23 Novembre 1980

di Antonello Petrillo*

22 / 11 / 2010

Ricordo bene quella sera del 23 novembre 1980 perché c’ero. Vivevo in un paese dell’Irpinia e stavo appena, da bambino, varcando le soglie dell’adolescenza. Sul piano personale ho, dunque, il ricordo dell’inizio della vita, della politica, della resistenza. Come scrive Giovanni Iozzoli in un libro assai bello: «Gironzolavamo allora come i tanti cani sciolti che incrociavamo per i vicoli e nelle due piazzette del paese» (I terremotati, Manifestolibri, Roma 2009, p. 12). Come scrive ancora Gianni, «quel che succedeva in quell’angolo sperduto di Campania, stava contemporaneamente accadendo dappertutto –nelle steppe, nelle giungle, negli slum e nelle isole […]» (Ivi, p. 97). La globalizzazione, insomma: anche se non la chiamavamo ancora così, ce ne rendemmo conto subito e, negli anni successivi, con Gianni e qualche altro, provammo a studiare e a organizzarci. Ricordo non senza commozione l’ingenuità con la quale sperammo che la rottura del tessuto comunitario nei vecchi borghi devastati dal sisma inducesse equilibri sociali e politici radicalmente nuovi. La proletarizzazione improvvisa e forzata di una piccola borghesia locale (fatta soprattutto di commercio al dettaglio e piccola rendita fondiaria) e la deportazione di enormi quote di popolazione nei “campi” (prima tende militari, poi baracche in legno o containers chiamati pomposamente “prefabbricati leggeri”, dopo ancora prefabbricati pesanti spacciati, proprio come adesso a L’Aquila, per “case”), insieme ai primi autobus in fiamme a Napoli, percorsero le nostre giovani spine dorsali con l’impagabile frisson insurrezionale e l’eccitazione di una resistenza che supponemmo naturalmente ampia e duratura. Di questo e d’altro delirai persino per iscritto, in un librino ormai introvabile -pubblicato con i soldi di un compagno vero e prematuramente scomparso- e intitolato pomposamente Post-sismìa. Nuove forme di potere e nuove soggettualità antagoniste nella polis (Centro Studi Questirpinia, Avellino 1988).

Ovviamente sbagliammo, e di molto. Non era l’Iran descritto appena un paio d’anni prima da Foucault sulle pagine del “Corriere della Sera” (cfr. L’esercito, quando la terra trema e gli altri “reportages” ora contenuti in M. Foucault, Taccuino persiano, a cura di R. Guolo e P. Panza, Guerini e Associati, Milano 1998) e la terra tremava per noi e non per il potere, che ne uscì, anzi, rinnovato e rafforzato. Al potere il sisma giovò, accelerandone la trasformazione vitale di pratiche e dispositivi, metodi e strumenti, catene di comando e apparati simbolici, adeguandone soprattutto gli arretrati terminali locali alle necessità dell’incipiente modernità “globalizzata”. Sul piano locale fu l’epoca della trasformazione sincrona di camorra e giunte municipali. Nuovi milieu si imposero nell’una e nelle altre: sparirono i guappi e spuntarono i “ragionieri”, scomparvero i notabili e vennero gli ingegneri. Una saldatura inedita si rese possibile tra ceto politico, blocchi d’interesse antichi e consolidati (proprietà fondiaria e industria delle costruzioni) e nuove forme dell’economia postfordista (destrutturazione dei processi manifatturieri, eco business, logistica e grande distribuzione commerciale).

Il territorio dell’intera Campania ne fu profondamente scosso, e non solo quello “fisico”: lo “sciame sismico” di quella trasformazione percuote i territori sociali dell’intera regione ancora adesso, a distanza di giusto trent’anni. Man mano che avanzavano le ruspe degli abbattimenti, il paesaggio agrario dell’entroterra andava modificandosi drasticamente, venendo via via a coincidere appieno con lo skyline della periferia di qualsiasi contemporanea metropoli globale: un mix di sprawl urbano, edilizia residenziale a basso costo, sweatshops, magazzini, ipercentri commerciali e snodi per il trasporto intermodale, arterie a scorrimento veloce etc. Man mano che le benne sfondavano i fianchi delle montagne per estrarne i materiali necessari alla ricostruzione, le fecondavano contemporaneamente con gli embrioni della nascente economia della “monnezza”: un giro d’affari enorme, i cui contorni sono ormai imprecisabili, nella galassia di discariche legali, semi-legali e illegali, sversatoi en plein air di liquami tossici, impianti industriali dismessi e mai bonificati…

Sul piano sociale, la ricostruzione permise di reinscrivere le antiche subalternità all’interno delle nuove relazioni produttive: la precarietà e l’assenza di diritti e di partecipazione sindacale tipiche del settore occupazionale per eccellenza di quegli anni –l’edilizia, economia labour intensive per eccellenza- si estesero ben presto agli altri segmenti del mercato del lavoro.

Anche nei settori più tradizionali dell’industria manifatturiera –le industrie a prevalente capitale settentrionale che andarono a insediarsi nei cosiddetti “poli di sviluppo” previsti dalla L. 219/81- le esigenze di rapida rapina del territorio e dei contributi governativi (nella maggior parte dei casi con conseguenti, altrettanto rapide, dismissioni degli impianti) indussero la sperimentazione di relazioni sindacali marcatamente ancillari: molte fabbriche avevano (grazie a contratti di formazione-lavoro e altre formule miste) organici formalmente sottodimensionati, in modo da rendere difficile l’accesso al sindacato, ma anche laddove esso c’era, il suo ruolo fu da subito marcatamente schiacciato sulla mera difesa dei livelli occupazionali, con conseguente abbandono di ogni idea di tutela dei diritti. Aree tradizionalmente arretrate sul piano industriale si trasformarono, così, in luoghi d’avanguardia, centri laboratoriali per la sperimentazione del lavoro nuovo, all’insegna della fabbrica globalizzata, la fabbrica nomade che si sposta sul pianeta alla ricerca delle relazioni industriali più favorevoli: so che il dott. Marchionne si è formato prevalentemente all’estero –segnatamente nella provincia canadese di Ontario-  ma il suo apprendistato avrebbe potuto tranquillamente iniziare come piccolo quadro in una delle tante fabbrichette del “Cratere”, a Lacedonia o Lioni… La brutalità dei rapporti di forza spacciata per Grande Teoria ha radici profonde in quei luoghi e nei mille luoghi simili sparsi nelle periferie del mondo.

Lo stesso fu per la grande distribuzione commerciale (cuore pulsante delle economie globalizzate, vettore potente della trasformazione dei “produttori” in “consumatori” e fulcro autentico delle attività di riciclaggio della camorra): la distruzione fisica della rete di commercio al minuto operata direttamente dal sisma e, soprattutto, la ricostruzione delle case in quartieri residenziali a valle dei paesi, del tutto separati dai centri (come sta accadendo oggi a L’Aquila) imposero ai cittadini locali inedite modalità per gli acquisti quotidiani: licenze sul filo della legalità (e spesso ben oltre quel filo) e in qualche caso la veloce riconversione di capannoni industriali dismessi della prima fase di industrializzazione (anni Sessanta e Settanta) punteggiarono le campagne di centri commerciali sfavillanti, ancor prima che queste stesse campagne si riempissero di abitazioni a basso costo (chi abitava ad Avellino e dintorni ricorderà che il supermercato GS –inaugurato proprio poche ore prima della scossa fatale- fu per lunghi mesi non solo il luogo degli approvvigionamenti di sussistenza, ma anche il luogo di una rapida socializzazione a modelli di consumo e prodotti mai sperimentati prima e, specialmente, l’unico luogo all’interno del quale potesse esercitarsi la socialità tout court di popolazioni rimaste improvvisamente orfane di piazze e bar, parrocchie e circoli…).

Lo stesso, ancora, accadde per la finanza: il farraginoso meccanismo previsto dall’intervento straordinario in merito alla distribuzione dei contributi statali per la ricostruzione e l’assurda lentezza nelle procedure di erogazione si presentarono a banche e banchieri come un’opportunità simmetricamente straordinaria, un territorio del tutto vergine da sottoporre a una colonizzazione dai ritmi forzati. Una piccola realtà del credito locale, la Banca Popolare dell’Irpinia (oggi Banca della Campania, Gruppo BPER, uno dei principali attori finanziari italiani, all’estero controlla Volksbank), fortemente legata alla Democrazia Cristiana -partito che esprimeva in regione la maggioranza relativa e in Irpinia quella assoluta- assurse contemporaneamente a snodo strategico della catena di comando politico, centro nevralgico della progettazione territoriale e avanguardia laboratoriale della finanziarizzazione dell’economia, indispensabile alla fase che stava per iniziare.

Tutto ciò fu reso possibile dalla messa in moto di un dispositivo potente, che poteva prescindere dalle leggi ordinarie sul regime dei suoli come dai controlli ordinari sulla spesa pubblica, dalle norme di fabbricazione vigenti come da quelle sulle licenze commerciali, dalle valutazioni d’impatto ambientale come dalle direttive europee in materia di sicurezza, dalla legislazione sociale come dal diritto del lavoro. La deroga alle norme previste in materia di gare e appalti, l’inversione del rapporto pubblico-privato in materia di oneri di urbanizzazione, la crescita smisurata del potere dei sindaci a discapito degli organismi consiliari (i poteri di ordinanza “per incolumità e urgenza” si dilatarono sino a precostituire sul territorio situazioni di fatto poi difficilmente revocabili) e la dura repressione di ogni tentativo di partecipazione locale alle scelte, di resistenza o antagonismo a quelle calate dall’alto (facilitata dall’inusitata presenza di personale militare e delle forze dell’ordine) fecero il resto. Enormi quote di popolazione furono spostate in pochissimi giorni e redistribuite sul territorio secondo logiche che rispondevano in parte a interessi speculativi e fondiari, in parte a esigenze di ripulitura di luoghi di pregio e centri storici da marginali e “indesiderabili” di ogni risma: soltanto in seguito capimmo che non si trattava d’altro che della peculiare via locale a quella risistemazione sincrona di territori e popolazioni che interessava i centri urbani dell’intero Occidente globalizzato e che avremmo presto chiamato gentrification

Questo gigantesco déplacement di popolazioni, le devastazioni del territorio fisico che ne seguirono, la profondissima riscrittura dei rapporti economici, politici e sociali, le stesse lacerazioni nel tessuto comunitario e la radicale modificazione della cultura, degli stili di vita e di consumo, tutto ciò sarebbe accaduto egualmente, ma la sua incredibile accelerazione fu dovuta a ciò che chiamammo “intervento straordinario” e che oggi possiamo leggere con maggior chiarezza come un regime di “eccezione permanente”: Shock Economy at Work!, per citare Naomi Klein (Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano 2008).

Ci fu, nella vicenda del dopo terremoto, un marchiano errore di valutazione da parte delle opposizioni politiche come di quelle sociali. Ci si concentrò sugli sprechi e sui ritardi, sulla corruzione della macchina governativa e sulla sua collusione con gli ambienti criminali presenti sul territorio. Un enorme sforzo collettivo fu dedicato alla redazione di un numero infinito di enormi dossier su questo o quell’aspetto dell’affaire terremoto, su questa o quella truffa, questa o quella distrazione di fondi. Uno sforzo inane: neppure chi aveva risorse e mezzi professionali utili a tale scopo –la magistratura- ne venne mai (salvo pochissimi, minori e circoscritti episodi) a capo: l’impunità –a differenza dei grandi scandali precedenti- era questa volta garantita a priori, de jure, dagli stessi dispositivi d’eccezione che fondavano la Ricostruzione come Intervento Straordinario. Non si capì –e in molti casi, dall’emergenza rifiuti di Napoli al terremoto dell’Aquila, una comprensione piena sembra lontana anche oggi- che la questione non era negli esiti ma nel metodo: il progressivo svuotamento dei luoghi della rappresentanza e della decisione collettiva che il tardo capitalismo poteva mandare ormai al macero come ferrivecchi, finita ormai la stagione del compromesso sociale del lavoro inscritto nella cittadinanza di Welfare (cfr. R. Castel, Le metamorfosi della questione sociale, Sellino, Castel di Serra 2007). New Orleans e Haiti sarebbero venuti assai dopo, ma in quell’angolo –ancora per certi versi premoderno- di Meridione italiano la variante autoritaria della globalizzazione andava già in scena.

Ciò che impressiona, a riguardare oggi le vicende di quegli anni, è in particolare il carattere rigorosamente pianificato dell’“emergenza”: il criterio dell’”urgenza” –se mancava clamorosamente gli scopi dichiarati (in molti hanno riavuto qualcosa di simile a una casa soltanto negli ultimissimi anni e qualcuno non ce l’ha ancora)- nascondeva in realtà un progetto di lungo periodo. Si trattava di garantire la prosecuzione fedele dei piani di sviluppo immaginati dai gruppi dirigenti della Democrazia Cristiana sin dalla fine degli  anni Cinquanta e incentrati sulla valorizzazione edilizia della rendita fondiaria, integrandoli –onde garantirne la sopravvivenza- nelle profonde trasformazioni economico-sociali che scuotevano ormai –a partire dai primi anni Settanta- l’intero pianeta. L’imperativo globale della ridislocazione di forza lavoro e funzioni produttive si traduceva a livello locale nella necessità, sempre più avvertita, di decomprimere l’ipertrofia demografica di Napoli e dotare la regione di aree nelle quali fosse possibile –lontano dai turbolenti insediamenti industriali di grandi dimensioni come l’Ilva di Bagnoli- sperimentare le forme nuove del lavoro postfordista. All’interno di questo progetto, edilizia e rendita giocheranno ancora un ruolo determinante, fornendo i capitali necessari alla seconda grande trasformazione urbana già alla metà degli anni Settanta, ma il disegno troverà piena attuazione soltanto dopo il 1980, quando -grazie al terremoto- si rendono finalmente disponibili strumenti normativi e quadri istituzionali sufficientemente agili. Saranno proprio le logiche emergenziali, infatti, a rendere possibile il trasferimento di ampie quote di popolazione urbana verso gli insediamenti residenziali sorti rapidamente nell’entroterra lungo l’”asse mediano” e altre direttrici che sviluppate in quegli anni, garantendone la prossimità ai nuovi luoghi di lavoro, piccole manifatture a basso costo (soprattutto nel settore tessile) e ipercentri commerciali. Saranno le stesse logiche emergenziali –incarnate nel Commissariato Straordinario e più in generale nei poteri di deroga conferiti a sindaci e amministratori regionali- a garantire che il processo si compia senza turbative: come una specie di “Piano Condor” in salsa italiana, le turbolenze, i dissensi, il pensiero antagonista del decennio precedente e le stesse forze dell’opposizione istituzionale in seno alle amministrazioni locali, saranno spazzate via rapidamente o comunque poste nella condizione di “non nuocere”…

Il governo dei corpi sperimentato all’interno dei campi per i senzatetto nei giorni dell’immediato dopo terremoto si trasformò presto in una articolata biopolitica delle popolazioni locali, tra predazione del territorio e sfaldamento della società locale. L’insieme dei diritti sospeso al tempo del sisma non sarebbe stato mai più disponibile per i cittadini della Campania: Terzigno e Boscoreale, da questo punto di vista, non sono che capitoli nuovi di una storia iniziata trent’anni fa…

* Docente di sociologia, Università Suor Orsola Benincasa, Napoli