Ci sono carte e carte. Non tutte sono uguali. Tante, troppe,
rimangono dichiarazioni di intenti, espressioni di principi enunciati e
mai applicati, sistematicamente violati dalle stesse autorità che li
hanno sanciti.
La Carta di Lampedusa no. E la giornata del 18 dicembre ne è stata una
prova straordinaria. Perché non esiste diritto oggi che non sia
sottoposto a negoziazione, che non richiami implicitamente la necessità
di essere difeso o conquistato.
Decine di occupazioni, cortei, mobilitazioni che si sono snodate in tutta Europa ed in tutto il mondo sono state il vero inizio della scrittura collettiva della Carta di Lampedusa: un nuovo diritto, che nasce dal basso, che si concretizza nelle strade e che già ora si sta affermando.
E’ accaduto a Nordest, dove in una sola giornata sono stati bloccati diciotto sfratti tra Vicenza e Verona, dove a Padova cinquanta rifugiati hanno occupato un palazzo lasciato in pasto alla rendita speculativa, dove tra Venezia e Mestre altre decine di famiglie hanno riaperto cinque case vuote per riaffermare il loro diritto ad abitare.
Una vera e propria mappa dei diritti scritta dal basso si è snodata lungo tutta la penisola. A Messina, Palermo, Niscemi e di fronte al Mega Cara di Mineo.
A Bologna, dove le cariche dei reparti anti-sommossa
non sono riuscite a zittire la voce di chi non vuole che il CIE di via
Mattei venga riaperto, a Cagliari, dove quaranta
migranti fuggiti dal Cpa di Elmas hanno bloccato per ore l’aeroporto. E
poi ad Ancona a Milano, a Torino, a Brescia, a Firenze: picchestti,
iniziative, presidi, incontri.
La piazza che ha segnato la giornata è stata certamente quella di Roma.
Migliaia di persone, in larga parte rifugiati, hanno riempito le vie
del centro, hanno assediato il consolato tedesco, hanno rivendicato un
mondo di diritti da conquistare in questo mare di contraddizioni ed
egoismi che la crisi ci sta offrendo.
"La lotta contro l’austerità non ha frontiere", così recitava lo
striscione di apertura del corteo. Nelle stesse ore, poco più in là,
andava in scena la marcetta di Piazza del Popolo lanciata da Forconi e
casa Pound. Piano piano la coltre di nebbia che ha avvolto il cosiddetto
movimento del 9 dicembre inizia a diradarsi. Ed il corteo di Roma
Meticcia ha restituito dignità alle piazze di tutta la penisola,
occupate in questi giorni da richiami al popolo italiano ed alla
sovranità nbazionale.
Ma il 18 dicembre è andato oltre i confini
anche fisicamente. A Berlino, ad Atene, a Sivilla, a Bruxelless, in
tutto il mondo milioni di persone sono scese in piazza non solo per
ribadire i diritti dei migranti. Perché le migrazioni, il diritto di
tutti di muoversi liberamente è ingabbiato ad ogni latitudine, piegato
in ogni luogo ad interessi che lo subordinano. Accade tra Messico e
Stati Uniti, come nel mezzo del continente africano, all’interno dei
confini cinesi o nel cuore dell’Europa, dove anche la libera
circolazione di chi ha un passaporto degli stati membri è condizionata e
subordinata a produttività e diktat economici.
Nulla di compassionevole, niente a che vedere con un generico senso etico e solidale. La geografia disegnata dal 18 dicembre parla immediatamente il linguaggio di una alternativa alla crisi, di un tentativo di rispondere a questo disastro economico e sociale senza precedenti rifiutando la ricetta dei ripiegamenti identitari e delle cittadinanze differenziate.
Nelle stesse ore le immagini girate nel centro di Lampedusa
hanno fatto il giro del mondo. I responsabili della cooperativa che
gestisce il centro sono stati rimossi, l’UE minaccia di tagliare i fondi
per l’accoglienza. Nessuno invece si chiede perché migliaia di persone
siano costrette a passare da lì. Perché altre migliaia, in ogni luogo di
questa Europa piena zeppa di carte e dichiarazioni dei diritti, siano
confinate nella periferia dell’umanità, dove l’arbitrarietà della legge è
la regola, dove i confini trasformano biografie e producono stigma.
Chiederselo significherebbe affermarne la violenza, riconoscere il
ricatto che l’Europa riproduce al suo interno come al suo esterno,
fagocitando interi territori, ultimo in ordine cronologico solo quello
turco.
Quel video, capace di far indignare anche il Ministero dell’interno
Alfano, non può che essere allora liquidato come eccezionale, errore
umano fisiologico nella macchina perfetta del controllo del confine. "Eseguivamo gli ordini" dicono gli operatori della cooperativa Lampedusa Accoglienza.
Un motivo in più per essere sull’isola il prossimo 31 gennaio 2014,
quando collettivi, attivisti, migranti, associazioni, organizzazioni,
da tutta Europa e dal Nordafrica, si incontreranno nel lembo di terra
più a Sud dell’Europa, diventato il simbolo della brutalità del confine,
per intrecciare le loro strade e ridisegnare insieme il destino di
questo pezzo di mondo.
La Carta di Lampedusa, una carta dei diritti costruita
dal basso, un patto costituente, un manifesto collettivo, che le piazze
del 18 dicembre hanno già inziato a scrivere.