Niente da dire su ciò che rappresento.

Di Plebe Foggia

Utente: Spartanrash
30 / 9 / 2010

L’ultras. L’irrazionale, l’istintuale, l’animalesco. Ciò che fa paura, dove non si tocca. Le due squadre nel rettangolo verde come metafora della battaglia; gli ultras sui gradoni di cemento, a fronteggiarsi da eserciti reali della guerra simulata. Incapaci di distinguere il virtuale dal reale; di formulare pensieri, di scendere sulla terra della logica, di andarsi a scovare il fulcro di un ragionamento nelle profondità della dialettica. Facce dipinte come gli scozzesi a Falkirk, armati come ribelli Tutsi, in lungo e in largo per l’Italia, tra autogrill da saccheggiare (quando non da usare come campo d’onore) e tranquilli villaggi rurali da sottoporre al loro caotico imperio.
Soldi pubblici sperperati in scorte, autobus e danni collaterali alle città.
Tutto per via della follia di pochi disperati, sottosviluppati sottoproletari, gente affettivamente deprivata, col chiodo fisso del calcio e della violenza cieca.

Questo si dice. Questo di scrive. E non c’è storia. La superficialità ha zigomi alti, come le protagoniste dei romanzi, e tratti indubitabilmente affascinanti. Un po’ come l’ignoranza compiaciuta.  Per questo, qui non si tratta di spiegare cos’è un ultras. Come pensa, come vive, quali complessità ingloba. Sarebbe come spiegare che anche lui è un essere umano, e questa cosa suonerebbe insopportabilmente giustificatoria. Un cedimento imperdonabile alla grancassa del banale. Della serie: “Un ultras può essere un padre esemplare”. E grazie al ca**o! Impossibile, allorquando non inutile, si diceva. I sette su sette, i furgoni, il materiale, le rivalità, la mentalità, i codici, le fratellanze, la maglia, gli assenti. Impossibile. Inutile. La gente “normale” tutt’al più fa due passi, prende la metro, qualche fermata, sbuca allo stadio e si siede a guardare i propri beniamini. Gli ultras cominciano il lunedì, quando non la domenica al triplice fischio. E non appena il motore romba l’accensione, in piena notte e con la meta a 7-8-900 chilometri da farsi filati, già canta. Impensabile. Illogico. Perciò non si spiega. Perciò affascina e intimidisce.

La tv, i giornali, – guidati da quel finto spirito naturalistico tipico degli esploratori esotici – hanno provato a raccontarlo, come di solito raccontano ogni realtà controculturale: triturandola. Banalizzando, schematizzando, spaventando. Cani da tartufo alla ricerca del pittoresco, quando serve al palinsesto, o del truce, del truculento, quando bisogna orientare in senso repressivo la gran massa dei teleutenti indifferenti. L’ultras non è un santo, non aspira ad esserlo. Non ha la vocazione, non ha sentito la chiamata, non rimarrebbe sul palo a farsi gonfiare di aculei. Ma il mostro che appare in video, semplicemente, come il sosia per Johnny Stecchino, “non somiglia per niente”. Questione di forme. Questione di estetica. Ogni tanto, poi, qualche voce autorevole conferma le peggiori tesi da osteria indotta. Capello, per dirne uno, e la sua uscita sul calcio italiano ostaggio degli ultras, a fare pendant con quelle sulla Spagna di Franco come modello di ordine ed edilizia residenziale. Altre volte, invece, basta amplificare ingenuità, rimontare al contrario immagini di repertorio, mostrare alla brava gente in poltrona uno scenario catastrofico, che imponga moralmente un ritorno all’ordine. Brusco quanto serve. Il derby del bambino morto di Roma, i napoletani a Termini, qualche scontro dai profondi Novanta. E il gioco è fatto. Strategia della tensione.

Eppure, sgomberiamo il campo dagli equivoci: quanto detto finora non c’entra nulla con la cosiddetta Tessera del Tifoso. Certo, incidentalmente/involontariamente/inconsapevolmente si è portati a pensare che la violenza campanilistica, i riti pagani da Ford Transit e le mitologie nordiche di cui si è scritto, ne siano l’antefatto. O, addirittura, la causa scatenante. Il veleno del quale la Tessera di Maroni pretende d’essere l’antidoto. Ma la propaganda non è informazione. Non accresce, non giustifica, non completa. La Tessera sta alla violenza negli stadi quanto la religione al conflitto Israelo-palestinese. Ma la tv, è stato detto, tritura, banalizza, pedagogica e frustrante quanto la Rai di Barnabei.

Dunque, procedendo per sintesi, la Tessera è tutt’altro. Fidelizza. Come il Burger King o la Coop, le società di calcio – su imbeccata del Ministero – sentono l’improvviso bisogno di stilare una lista dei propri clienti affezionati, di quelli su cui poter contare. Nome, cognome, data di nascita. Fotografia. Una tracciabilità da prodotto Doc. Dal produttore al consumatore. I cattivi, quelli perennemente in malafede, parlano di gigantesca schedatura. Del resto, ci si domanda, perché mai un luogo della socialità (e non del bisogno), un tempio laico dell’aggregazione e dello svago (non sono loro a ricordarci continuamente che il calcio è un gioco?), d’improvviso diventi un fortino inespugnabile, una zona militare dove il “farsi riconoscere” diventi propedeutico all’accesso. La risposta è semplice: perché gli ultras, con i loro decenni di scorribande, lo hanno reso insicuro ed inospitale. Per le donne, per gli anziani, per i bambini. E, per dimostrarlo, tirano fuori i dati sconfortanti delle presenze: poco più di ventimila di media in serie A, quando la pluridecorata Inghilterra ne fa oltre 40mila. Nessun dubbio: colpa degli ultras. Nessun accenno, neppure di passaggio, al calcio-spezzatino confezionato su misura per le pay-tv, al gioco piegato al business dei media, allo sport violentato per farlo entrare di forza nel contenitore del palinsesto hd (come quei gattini giapponesi della bufala internettiana). Gli ultras, le loro danze demoniache, come unico folk devil. E le voci si sovrappongono: “Fare come in Inghilterra, dove gli hooligans sono stati allontanati e gli stadi sono tornati a riempirsi”. E mai nessuno che dica a che prezzo: con una politica del caro-biglietti che, di fatto, ha estromesso le fasce popolari dal circo della Premier; con una pratica dello smembramento (cfr. posto obbligatorio) che ha tolto agli spalti il sapore della rimpatriata domenicale; con la militarizzazione delle tribune (altro che “in Inghilterra non hanno le barriere tra curve e spalti eppure non succede niente.”!); con la privatizzazione degli impianti. Poi guardi i progetti faraonici delle nuove strutture di Firenze, Roma e Milano – dove lo stadio vero e proprio non è che un orpello aggiuntivo nel mare di multisale cinematografiche, pizzerie e botteghe da centro commerciale – e capisci cosa intendono. Capisci che l’Inghilterra non è poi tanto lontana. Vogliono un calcio preconfezionato, che sia spettacolo e non guerra, che viva di emozioni controllate, a basso profilo, e di tanto merchandising, con i tifosi snaturati a semplici consumatori di un prodotto. O trasformati nel prodotto vero e proprio. Non vogliono gli ultras tra i piedi. Come da Burger King o alla Coop. In quest’ottica, effettivamente, la fidelizzazione ha un senso.

Certo, gli ultras potrebbero anche smetterla di ostinarsi. Farsi questa benedetta Tessera e dimostrare, come dicono quelli bravi, di “non avere niente da nascondere”. Strano concetto questo, per cui l’innocenza presunta di cui ognuno di noi s’ammanta si erge a giustificazione morale di ogni delirante piano totalitario. L’idea di non essere un assassino a fare da pilastro alla pena di morte. Ma tralasciando: la Tessera si otterrà previo consenso delle locali Questure. Non potrà ottenerla nessun tifoso che, negli ultimi cinque, otto o dieci anni (poi, le interpretazioni sono tante) sia incappato nella giustizia dei tribunali per “reati da stadio”. Anche se la diffida è già stata scontata. Anche se al diffidato è poi stata riconosciuta l’innocenza in giudizio. Non c’è bisogno di commenti. La doppia, tripla punizione, special guest La Beffa, non dovrebbe essere un cardine del nostro sistema giudiziario. Accanirsi su un soggetto che ha scontato la propria pena impedendogli l’eventuale “riabilitazione” è – o dovrebbe essere – contrario al nostro spirito delle leggi. Eppure, quando la categoria è malvista o avvolta nel mistero, questo non solo succede. Ma viene preceduto e seguito da un’onda lunga di silenzio. Come all’epoca del rimpatrio forzato dei rom rumeni all’indomani dell’omicidio Reggiani. La società civile, troppo “sotto schiaffo” per sostenere l’innocenza collettiva degli zingari (visto che i reati sono individuali finché non si prova un’associazione a delinquere, e quando questa si ipotizza su caratteri etnici, di solito, si chiama pulizia o pogrom) in periodi di grosso pathos securitario; troppo distante dal mondo delle curve – di cui conosce solo gli echi televisivi – per accollarsi la causa degli ultras. “Ci sono cose più serie a cui pensare”. Come se la libertà degli ultras fosse diversa dalla libertà tout court; come se fossimo riusciti a capire, in anni di applicazione e dedizione, a quali cose più serie questi stiano sempre a pensare. Fatto sta che un gruppo ultras si basa sulla fratellanza, la solidarietà, la collettività. E se in un gruppo ci sono degli ex-diffidati, se in una curva ce ne sono (e sicuramente ce ne sono), allora anche per gli altri non ha senso mettersi in fila e farsi fotografare per varcare le soglie dello stadio. Che resta, nonostante tutto, il luogo.

Eppure, ultimo ma non ultimo, il motivo principale del provvedimento ministeriale (che non ha pieno e compiuto valore di legge, giacché un qualsiasi laureando in giurisprudenza potrebbe, in poche ore, dimostrarne l’incostituzionalità), continua a sembrarci quello economico. In pratica, la Tessera è una amarissima torta millesfoglie.Un perverso gioco ad incastri. Un demo fatto a livelli. Ma sostanzialmente, il moto circolare è questo: la paura della gente, il pregiudizio, l’ansia securitaria pompata a dovere, che si tramuta in soldi. Soldi veri – e non bolle finanziarie – che entrano nelle casseforti degli Istituti di credito (che non a caso si scazzottano per accaparrarsi le piazze più consistenti), che diventano ossigeno per nuovi incendi speculativi, pane e linfa per i broker in crisi. E già! Perché le Tessere sono carte di credito prepagate – immaginatevi la goduria della Banca Popolare di Milano che potrà gestire la massa di neointeristi, della San Paolo dinanzi ai 200mila tesserati milanisti o ai 30 euro obbligatori per ricaricare la Card juventina – da utilizzare come tali per acquistare biglietti, comprare camogli in Autogrill o viaggiare in seconda classe con Trenitalia. E, da ultimo e quasi accidentalmente, per entrare allo stadio da abbonati. Operazione di marketing edificata sulla propaganda di Stato, limitazione dei diritti civili ad uso e consumo delle banche. E, in un prossimo futuro, persino laboratorio di ricerca della società del controllo, grazie alle sofisticate (e non ancora pienamente attuate) ricerche sui chip di localizzazione (Avvertenza: non è un film di fantascienza e noi non siamo affatto annoverabili tra quelli che credono al Grande Complotto planetario, né tanto meno ci siamo ancora bevuti il cervello con Voyager). Sempre con il pretesto intoccabile della crociata alla violenza, delle famiglie da riportare all’ovile (in cui non sono mai state), della sicurezza nazionale. Ma nelle pieghe della Costituzione c’è il germe che potrebbe fagocitare il caos. Ma ne riparleremo senz’altro. Per ora ci basti guardare dritto negli occhi coloro che – impegnati nella difesa dei topi da laboratorio e della madre terra, antagonisti da web o da corteo, sinceri democratici dirottati nella lotta all’usura, alla mafia, al racket, o semplici antiberlusconiani da macchietta, loggionisti disposti a farsi saltare in aria contro i tagli all’Opera – ritengono questa questione “poco seria” per essere degna del loro impegno: Rifletteteci. Rifletteteci bene, prima di gettare la spugna “con gran dignità”. La libertà è una e si regge su reticolati complessi. Se comincia a scarseggiare alle porte degli stadi, le connessioni ne risentono per forza di cose. È la fisica. E funziona così, anche se non avete mai sventolato un bandierone di 10 metri quadrati o non capite niente del fuorigioco a centrocampo.

Plebe Foggia