15 ottobre: oltre la zona morta

19 / 10 / 2011

Molti di quelli che hanno partecipato alla mobilitazione del 15 ottobre avevano la sensazione che  lì si sarebbe situata una cesura rispetto a una fase lunga che abbiamo alle spalle. Forse è stato così, anche se in modo diverso da come tutti avevamo immaginato.

E’ superfluo ripetere cosa è successo,  come una minoranza abbia potuto espropriare una fiumana interminabile di persone dal  raggiungimento di un obiettivo politico. Quale sia l’ obiettivo politico mancato a Roma lo si può vedere bene  scorrendo le cronache delle manifestazioni del Rise up che hanno costellato le capitali europee e mondiali; o perfino guardando l’effetto prodotto sulla scena politica americana  – quanto di più chiuso e autoreferenziale possa darsi come sistema politico in Occidente – dal movimento “Occupy Wall street”: un dito nella piaga purulenta del finanzcapitalismo globale capace di silenziare per un giorno persino i potentissimi megafoni del Tea party.

Ovunque quell’obiettivo è stato raggiunto; a Roma invece è stato stracciato in poche ore dalle ossessiva ripetizione seriale a uso mediatico e politico dei set di violenza metropolitana del 15 ottobre. Niente che ricordi la furia cieca, prepolitica dei moti delle banlieue parigine o dei riots inglesi, piuttosto le falangi impazzite – ma con metodo e organizzazione-  di una grande mobilitazione di massa. La quale era, di fatto, anche la chiamata a raccolta delle insorgenze sociali e collettive che hanno segnato a un tempo una ripresa di parola della società italiana e uno scarto secco rispetto all’ipnotico refrain del discorso pubblico pro, di o contro Berlusconi diversamente declinato.

Il rifiuto della violenza è qui una premessa  che muove dal piano antropologico prima ancora che politico; ed è precondizione di ogni ragionamento, anche del più articolato e dialettico. La violenza corrode e liquefa la materialità delle relazioni e scioglie il discorso politico in un magma indistinto e inefficace; ma la violenza può essere anche la verità rovesciata della politica.

E dunque non si può sfuggire alla necessità di situare  dentro un quadro critico le gesta del Blocco nero, come sommariamente viene chiamato. Intanto non si tratta solo di un’eccedenza, di nuclei che sbagliano sui mezzi e sulle pratiche e si collocano a lato del movimento. Se così fosse, sarebbe sufficiente produrre un gesto di allontanamento di queste frange come altro da sé: il gesto di rifiuto verso il Blocco nero  ha percorso quel corteo come sa chiunque ci sia stato: quella divaricazione peraltro va esplicitata in un confronto aperto e pubblico. Ma il punto di riflessione deve riguardare come si produce, oltre e in aggiunta a quel distanziamento,  il disincaglio dalla zona morta in cui è stato condotto il movimento.

Si tratta intanto di capire come e perché quelle pratiche  hanno attraversato materialmente il gigantesco corteo del 15 ottobre, e soprattutto di come prefigurano un esito che, se si producesse fino alle sue estreme conseguenze, invererebbe il timore della dissoluzione della sovranità democratica dei popoli europei dentro la tenaglia della crisi. La facile profezia è che il golpe liberista evocato dalla lettera della BCE si materializzerebbe nel dopo-Berlusconi in un governo socialmente e politicamente irresponsabile capace di produrre lo svaporamento della sovranità popolare che fonda la democrazia repubblicana, che -  è bene ricordarlo – è ancora il nocciolo duro che  può fondare la resistenza al progetto di governance ultraliberista della BCE. L’estremizzazione delle minoranze e il silenzio a cui sarebbe ridotta la maggioranza assoluta di chi si oppone a questa deriva rappresenta la precondizione di questa possibilità.

Insomma, quella della ribellione violenta e/o nichilista è un linguaggio e insieme una pratica politica da avversare ma è anche un frame che si inscrive una parabola pericolosa che tuttavia si può ancora arrestare. Se è così, la questione che abbiamo di fronte a noi è come  costruire sulle macerie del 15 ottobre un discorso di risoggettivizzazione del movimento. Non sarà possibile fare questo, però, se non si riconosce che dobbiamo partire dall’interno per riarticolare un percorso analitico e strategico. E’ di obiettivi e percorsi politici dunque quello di cui dobbiamo parlare.

Per questo è necessario uno scarto rispetto al colpo di controbalzo indotto dalla secca sconfitta politica del 15 ottobre. Se il potere si riorganizza esso stesso come controviolenza preventiva, come insegna Etienne Balibar, si tratta innanzitutto di non cadere nella trappola di questa controviolenza preventiva attrezzata ad arte già fatta propria da settori politici contigui o interni allo schieramento politico di alternativa.

Rimettere in connessione il soggetto sociale dell’Alternativa autoconvocatosi nelle strade di Roma il 15 ottobre con l’obiettivo e la pratica del cambiamento e ricostruire l’ordine del discorso stroncato dalle pratiche nemiche di questo obiettivo messe in scena il Blocco nero è l’urgenza immediata che bisogna darsi. Perché l’errore più grave che possiamo commettere è quello di aiutare a produrre ancora una volta una frattura tra le dinamiche di una presunta razionalità politica da un lato e dell’oscurità del sociale dall’altra, assegnando poi di conseguenza a ognuno ben chiuso dentro i rispettivi recinti i ruoli e gli spartiti.