La svolta autoritaria arriva all'Università

di E.Cozzo

Utente: Yuri libero
30 / 10 / 2009

L'altro ieri il consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge di riforma dell'università.

Giornali e televisioni "se ne stanno occupando", dando molto risalto alle questioni del reclutamento.
Leggendo le linee guida e il testo riassuntivo della legge, si resta subito colpiti dalla retorica meritocratica ed efficientista che regge il testo. Quasi si esulta.
Ma vediamo un po' di cose. Bisogna subito dire che sono stati molto bravi a recuperare alcuni dei punti su cui si insisteva durande l'autunno scorso: soprattutto per quanto riguarda la questione valutazione e reclutamento. Inoltre, il fatto di aprire il testo con l'obbligo per le università di redigere un codice etico sulla gestione (parentopoli etc.) è un colpo ad effetto in puro stile giustizialista all'italiana.
Insomma, se riescono ad attuarla, da questo punto di vista rappresenterebbe davvero un duro colpo ai molti centri di potere, più o meno mafioso, annidati nell'università. Che poi questi sappiamo bene  che verrebbero sostituiti da altri, cambia poco.
Devo dire che, personalmente, godo un po' nel veder soffrire certe baronie.
Ma veniamo alle cose serie.

Il nodo cruciale è la riforma della governance. Una vera svolta autoritaria.
Tutti i sistemi di partecipazione (formale) e di controllo (formale) ottenuti dalle mobilitazioni dello scorso trentennio saltano. Il modello di università che questo testo propone per imporre è il modello di stato che la destra populista al governo sogna.
Una miscela populista-manageriale. Un uomo solo al comando, con uno staff tecnico plenipotenziario. Al senato accademico, drasticamente ridotto nelle sue componenti, non resterà che un ruolo di indirizzo vago delle attività dell'università. La gestione economica e finanziaria sarà nelle mani del cda, composto per lo più da tecnici professionali, che si troverà quindi nella possibilità di disegnare da solo le linee strategiche degli atenei.
Per chi, come me, vedeva nelle strutture di rappresentaza un esperimento decisamente fallito si tratta di un'occasione imperdibile per tornare all'attacco. Ma anche per chi ha creduto e crede che la rappresentaza sia stata ed è uno strumento utile, questo piano dovrebbe essere quello centrale.
Aprire il dibattito sulla questione della governance sta a noi. Ed è un piano che ci permetterebbe anche di smarcarci facilmente dall'abbraccio mortale sempre in agguato di baroni e centri di gestione occulta del potere.
E di evitare di non essere compresi e soccombere davanti alla retorica meritocratica.
Aprire il dibattito pubblico sulla governace significa poter parlare di autogoverno dell'università in relazione con le comunità territoriali su cui insiste.
Possiamo smetterla coi tecnicismi di reclutamento e didattica, ed andare al cuore del problema. E magari riuscire a coinvolgere altri soggetti sociali, che di un'università aperta potrebbero beneficiare.
È arrivato il momento, credo, di iniziare a discutere di questo e di immaginire e praticare le possibili istituzioni di autogoverno dell'università. Un punto che l'anno scorso abbiamo colpevolmente tralasciato. Lasciando vuoto lo slogan "tutto il potere all'assemblea".
È una questione di autonomia e di libertà questa volta.


Il modello manageriale e di direzione gerarchica verticale ha fallito, generando la crisi più dura degli ultimi 80anni. Ha fallito in ogni campo in cui è stato adottato nell'era del delirio neoliberista: dalla gestione internazionale a guida imperiale USA, al mondo della finanza, a quello dell'economia. Ha fallito e sta trascinando tutti noi nel suo crollo per salvare chi ne ha beneficiato.
E ora lo si vuole esportare nella gestione dell'università. Verniciandolo con una retorica oscenamente meritocratica e affiancandolo al modello autoritario-populista della destra arrogante al governo.
Come minimo, il modello di governance che si vuole imporre all'università con questa riforma è arretrato di vent'anni rispetto alla storia e alla realtà. È come minimo schizofrenico pensare di rinnovare l'università adottando un modello che si sta abbandonando in qualsiasi altro campo.
Questa generazione di vecchi falliti deve smetterla di creare disastri.

Ma non possiamo commettere l'errore di rimanere ancorati a modelli obsoleti, quali quelli esistenti. Non possiamo volere un'università feudale, alla mercé dei deliri di potere di prime donne e baronie che in tutti questi anni l'anno usata come se fosse un bene privato di loro esclusiva pertinenza.
Un'università autogestita e aperta a tutto il corpo sociale che l'attraversa è la risposta sperimentabile. Un'università bene comune è l'alternativa a baronie e privatizzazione.
Autogestione e cooperazione sociale sono le pratiche che in ogni campo, dalla produzione alla gestione, si stanno dimostrando non solo come le più giuste, ma anche come le uniche in grado di evitare le catastrofi a cui stiamo assistendo.

Dobbiamo immaginare e costruire un'università sullo stile delle comunità di software open-sorce: una rete di soggetti paritari che opera a partire da una riserva comune si saperi e mezzi, il cui prodotto è accessibile a tutti e pronto per integrare altri progetti aperti di produzione tra pari.
Un'università aperta ai flussi di pratiche e saperi del territorio su cui insiste, con un bilancio equo e dinamico tra le risorse che sfrutta e quelle che crea.
Un'università gestita da tutti i soggetti sociali che la compongono, in cooperazione con quelli che le ruotano attorno, che la sostengono e che insistono sui suo prodotti.

Il modello aperto, autonomo, orizzontale ed autogestito è l'alternativa antidistopica all'università autoritaria della crisi che stanno inaugurando.