2010: Viva la rivoluzione iraniana!

di Luca Casarini

1 / 1 / 2010

L’ultimo giorno dell’anno è, secondo consuetudine, tempo di bilanci. La somma degli accadimenti scorre come fossero i fotogrammi di una pellicola, e tutto per giungere, in fretta, alla fine. Per chiuderlo, l’anno vecchio, che quello che viene ha bisogno di aria, di avere tutta la scena in modo che arrivi già ben disposto. Ovvio che il 31 dicembre è un giorno come un altro, che segue il 30 e precede l’1.

Numeri, aritmetica. Ma è anche ovvio come la carica simbolica, che nei numeri è sempre potente, trasforma questa casellina del calendario in qualcosa di unico e diverso da tutte le altre. E quindi, al di là di ogni purismo, utilizziamo consuetudine e simbolismo. L’anno che si è chiuso, e quello che oggi inizia, parla iraniano per chi crede in un mondo migliore. In mezzo alle strade in rivolta, piene di gente che squarcia il grigio dei fumi del fascismo teocratico con il fuoco delle barricate, lì dove oggi purtroppo scorre sangue e va in scena la brutalità del potere, vi è la speranza. Non come sentimento irenico, armonioso e alla fine inutile.

Una speranza dura, che si muove rapida di piazza in piazza, con il respiro affannoso, intossicato dai gas e dal troppo correre. Una speranza concreta di cambiare il mondo, che non può che nascere, per avere delle chances nel nostro tempo, a quelle latitudini. Quella iraniana è la rivoluzione dentro il mondo islamico, e questo la rende la più importante di tutte. Un tempo si diceva che era la Palestina il nodo paradigmatico del medio oriente, e che attorno ad esso, alla risoluzione di quel conflitto, risiedeva la possibilità di cambiare il corso delle cose nell’era post muro di Berlino. Oggi, simbolicamente e concretamente, questo anno si chiude con un cambio definitivo di quel paradigma: è l’Iran, sono le Università di teheran e i blogger, le famiglie e gli studenti di quel paese incredibilmente vivo, ad avere l’unica possibilità in mano, per ora, di cambiare il mondo.

L’equilibrio dei blocchi contrapposti e le rigidità della guerra fredda, oggi ci sembrano ridicolmente semplici. Difronte alla guerra globale permanente, che intesse la rete su cui viaggiano, si modificano e si scontrano i flussi di potere che concorrono alla costruzione frattale e caotica dell’impero, gli anni in cui l’orso sovietico si spartiva il mondo con l’aquila americana, sembrano preistoria. La crisi sistemica del capitalismo, ora lo sappiamo, ha introdotto innanzitutto la sua precarietà permanente. Noi che pensavamo che la precarietà fosse il nuovo segno della divisione artificiale del mondo in classi, siamo stati beffati: il capitale è oggi così intimamente legato alle nostre vite che si è fatto, anch’esso, precario. Incapace di pianificare, così vorace da danneggiare sé stesso, così ansioso da rincorrere ogni cosa perdendo il fiato e la bussola.

In questo quadro, terribile viste le conseguenze oggettive e quelle potenziali, figli di banchieri africani ricchissimi, cresciuti in appartamenti lussuosi del westend londinese, diventano stragisti di donne, uomini e bambini per allah. Era depresso, così ci diranno le pagine della sua corrispondenza con altri “fratelli e sorelle” di quella enorme madrassa digitale che può essere internet. Chi non vorrebbe chiedere a questo depresso figlio di papà, perché non ha iniziato la sua crociata che punta ad eliminarci tutti, partendo da suo padre, il banchiere? Ma la verità, sconcertante ed eretica, è che Mutallab è figlio del nostro, indivisibile e caotico mondo, quanto del banchiere. Come lo sono i fanatici neofascisti che dietro al collante dell’Islam, governano direttamente o indirettamente, parte del pianeta. 

Anche la Cina è un prodotto globale, tutto nostro. Essa è la più grande corporation esistente, a consiglio di amministrazione unico e monopolista, il Partito Comunista Cinese, sul più popolato continente. Condanne a morte e turbocapitalismo, ritratti di Mao e supersfruttamento degli uomini, donne e bambini e ambiente, si sono fusi insieme, generando un mostro le cui sembianze ci erano state descritte dai romanzi di Dick o dai film di Scott e dei Wachowsky. Non esiste dunque “nessun fuori” da dove siamo. Non esistono più sviluppo e sottosviluppo, diversità di tradizioni e culture che possano giustificare “una diversa visione della vita”.

O degli esseri umani, o delle donne, o dei bambini. O dei beni comuni. Tutto è “dentro”, e non c’è nessun luogo esterno da cui portare, con guerre e distruzioni, la democrazia da qualche parte. Essa, intesa come l’insopprimibile desiderio di libertà e felicità, ovunque si manifesti è un movimento, una tendenza e mai un fatto compiuto. Come in Iran in queste ore, il suo carattere assoluto spazza via ogni modello, ogni oggettiva pianificazione, ogni convenienza. In Iran la difficoltà più grande per il regime è, come dice Haleh Esfandiari, che questa insurrezione non ha leader. Certo, vi è Moussavi, vi è l’opposizione istituzionale all’odiosa dittatura dei sacerdoti nucleari islamici, ma in realtà tutto questo è trascinato dalla gente, dalla moltitudine.

Non la guida, la segue. I dittatori non possono fermare tutto ammazzando dieci capi. E nessuno sa, se non i sentimenti, l’istinto, l’indignazione, la rabbia di milioni di persone, quando accadrà qualcosa, come e dove. L’Iran è la nostra speranza. Se vogliamo sconfiggere i Mutallab, e la società che quelli come lui vorrebbero raggiungere attraverso lo sterminio di massa di qualche miliardo di persone, deve vincere la nuova rivoluzione iraniana. Allo stesso tempo, se vogliamo sconfiggere l’idea che la “guerra giusta” rappresenta, oggi incarnata da Obama premio nobel, cioè che il mondo è globale solo perché ha un centro e una periferia, una casa ( bianca ) padronale e un giardino incolto tutto attorno, una megalopoli efficiente e organizzata, circondata da uno slum puzzolente e terribile abitato da miliardi di persone, deve vincere la rivoluzione iraniana. 

I comunisti ortodossi, quelli che guardano a Chavez, grande amico di Amadinejad, come il nuovo esempio di socialismo liberatore, e che come lui pensano secondo l’assunto che “il nemico del mio nemico è sempre mio amico”, inorridiranno. L’Onda Verde, che sfida l’arroganza della gerontocrazia degli ayatollah, e il sadismo di uno come Amadinejad, che basta guardarlo per capire che è innanzitutto un misero omuncolo, depresso anche lui, loro, i comunisti veri, l’hanno già catalogata come una manipolazione e un complotto dell’imperialismo (americano).

Mai come in questo momento invece è chiaro che gli Usa non solo non stanno appoggiando l’insorgenza, ma anzi la stanno in qualche modo danneggiando. Se attaccano lo Yemen, vuol dire che Obama ha deciso di stroncarla. Di cosa può alimentarsi l’avvoltoio della dittatura, se non dei cadaveri che la “guerra del satana occidentale” sparge per il mondo? Come può Amadinejad convincere dieci milioni di persone, abitanti dei villaggi rurali e destinati alla povertà e all’obbedienza, a scatenarsi in armi contro chi vive, e si ribella, nella metropoli? Come possono i principi sauditi, e le loro derivazioni radicali e fanatiche come Bin Laden, che trabordano di petrolio e dollari e vivono in un tipo di lusso che definire schifoso è poco, convincere i loro sudditi depredati e schiavizzati, che il nemico è un altro? 

E’ per questo che questo 2010 si apre con speranza, per chi vuole cambiare il mondo. Perche i nostri fratelli e sorelle iraniani, stanno facendo la rivoluzione anche per noi. E’ attraverso i loro occhi che un altro mondo possibile si può vedere.