È necessario rifiutarsi di obbedire alla violenza vigliacca di chi colpisce e imprigiona i corpi per impedire alle idee di camminare

La decenza di osare la speranza

L'amore si fa, non si dice

9 / 7 / 2009

A Vicenza io avevo il casco e stavo in prima fila. La polizia ha cercato di sequestrarlo, a me e ad altre 200 persone, al casello dell'autostrada.

Dicevano che è brutto per loro vedersi di fronte centinaia di persone con il casco. Capiamo perfettamente la sensazione, abbiamo risposto: non solo ci capita sempre, ma in più quelli con il casco hanno anche manganelli, pistole, scudi, blindati e gas tossici.

Dicevano che non è accettabile che in manifestazione ci siano centinaia di persone non riconoscibili. Siamo perfettamente d'accordo, abbiamo risposto ancora: è increscioso che nessun carabiniere e poliziotto, quelli armati e col casco di cui sopra, abbia alcun segno indentificativo.

Non restava molto da dirsi a quel punto: in realtà non eravamo d'accordo su nulla, parliamo lingue troppo differenti.

Noi dicevamo dignità e loro rispondevano obbedienza; loro parlavano di ordine e noi replicavamo libertà; noi vivevamo comunità e loro imponevano legge; noi diciamo godere e i loro mandanti gridano consumare; noi amiamo condividere e i loro mandanti bramano privatizzare.

Io avevo il casco e allora me lo sono tenuto stretto perché sapevo che di fronte a me avrei trovato centinaia di persone non riconoscibili con il casco anch'esse, nero, grigio o blu puffo, armate di tutto punto e che avrebbero cercato di fermarmi e fermare le mie idee sfruttando vigliaccamente il fatto che ho un corpo che prova dolore e che può morire.

Non potrebbero fermarci altrimenti, e anche così ci riescono solo per poco e per pochi metri.

Sarò pure vigliacco ma non bramo di provare quel dolore e vorrei che questo corpo restasse integro: me lo godo e mi serve, a tante cose, fra le quali anche ribellarmi e riprendere, insieme ad altri corpi, gli spazi invasi dalle basi di guerra. Lo vorrei fare ridendo e ballando, facendo all'amore e cantando, rotolandomi sui prati e godendone i profumi. Ma altri si oppongono a che i nostri corpi si godano tutto questo.

Oso pensare che ciò non sia una colpa nostra e che non dobbiano espiarne il fìo.

Ho un cervello dentro a questa testa che si può rompere, e per quel che vale mi serve a tante cose: prima fra tutte a pensare me stesso in relazione di fratellanza con altre e altri, in una libera comunità che si è scocciata di pagare con la propria vita presa in ostaggio le ricchezze di pochi.

Ho un cervello per pensare ed un cuore per amare la vita, mia e degli altri e ci tengo a tenermeli in buona salute.

Ma questo non mi impedisce di metterli a rischio per difendere ciò che penso e ciò che amo: non farlo sarebbe la vera vigliaccheria; non posso permettere che la violenza di quei vigliacchi fermi il mio corpo per impedire alle mie idee di camminare.

Non potrei non difendere ciò che penso e ciò che amo: non potrei se volessi e non vorrei se potessi, altrimenti non amerei più ciò che penso e non penserei più veramente a ciò che amo. Lo difendo con il corpo tutto e non solo con il cervello e il cuore: l'amore si fa e non si dice e basta. Difendere la terra dalle basi di guerra è farlo, insieme alla mia gente.

Un cervello ed un cuore, come potrei separarli dal resto del corpo? Se il cervello pensa e il cuore ama, il corpo si muove. Non conosco altro modo, né mi interessa esperire un corpo separato dal suo cervello e dal suo cuore.

Li proteggo come posso: un casco, un velo di plastica, un fazzoletto bagnato di acqua e bicarbonato. Chi dice che così sono “armato” è un miserabile pezzente, perché privo di cervello e di cuore. Una simile torsione del senso, del linguaggio e della verità non meriterebbe altra risposta che un dignitoso silenzio. Eppure serve parlare perché è necessario trasmettere questa esperienza, questa realtà, a chi non l'ha vissuta, a chi ancora crede davvero che sia possibile fare diversamente.

Non è colpa nostra se il teatro democratico è definitivamente saltato, se mai ha funzionato (e ciò che è detto osceno diventa quindi veramente democratico). Non è colpa nostra se ogni via di autonomia e partecipazione viene chiusa per superiori ragioni di stato o di impero. Le decisioni sono già prese, dicono per ogni cosa: Chiaiano, la tav, il no dal molin, il nucleare, ogni cosa. Da chi e per chi non è dato sapere. Non è dato sapere di chi sia la sovranità e dove essa stia, se risieda ancora sulla terra o stia in qualche non-luogo dell'impero.

È colpa nostra forse?

L'unico gioco democratico che resta agibile è l'assenso. O l'assenza. Si può solo applaudire. O farsi da parte quando la polizia con i suoi manganelli, i suoi blindati, le sue pistole e i suoi uomini non riconoscibili comunica che la decisione è già presa e che ogni altra strada, tranne la ritirata, è preclusa.

Ebbene, noi giochiamo all'assenza di assenso. Non ce la sentiamo proprio né di assentire a tutto né di essere assenti ogni volta.

Allora con il coraggio e l'entusiasmo proprii dei grandi cuori e dei grandi slanci ideali, i corpi avanzano perché non rimane che liberare lo spazio occupato, quello fisico, reale, dove i corpi vivono, soffrono e subiscono l'oppressione e la repressione quotidiani. Così come altrove altri corpi soffrono gli orrori che conseguono da una base di guerra. Corpi vivi, come i nostri, non corpi de-menti che pontificano distaccati dai luoghi del reale, lasciando accadere ogni e qualsiasi cosa per la paura di macchiarsi di una astratta violenza, praticandone quindi una molto reale, come il lasciar accadere che è altro non è se non collaborare con l'orrore.

Benvenuti nel paese delle meraviglie, dove si osa la speranza.