Overlapping struggles: shutdown London, and then?

Utente: Smarti
12 / 12 / 2010

Se gli scontri di piazza e i grandi numeri non dicono niente di nuovo nel panorama delle lotte studentesche italiane, nel Regno Unito dove la politica dal basso si fa per piccoli gruppi e intorno a “issues” ben localizzate, la risposta degli studenti inglesi alla neo riforma dell'Università incarna appieno ciò che si può letteralmente definire un “evento”. In primo luogo perché non è per niente usuale in terra inglese che la contestazione in quanto tale abbia luogo, molto più facile invece che la critica assuma altre forme, più indirette e interne ai canali permessi dalla liberal democracy britannica. Dopo di tutto, storicamente le manifestazioni di piazza e soprattutto il livello dell'organizzazione politica non appartengono alla tradizione anglosassone, dove le battaglie delle trade unions hanno dato forma alle pratiche di lotta in ogni ambito. L'”evento” di oggi solleva del resto proprio la questione dell'organizzazione e della realtà del movimento studentesco inglese: si può parlare della nascita di un movimento che sta prendendo piede a partire non solo dai tre grandi appuntamenti di piazza di quest'autunno (10, 14 novembre, 9 dicembre) ma anche dalle pratiche di sapere alternative che sono in atto nella maggior parte delle università londinesi? Infatti, le immagini riportate dai giornali mettono in luce solo una porzione direi addirittura minimale, seppur rilevante sul piano mediatico, rispetto non tanto al lavoro fatto in preparazione quanto alle attività che perdono il loro peso se definite “collaterali”: occupazioni con seminari che spaziano dall'impegno politico alla formazione filosofica, momenti di discussione sulle radici culturali di questa riforma, sul modello neoliberale di educazione scolastica e sulle possibili connessioni con altri fronti di lotta. Tuttavia, l'esitazione che persiste di fronte alla parola “movimento” dipende in ultima analisi dalla limitata organizzazione (e non sto parlando di unità o guida): anche oggi, le azioni di “sfondamento” e i vari flash mob sono stati opera di piccoli gruppi auto organizzati, non inseriti in alcun tipo di strategia coordinata. In secondo luogo, si potrebbe dire, la scarsa esperienza in tema di occupazioni, autogestioni e forme di protesta varie è alquanto evidente se si osservano un attimo le dinamiche interne alle varie università. Il che è sicuramente vero ma non per questo dobbiamo indicarlo come un punto debole: l'esigenza di elaborare un vocabolario comune e di articolare tra loro le lotte è percepita anche qui come imprescindibile e non a caso il panorama italiano è spesso preso come modello. Del resto, il tentativo di ricondurre le singole battaglie attualmente in corso a un singolo denominatore comune si sta spingendo oltre l'orizzonte studentesco: la parola d'ordine di questo autunno, “No if's, no but's, no education cuts”, in realtà chiama all'appello tutte le categorie sociali e i soggetti politici (prime fra tutte le trade unions) che sono bersaglio di questa politica governamentale che mina alla base il concetto stesso di “pubblico”. La mancanze di una tradizione rivoluzionaria, per così dire, eventualmente non può che giocare a favore del neo movimento inglese, sia perché non vi sono confronti possibili con le lotte del passato che in Italia pesano come macigni, sia per il terreno di sperimentazione politica particolarmente fertile che ancora è quello inglese, anche se sicuramente al costo di alcuni “tentennamenti” di percorso. In altre parole, se dovessi riassumere in due punti il vantaggio che sembra presentare il panorama britannico, si tratta della capacità di osare per creare un nuovo vocabolario politico, e della messa in atto di pratiche di partecipazione politica “eterodosse” rispetto ai nostri canoni di militanza. Non esistono collettivi o grandi forme di rappresentanza studentesca, le persone si ritrovano per affrontare un determinato problema e da quello poi cresce un nucleo di soggetti, sempre molto variabile e poco stabile, che propone attività da fare più che posizione da sottoscrivere. Le riunioni non sono dirette da qualcuno ma si svolgono di solito con un “chair” che di volta in volta presiede la seduta e ha il compito di assegnare la parola a partire dal sistema di segni gestuali ormai divenuto prassi all'interno dei vari piccoli gruppi di attivisti londinesi: segnale per prenotare il proprio intervento, segnale corporeo per mostrare che si condivide ciò che l'altro sta dicendo o invece per mostrare il proprio disappunto, segnale per richiedere una risposta diretta ecc. ecc. Inoltre, nessuna forma di lotta è considerata in sé un modello ma viene usata semplicemente come strumento a disposizione che può essere anche radicalmente trasformato sulla base degli eventi politici. Soprattutto ciò che colpisce è la tendenza ricorrente a rinforzare, modificare mobilitare le forme classiche di protesta attraverso la “contaminazione” con elementi apparentemente esterni (collettivi artistici, pratiche ecologiche...). Questa malleabilità della cassetta degli attrezzi politica deriva forse dalla convinzione di fondo, sottesa a tutti queste esperienze, che l'obiettivo non deve semplicemente essere rendere visibile l'ingiustizia di questa politica, né far crescere una coscienza studentesca in proposito, né colpire lavorare sul piano simbolico quanto “to perfom our subjectivity”, ossia agire prima di tutto per produrre pratiche alternative di sociabilità e possibilità concrete di stili di vita differenti. Questo aspetto mi si è fatto chiaro il giorno dopo la grande protesta: al Goldsmtihs, l'università in cui studio, di fronte i fatti accaduti bisognava prendere le decisione se procedere a una risposta radicale o meno; ebbene, dopo tre ore di riunione condotta sulla modalità che ho descritto sopra, i dubbi sull'occupazione della biblioteca riguardavano prima di tutto il senso stesso di quell'azione: quale deve essere l'obiettivo? Se per me era dare un segnale chiaro che al tempo stesso avesse anche una valenza simbolica, mi sono resa conto che non era scontato per gli altri. Il filo conduttore delle varie posizione era rendere quello spazio fruibile per tutti e trasformarlo in un luogo di sperimentazione e creatività per coloro che lo vivono, più che non un simbolo visibile all'esterno. In fondo, qui le pratiche politiche non vengono testate sulla base dell'appartenenza politica (destra e sinistra qui vogliono dire ben poco...) ma attraverso la griglia del radicalismo: do you want to be radical or not ?