il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza, tra cui il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale. E la responsabilità è anche del sistema scolastico e delle sue lacune.

La scuola è il luogo in cui noi giovani passiamo la maggior parte del tempo e in cui instauriamo gran parte delle nostre amicizie, rapporti, relazioni e interazioni sociali. Dovrebbe essere il luogo in cui ci viene quindi insegnato a relazionarci con le altre persone, eppure l’educazione relazionale e al consenso sono temi che non vengono mai trattati. Non ci viene mai insegnato che possiamo dire di no, che i rapporti sessuali devono essere consensuali o che esiste un mondo oltre al rapporto pene-vagina.

Delle malattie sessualmente trasmissibili non si parla minimamente se non come una cosa di cui vergognarsi e di cui avere paura, e ci viene insegnata l’astensione come unico modo sicuro di evitarle. Ci viene imposto un sapere patriarcale, e le poche volte che viene affrontata l’educazione sessuale ci si limita alle funzioni riproduttive e mai si parla di piacere, figuriamoci di piacere femminile (la clitorite? mai vista in un libro di scienze).

Questa è la medicina patriarcale che ci viene insegnata, che studia i nostri corpi solo in funzione riproduttiva, come futur3 madri e con lo scopo controllarci. Si parla solamente di rapporti eterosessuali penetrativi tra persone cis e abili, ogni altra forma di sessualità viene completamente invisibilizzata e ignorata, lasciando una voragine nella formazione di tantissim3 student3 che non hanno modo di accedere alle informazioni necessarie per intraprendere una sessualità sicura, consapevole e consensuale.

Le falle nel sapere fornito dalla scuola sono molteplici ed enormi, e privarci di informazioni essenziali non può che essere definito violenza. Dall’eurocentrismo e dall’impostazione colonialista dei nostri libri di storia, alla totale omissione dell’educazione ambientale e delle sue conseguenze e dei suoi veri responsabili: Il sapere che ci viene imposto è utile solamente a renderci incapaci di formulare un pensiero critico e ad insegnarci ad obbedire senza porci domande, ad essere perfett3 futur3 lavorator3 sfruttat3.

Violenza è anche il PCTO, il quale ha provocato tre morti e chissà quanti feriti in meno di un anno. Togliendoci dai banchi di scuola, dove dovrebbe avvenire la nostra formazione, per abituarci a un mondo di lavoro povero, sfruttato, precario e pericoloso per la nostra salute.

Infatti i tagli che il sistema scolastico ha continuamente subito negli scorsi anni dalla riforma Gelmini hanno portato la scuola ad essere sempre più un’azienda e sempre meno un luogo di formazione e crescita per giovani student3.

Questo modello di scuola, intriso di cultura cattolica e patriarcale, crea ed infligge violenza quotidianamente quando sessualizza i nostri corpi, quando ci impone un dress code opprimente e sessista che obbliga giovani studentess3 a coprirsi per non rischiare di essere sessualizzate dai loro compagni maschi o ancora peggio dai loro professori.

Ci viene così insegnato che è colpa nostra se veniamo molestat3 e che non potremo mai avere valore se ci vestiamo in modo considerato indecoroso.

Ogni forma di espressione che fuoriesca dalla norma eterocispatriarcale è sistematicamente oppressa e punita, e subiamo transfobia e omofobia ogni giorno non solo dai nostri compagni ma anche e soprattutto dai professori, che non sono minimamente formati o preparati ad affrontare la presenza di student3 queer.

La nostra libertà d’espressione viene tremendamente limitata, non solo nel nostro vestiario ma anche privandoci di ogni spazio di confronto orizzontale tra student3, impedendoci di esprimere la nostra opinione, che viene privata di valore. Veniamo infatti obbligat3 ad un tipo di insegnamento frontale, nozionistico e gerarchico, un sapere memonico, senza che ci venga data la possibilità di riflettere o formulare un pensiero critico a riguardo.

È ora di dire basta a un sistema scolastico violento, che impone un sapere limitato e che opprime ogni forma di espressione diversa dalla norma patriarcale.

La medicina patriarcale è violenza

Ogni giorno avvengono violenze anche all'interno della salute pubblica e privata, e sulle gravi carenze del SSN nell'ambito della salute sessuale e riproduttiva. Il SSN, infatti, rende ingiustamente inaccessibili pratiche come l'interruzione volontaria della gravidanza, nega l'autodeterminazione, ed invisibilizza corpi e patologie, calpestando i diritti di noi donne e persone queer:

Nonostante i metodi contraccettivi non siano gratuiti e l'educazione all'affettività e al consenso assente, l'IVG risulta ancora difficilmente accessibile, con 7 ginecologi obiettori su 10 e un personale sanitario ostile e violento nei confronti di chi vuole abortire. Anche i consultori, che dovrebbero essere luoghi di presidio sul territorio, sono di difficile accesso, mentre le associazioni ProLife hanno pieno accesso, rendendo ancora più difficile e emotivamente e burocraticamente faticosa la scelta dell'aborto, e non solo. Non solo il diritto all'aborto non è garantito, ma nemmeno il diritto alla salute in tutte le sue forme. Un esempio sono la vulvodinia e l'endometriosi: nonostante siano malattie che colpiscono, ciascuna, circa il 10% della popolazione femminile vengono ancora diagnosticate con grande ritardo e dopo un iter costosissimo; non c'è formazione del personale ginecologico se non su iniziativa personale, e sono ancora troppo spesso patologie stigmatizzate.

La mancata formazione del personale medico e spesso il mancato interesse verso una medicina inclusiva coinvolge anche e soprattutto le persone queer, compiendo microaggressioni o vere e proprie violenze nei loro confronti.

Secondo l'osservatorio nazionale sulla violenza ostetrica in Italia, 4 madri su 10 hanno trovato l'assistenza al parto lesiva della loro dignità e integrità psicofisica. Inoltre, più della metà delle donne intervistate ha subito l'episiotomia, ovvero l'incisione del perineo che facilita il passaggio del feto, e spesso senza un reale consenso.

La medicina è patriarcale in tutte le sue forme: nei trial farmacologici, 8 su 10 partecipanti sono uomini, e non vengono mai considerati corpi non conformi né periodi del ciclo mestruale, dando origine a gravi bias che diminuiscono l'efficacia dei farmaci assunti da soggettività non conformi, o addirittura li rendono tossici.

Non dobbiamo poi dimenticare l’impatto della pandemia ha avuto su tutta la sanità, esacerbando e accelerando i processi di privatizzazione, la diminuzione dei fondi e rendendo ancora più difficile l’accesso a cure e visite. Le donne e le soggettività LGBTQIA+, ma anche le soggettività migranti e razzializzate, sono state particolarmente colpite in generale dalla pandemia e dalle politiche portate avanti per farvi fronte.

Il lavoro di cura, delegato ai corpi femminilizzati, è aumentato nei mesi di lockdown, senza misure di welfare che potessero aiutare effettivamente le donne. Donne che spesso si sono trovate in situazioni violente, con una difficoltà esponenzialmente aumentata nell’accedere e nel proseguire poi il percorso di uscita dalla violenza. Donne e soggettività queer che sono state colpite anche nell’accesso alla salute; l’accesso a IVG e a consultori durante il periodo di lockdown e nei mesi successivi è diventato pressoché impossibile.

Per questo è necessario inquadrare il tema della sanità all’interno di un discorso complessivo, sistemico e anticapitalista.

Vogliamo accesso libero, gratuito e reale all’aborto, alle cure ginecologiche. Vogliamo un’educazione che ci parli dei nostri diritti, che ci parli di piacere e non del corpo femminile sempre e solo in ottica riproduttiva. Vogliamo medici formati che sappiano rispondere ai bisogni delle soggettività LGBTQIA+.  Vogliamo una ricerca e un sapere medico non patriarcale, inclusivo, queer. Vogliamo una medicina transfemminista, che non insegua il profitto ma che si basi sul concetto di cura. Vogliamo una sanità che sia realmente un bene comune, che si prenda cura del welfare più largamente inteso, preoccupandosi non solo della cura delle patologie, ma tanto più della loro prevenzione attraverso la garanzia di diritti di base quali ad esempio la casa, l’accesso all’acqua, la sovranità alimentare, la salubrità delle città e la giustizia climatica.