Quorum - Dài che ce la facciamo!

Alfonso Mandia

13 / 6 / 2011

Sono le cinque e mezza del pomeriggio, quando parcheggio lo scooter davanti all’ufficio elettorale in piazza Marconi a Roma.

Non vado a votare da vent’anni, e dunque, nonostante l’estenuante ricerca in ogni angolo possibile ed umanamente immaginabile, in casa non c’è traccia della scheda elettorale.

Niente da fare, mi tocca arrivare all’Eur.

Anche se fa un caldo della madonna, a questo giro, penso, il viaggio vale la candela, e poi è sempre bello attraversare Roma quando non si ha fretta. E’ una bella Domenica piena di sole, mi viene da chiedermi quanta gente avrà preferito il mare ai propri diritti, un pezzo di spiaggia alla propria voglia di vivere in una società altra, poi mi impongo di esser positivo, non fare il menagramo, l’aria è cambiata, si è visto e sentito, piantala di portare sfiga!

Arrivato davanti all’ufficio elettorale la prima sorpresa. Nonostante l’ora insulsa c’è un delirio di gente, un via vai continuo di tutta l’umanità possibile. Due vigili urbani smadonnano cercando di dare un senso a chi gira in macchina per trovar parcheggio e vorrebbe far come cazzo gli pare. Imbocco l’entrata e appena svolto a destra arriva la seconda sorpresa.

C’è una fila della madonna!

Mi guardo intorno con un sorriso un po’ beota e mi rendo conto che questa volta c’è qualcosa di diverso, che a votare, questa volta, sentono il dovere e la voglia di andarci proprio tutti.

Nella fila ci sono tutte le categorie di esseri umani dell’universo conosciuto. Nello spazio di cinque o sei metri, documento alla mano, signore attempate di mezza età, un paio di ragazzi rasta con la pupilla rossa di chi si è preventivamente sparato via un bel cannone per affrontare l’attesa, un paio di coppie di giovani genitori con prole scalciante al seguito, una vecchiarella che stava per spaccare la stampella sulla testa del suo giovane, forse figlio o nipote, accompagnatore, che si preoccupava, per lei evidentemente troppo, del caldo che le poteva far venire un coccolone. Incrocio un amico che sta uscendo con la sua tessera nuova di zecca. Oh, bello!, come va?, anche tu per adempiere al tuo dovere di ligio cittadino?, gli faccio sempre con lo stesso sorriso ebete di cui sopra. E ti credo, mi risponde, sono vent’anni che non vado a votare, la mia tessera si era volatilizzata. Scoppiamo a ridere contemporaneamente, e con noi le persone che hanno sentito lo scambio di battute.

Stavolta ce la facciamo, penso. Si sente aria nuova, la gente che è qui si vede lontano un miglio che si trova proprio dove vorrebbe essere, nessuna costrizione, solo il senso del dovere di far qualcosa per dare una lezione a chi ci governa, per salvarsi dalla catastrofe imminente, o almeno salvare il salvabile.

Arrivato alla scrivania dell’ufficio guardo l’impiegata e anche lei è sorridente nonostante il casino. Che dici, ce la facciamo? Beh, che stamattina alle undici qui non ci si entrava qualcosa vorrà dire, stavolta glie la diamo forte, la batosta.

Tra una cosa e l’altra sono le sette e mezza di sera, quando entro nella mia sezione a votare, e anche qui, nonostante l’ora neutra, è un via vai continuo, qualcuno si saluta come non succede neanche nei giorni normali, oh, mi raccomando vota bene, attenzione a non sovrapporre le schede, sono di carta carbone, poi ci fregano e stiamo da capo a dodici, ma tua moglie non ci viene, a votare?

Mentre attraverso il parchetto di fronte casa mia mi arrivano pezzi di conversazioni che raccontano di un popolo che forse ha cominciato a svegliarsi, che è stanco di questo sistema di cose, e ha percepito che questa è un’occasione importante per imporre uno stop a chi, a destra, al centro e a sinistra, se si va avanti così, privatizzerà anche l’aria che respiriamo, continuerà a corrompere e imbrogliare, senza ritegno, costruirà centrali nucleari che serviranno soltanto ad arricchire i soliti quattro padroni che manovrano i nostri politicanti come marionette.

A mezzanotte leggo che i votanti hanno raggiunto le due cifre, quaranta per cento, e quasi quasi mi vien voglia di urlare di gioia neanche avesse segnato la nazionale a una finale dei mondiali.

Stasera potrebbe esser davvero l’inizio di un nuovo periodo storico, una pagina bianca tutta da scrivere per poter ricominciare a guardarci nello specchio senza vergognarci di quello che vediamo. Un altro quindici per cento, giusto per andare sul sicuro, e potremo dire, forse, che anche noi abbiamo cominciato a metter sù la nostra piazza Tahrir.

Alla faccia di chi ci vorrebbe silenti e coglioni.