Contributo alla discussione sul g8 di l'Aquila da Roma

La crisi della mappa

Riflettendo come uno specchio

28 / 7 / 2009

di Corto Eisnero, un surfista

«Quando uso una parola», Humpty Dumpty disse in tono piuttosto sdegnato, «essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno.»
«La domanda è», rispose Alice, «se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi.»
«La domanda è,» replicò Humpty Dumpty, «chi è che comanda – tutto qui.»

                                     (da Alice attraverso lo specchio)

Devi lasciarti tutto dietro, Neo. Paura, dubbio, scetticismo. Sgombra la tua mente.

                                                       (Morpheus in Matrix)

A l'Aquila non c'ero. Ma questo ha poca importanza. Non c'ero perchè impegnato a rintracciare sulla mappa i nodi della crisi a me più prossimi. Una mappa disegnata con la matita, nelle pause rubate al lavoro e allo studio, a valle di interminabili assemblee. Tra mappa e realtà, si sa, la corrispondenza non è mai uno-a-uno, ma ero sicuro che qualche corrispondenza l'avrei trovata con i disegni scarabocchiati dai compagni. Questo perchè, se la resistenza deve essere territorialmente radicata, allora modi di vita e desideri non possono che esseri comuni.

Strane giornate. Piccole anomalie, che alludevano a una crisi globale, che svelavano (o ci provavano) i nodi cruciali, gli “epicentri” della catastrofe economica e finanziaria. Azioni diffuse, “gi-otti” senza frontiere, l'europa che brucia e l'attacco diretto alla speculazione da parte di chi subisce la crisi, di chi sta alzando la testa, di chi produce un processo di messa in comune delle vite, contro chi progetta giorno per giorno la loro privatizzazione. Nasce la mappa della crisi, l'immagine reale della conflittualità in campo, non più agita da residui militanti, ma da una massa ancora informe, che tira su lo sguardo e progetta una costruzione comune del proprio presente.

Oggi però parliamo di crisi della mappa. Parliamo della crisi del progetto che avevamo immaginato insieme, un'impostazione teorica e di interpretazione che convinceva tutti, e che di fatto non è esistita.

Oggi parliamo dei limiti che abbiamo sperimentato, al di là di appartenenze e di identità politiche. Oggi parliamo dei confini, affinchè essi siano costituenti ed elemento di forza dirompente, piuttosto che di speculazione politicante e di definizione di appartenenza.

Oggi parliamo di noi stessi, un noi dinamico e tutto da inventare, sulle macerie dell'esperienza di genova e del novecento, sul bilico di un orizzonte inesplorato, sapendo bene di non avere nulla da perdere.

Se la crisi è totale, la risposta deve essere all'altezza. Il meccanismo che costruisce il g8 è un meccanismo in crisi anch'esso, rinchiuso nell'autorappresentanza e nella costruzione mediatica di otto grandi assolutamente capaci di gestire la situazione, di saper dare risposte, soprattutto, di starle cercando. Invece, la crisi lentamente diventa, globalmente, modello di governance sociale permanente, soluzione (capitata scientificamente) che permette l'approfondimento del controllo e del dominio sociale diffuso. Per rispondere a questo, da più di un anno si sono intessuti movimenti sorprendenti, mobilitazioni oceaniche, rabbia diffusa, ripresa di parola da parte dei soggetti sociali più che delle loro rappresentanze. L'OndaAnomala, i movimenti per i beni comuni, l'AteneInsorgente, Londra e l'assalto alla city, le banlieues parigine. La crisi globale subisce un'attacco generalizzato dal basso, per lo più autorganizzato, che pretende (e spesso pratica direttamente) autodeterminazione, costruisce autogoverno. Il nostro g8 era esattamente questo: una mappa della crisi globale: contro chi – in otto – si riunisce costruendo una facciata mediatica, i movimenti insorgono per le strade d'europa, si riprendono gli spazi, costruiscono e si prendono i propri diritti, costruendo – de facto – la via di fuga autonoma dalla crisi, quella condivisa e diffusa, quella del comune.

Ma, come dicevamo, oggi parliamo di crisi della mappa. Questo g8 ci ha consegnato uno scenario di debolezza diffusa, a volte di miopia, altre volte di vera e propria cecità. Roma si è fatta carico di costruire la propria mappa della crisi, isolata e solitaria in tutta la penisola. Una costruzione difficile, complessa, controversa, che ha pagato anche l'inedia delle altre città, degli altri movimenti. Se roma costruiva azioni, le altre città dormivano il sonno “dei giusti”, dopo la costruzione del corteo di vicenza. L'immagine diffusa è quella di un movimento stanco, obbligato a doversi interrogare su cosa significa, profondamente, radicamento locale, su come l'annichilimento del baricentro spostato verso i militanti coincida con la capacità vera di costruirlo sul tessuto sociale, tutto da intercettare. La crisi della rappresentanza, da noi agita e brandita, ci ha colpito in pieno volto.

Vicenza è stata l'unica tappa, italiana, sul quale abbiamo puntato. E' stato il nostro g8. E lo è stato sino al punto da rendere un retrogusto spettacolare alle discussioni pensate precedentemente, alla mappa della crisi e all'azione diffusa contro la rilocalizzazione del potere. L'enorme limite è stata la scommessa mancata di pressoché tutti i movimenti italiani dentro la mappa della crisi. Davanti a questo dato politico è forse inutile ragionare sulla legittimità del corteo a l'Aquila il 10 luglio, piuttosto che di altro. L'impalcatura politica che avevamo immaginato, non è esistita. La mappa della crisi, tranne che a roma, non si è data. Di fatto, abbiamo consegnato un g8 che non è stato la presa di parola diffusa e potente dei movimenti, ma una sottospecie – per alcuni – di canto del cigno strozzato, per altri una comoda sottrazione davanti la realtà: una realtà che ci riconsegna le stesse domande dalle quali siamo partiti, appunto sulle macerie della globalizzazione ultraliberista e dell'antagonismo ad essa. Radicamento locale, costruzione del comune, superamento dei modelli e delle categorie interpretative, distruzione delle vecchie forme della politica dal basso (la guerra delle aree politiche), la produzione di ragionamenti fondati sull'esperienza pragmatica e sul confronto con la realtà, e non sulla base di ideologie. I conti con un innovativo metodo induttivo, piuttosto che lo stantio deduttivo. La costruzione del movimento 2.0 è terreno di sperimentazione costante che guarda al sindacalismo metropolitano e ai movimenti per i beni comuni, alla costruzione di spazi elastici e agevoli, alla capacità incisiva di presa di parola pubblica e soprattutto di segnare profondamente i rapporti di forza piuttosto che lo stato reale dell'esistente. Un terreno di cui nessuno detiene la formula che funziona, ma che – a vario livello – si sta dando, e che molti di noi devono ancora intuire nella sua interezza e potenza, soprattutto nei suoi confini geografici.

Costruire e organizzare la nostra lotta significa saper trapassare lo stantio e il non funzionale, preservare l'utile, e ragionare sul mancante. Significa mettersi in discussione rabbiosamente, in continua sperimentazione, strutturalmente non-concludente, certi una buona volta che non ci sia una teoria buona ma solo buone teorie. Perchè esiste solo un mondo comune da costruire.

Questo g8 è stata una dimostrazione di debolezza, una cartina di tornasole delle difficoltà che stiamo vivendo in un momento di cambiamento. Non conta come movimenti oramai forti e capaci – come l'OndaAnomala – stiano costruendo i propri sentieri di fuga, si tratta di capire come questo modello – così capace dentro le università in/della crisi – diventa la chiave di organizzazione del presente per i movimenti, come diventa l'asso nella manica che permette di conquistare una nuova stagione di diritti già dall'oggi. “Camminare domandando” dicono gli zapatisti.

Qui non conta quanto sia arretrato il patto di base piuttosto che avanzato l'interpretare quella mobilitazione. Si tratta di capire come noi tutti avremmo potuto costruire quelle giornate, dando il massimo e il meglio dalla forza che costruiamo giorno per giorno nei nostri territori.

Sarebbe stato un g8 migliore se le discariche di Chiaiano quel giorno fossero state assaltate, piuttosto che i cantieri della noTav. Sarebbe stato un g8 migliore se su l'Aquila ci fosse stato più investimento collettivo e meno delegittimazione, lo sarebbe stato soprattutto se qualcuno avesse avuto la capacità – al minimo – di essere megafono reale di quella realtà ponendosi il problema della partecipazione aquilana diffusa a quel corteo, piuttosto che quello della necessità di apparire. Sarebbe stato un g8 migliore se la mappa della crisi fosse stata una scommessa di tutti, a partire dagli stessi sindacati (soprattutto quando provano a ragionare di sindacalismo metropolitano) ma anche e soprattutto di tutti i movimenti. Sarebbe stato un g8 migliore se a Bologna, Padova, Torino, Palermo, Firenze, Napoli e ovunque in quelle giornate banche, case assicurative, cantieri, case vuote, scuole fossero state sanzionate dal basso come epicentro della crisi, come i simboli della shock economy.

La mappa della crisi è stata una scommessa interessante e soprattutto pericolosa: la dislocazione della mobilitazione, infatti, avrebbe funzionato solamente nel momento in cui realmente esistevano molteplici nodi di questa mappa. La sua efficacia in termini di conquista e di lotta – invece – sarebbe stata vanificata con un soffio se questi nodi non fossero esistiti, consegnandoci una mobilitazione contro questo g8 scarna e inefficace, di fatto inesistente, che avrebbe permesso a molti di cantare le lodi del caro vecchio controvertice. Il caso, purtroppo, è stato il secondo.

In ogni caso, nessun rimorso.

Si tratta però di spostare il dibattito sulla capacità di messa in campo dei movimenti, e scommettere – di nuovo – sul futuro. Credendoci e investendoci - questa volta di più - tutti quanti.

Ci rivediamo nelle strade!