10 = 500.000

In Italia i dieci più ricchi hanno il reddito di mezzo milione di famiglie.

4 / 5 / 2014

I dati della relazione Censis sostanziano quelli della Caritas sull'allargamento delle fasce di povertà, sull'accentramento della ricchezza nelle mani di un esiguo gruppo sociale, dando spessore sociale e politico ai numeri che già ISTAT aveva messo nero su bianco.

E' in atto da almeno un quindicennio un trasformazione sociale che polarizza le differenze economiche tra ceti sociali andando a erodere, a sgretolare il differenziale di reddito di quella larga fascia sociale che nei paesi occidentali avanzati è chiamato ancora ceto medio.

Dunque, anche in Europa, negli Stati Uniti d'America, in Canada e in Giappone, si sta scivolando verso quella condizione che, nel secolo scorso, era considerata peculiare degli stati del Terzo Mondo ed oggetto di instabilità politica e sociale nei Paesi in via di sviluppo.

La globalizzazione e la crisi economica che l'accompagna, sopratutto nei paesi a capitalismo maturo, stanno producendo una omogeneizzazione planetaria anche nella distribuzione del reddito. Non è una novità per i movimenti, che, fin dalla rivolta di Seattle del novembre 1999, hanno fatto del diritto negato al reddito e ai diritti sociali per tutti la ragione cardine delle nostre iniziative e manifestazioni.

Riportiamo qui l'articolo di Roberto Ciccarelli dal Manifesto del 4 maggio 2014.

La spe­re­qua­zione tra i red­diti sono diven­tate così immense da avere rag­giunto all’inizio del XXI secolo lo stesso livello record del 1910–1920. Ne ha par­lato l’economista fran­cese Tho­mas Piketty in Le capi­tal au XXIe siè­cle(Seuil), un libro discusso anche in Ita­lia dove non è ancora uscito. A leg­gere l’analisi pub­bli­cata ieri dal Cen­sis sulle dise­gua­glianze che sepa­rano in Ita­lia un club di super-ricchi dalla mag­gio­ranza della popo­la­zione, la tesi mostra tutta la sua attualità.

Nel nostro paese dieci per­sone dispon­gono di un patri­mo­nio di 75 miliardi di euro pari a quello di quasi 500 mila fami­glie ope­raie. Allar­gando di poco il cer­chio, poco meno di 2mila ita­liani dispon­gono di un patri­mo­nio supe­riore a 169 miliardi, escluse le pro­prietà immo­bi­liari. In que­sto caso anche le per­cen­tuali aiu­tano a farsi un’idea: lo 0,003% della popo­la­zione ita­liana pos­siede una ric­chezza pari a quella del 4,5% di quella totale. E ancora: l’1% dei più ric­chi, circa 414 mila per­sone, nel 2012 si è spar­tito un red­dito netto di oltre 42 miliardi di euro. A livello indi­vi­duale, cal­cola il Cen­sis, signi­fica un red­dito netto da 102 mila euro l’anno. La mag­gio­ranza degli ita­liani invece arriva a mala­pena a 15 mila euro annui. La crisi non ha intac­cato le ren­dite dei primi e la povertà dei secondi. Sem­mai ha raf­for­zato la tendenza.

Que­sta situa­zione non è il pro­dotto di un destino cieco e ine­lut­ta­bile. È il risul­tato delle poli­ti­che eco­no­mi­che adot­tate da noi all’indomani dell’esplosione della crisi del debito sovrano. Il 27 gen­naio scorso uno stu­dio sulle dise­gua­glianze pub­bli­cato dalla Banca d’Italia ha con­fer­mato che metà della ric­chezza nazio­nale è dete­nuta dal 10% delle fami­glie, men­tre la povertà è aumen­tata coin­vol­gendo in un solo anno — era il 2011–2012 — il 16% della popo­la­zione in più. Da allora, l’impatto dell’austerità ha mol­ti­pli­cato que­ste pro­por­zioni a tal punto che nel 2013 l’Istat ha cer­ti­fi­cato l’aumento dei poveri asso­luti (oltre 4 milioni) e quello dei poveri rela­tivi (oltre 9 milioni). Pro­por­zioni che par­lano con­cre­ta­mente degli effetti della “lotta di classe dall’alto” in corso nel mondo. In un recente rap­porto l’Ong Oxfam sostiene che 85 indi­vi­dui pos­sie­dono una ric­chezza pari a quella di oltre tre miliardi e mezzo di per­sone sul pianeta.

Per il Cen­sis il dila­gare dell’impoverimento coin­cide con l’adozione delle poli­ti­che di auste­rità in Ita­lia, e in par­ti­co­lare con i tagli alla spesa pub­blica e quelli agli inve­sti­menti. Tra il 2006 e il 2012 i con­sumi fami­liari annui degli ope­rai si sono ridotti del 10,5%. Que­sto calo è diret­ta­mente col­le­gato a quello del red­dito fami­liare annuo: –17,9% rispetto a 12 anni fa. Ugual­mente alto il calo dei red­diti degli impie­gati (-12%), più con­te­nuto quello degli impren­di­tori (-3,7%). Il patri­mo­nio dei diri­genti nel 2012 era pari a 5,6 volte quello di un ope­raio, men­tre vent’anni fa era circa 3 volte supe­riore. Quello di un libero pro­fes­sio­ni­sta oggi è 4,5 volte supe­riore al patri­mo­nio di un ope­raio. Vent’anni fa era più basso: quat­tro volte in più. Quello di un impren­di­tore è pari a oltre 3 volte quello di un ope­raio (2,9 volte vent’anni fa).

Le ini­quità sociali non riguar­dano solo il rap­porto tra patri­mo­nio e red­dito. Col­pi­sce la libertà indi­vi­duale e deci­sioni impor­tanti come quella di avere figli. Chi decide di averne uno deve con­fron­tarsi con il rischio di diven­tare povero. L’alternativa è stra­ziante. Diventa un incubo quando si tratta di deci­dere se averne un secondo. Per il Cen­sis la sua nascita fa quasi rad­dop­piare il rischio di finire in povertà (20,6%). Quello di un terzo figlio lo tri­plica (32,3%). A Sud, poi, il rischio è quasi tri­plo (33,3%) rispetto a quello del Nord (10,7%). Sono que­ste le pre­messe che hanno creato il nuovo sog­getto della crisi, che lo stu­dioso Mau­ri­zio Laz­za­rato ha defi­nito l’«uomo inde­bi­tato»: nel Sud il 18% dei resi­denti cor­rono il rischio di finire inde­bi­tati rispetto a quelli del Nord (10,4%) e del Cen­tro (13%).

Il ceto medio, osserva il Cen­sis, è ormai “sfa­ri­nato”. Con la per­dita di una pro­spet­tiva, anche medio­cre, di una redi­stri­bu­zione e di un benes­sere futuro aumen­tano le pos­si­bi­lità di un “ritorno al con­flitto sociale”. Per que­sto ceto medio, stri­to­lato dalla lotta di classe della finanza con­tro il lavoro e la pro­prietà, il bonus di 80 euro al mese pro­messo da Renzi sarà tutt’al più un leni­tivo, al peg­gio un mirag­gio di pri­ma­vera. Se sarà per­ma­nente, sostiene il Cen­sis, la spesa per con­sumi sarà di 3,1 miliardi in 8 mesi, il 15% in più rispetto al caso in cui il bonus non venga rin­no­vato. In que­sto caso, solo 2,2 milioni di ita­liani (su 10) spen­de­ranno gli 80 euro per una pizza in più, men­tre 5 milioni use­ranno gli 80 euro per pagare i debiti. Gli altri 2,7 si ade­gue­ranno alla con­giun­tura e, con ogni pro­ba­bi­lità, ter­ranno il bonus nel portafogli.