Elezioni in Turchia, Erdogan sconfitto: all’opposizione Istanbul, Ankara e altre grandi città

Dopo la vittoria alle presidenziali dello scorso anno, il Sultano e il suo Akp perdono le amministrative. Imamoglu riconquista la metropoli sul Bosforo affermandosi di fatto come leader dell’opposizione. Il presidente turco ammette la sconfitta: "Non abbiamo ottenuto ciò che volevamo". Per Ozgur Ozel, segretario del Chp, si tratta di un "risultato storico"

1 / 4 / 2024

Ankara, İstanbul, poi Smirne e ancora Adana, Mersin e Bursa. Una macchia rossa, repubblicana, di tradizione kemalista che consegna al presidente Erdogan e al suo partito islamo-conservatore, l’Akp, una débâcle alle elezioni amministrative di domenica, forse la più pesante e significativa nei suoi oltre vent’anni al potere.

Il Chp ha conquistato 14 grandi città e 21 province, mentre il partito di governo ha vinto in 12 aree metropolitane e 12 province. In totale, secondo l'agenzia di stampa Anadolu, il CHP ha ottenuto il 37% dei voti a livello nazionale, rispetto al 36% del partito del presidente, segnando la più grande vittoria elettorale del CHP da quando Erdogan è salito al potere due decenni fa.

Nel Sud-Est a maggioranza curda vince quasi dappertutto il partito DEM, sigla che raccoglie l'eredità del partito HDP - i cui dirigenti sono stati in gran parte da tempo arrestati con accuse non sempre convincenti di contiguità con il PKK. Oltre alle tre grandi città del Kurdistan settentrionale: Amed, Mardin e Van, il DEM vince in 77 municipalità, 12 in più rispetto alle elezioni del 2019. Questo nonostante la pratica, più volte denunciata dall'opposizione curda, di far votare nelle municipalità del Kurdistan soldati e poliziotti lì di stanza ma residenti in altre province, o di consentire ai sostenitori di Erdogan di votare più volte.

Erdoğan ha cambiato la Turchia, ora è la Turchia che cambia - e gli fa traballare il terreno sotto i piedi. La sconfitta più dolorosa è forse la riconfermata perdita di Istanbul, già nelle mani dell’opposizione dal 2019, che lo colpisce sul piano personale: città di 16 milioni di abitanti dove è nato e cresciuto e dove ha iniziato la sua carriera politica come sindaco nel 1994.

"Miei cari abitanti di Istanbul, oggi avete aperto la porta a un nuovo futuro. A partire da domani, la Turchia sarà una Turchia diversa. Avete aperto la porta all'ascesa della democrazia, dell'uguaglianza e della libertà... Avete acceso la speranza alle urne", ha detto così Ekrem Imamoğlu, la stella nascente del panorama politico turco, ormai spina nel fianco di Erdogan e, a questo punto, più che probabile futuro sfidante alle presidenziali del 2028. 

Nonostante il suo nome non comparisse sulla scheda elettorale, come di consuetudine Erdogan ha condotto personalmente la campagna elettorale, candidando ministri e uomini di sfiducia e sguinzagliando le bande del suo partito in tutto il paese in cerca di convincere, spesso anche con metodi difficilmente definibili democratici, l’elettorato indeciso e spaesato dalla continua e costante crisi economica galoppante. 

In un discorso sommesso rivolto a una folla assiepata fuori dalla sede del suo partito ad Ankara, Erdoğan ha elogiato il voto in sé piuttosto che il risultato. "La vincitrice di queste elezioni è innanzitutto la democrazia", ha detto. "Purtroppo non siamo riusciti a ottenere il risultato che volevamo nelle elezioni locali... Tutto accade per una ragione. Ricostruiremo la fiducia nei luoghi in cui la nostra nazione ha scelto qualcun altro".

Il voto è stato visto come un barometro della popolarità di Erdogan, che ha cercato di riconquistare il controllo di aree urbane chiave che ha perso a favore dell'opposizione nelle elezioni di cinque anni fa. La vittoria del CHP ad Ankara e Istanbul nel 2019 aveva infranto l'aura di invincibilità di Erdogan, queste elezioni confermano che in Turchia si vuole scrivere una nuova storia di quel paese custode del Bosforo.

La crisi economica, l’inflazione, la mancanza di aiuti e gli interventi limitati durante e dopo il terremoto sono solo alcuni dei problemi enormi che attualmente affrontano i cittadini turchi. 

L’aumento generalizzato dei prezzi continua a erodere potere d’acquisto e a impattare negativamente sugli standard di vita della popolazione, soprattutto dei ceti medio-bassi. Sullo sfondo delle crescenti difficoltà economiche, in cui cresce il malcontento, arriva un chiaro segnale di crisi al presidente turco, non solo per quanto riguarda la politica interna ma anche quella estera.

Quanto è vero che le elezioni amministrative sono sempre state un termometro per misura il gradimento delle politiche dell’Akp e, allo stesso tempo del gradimento del presidente, non va dimenticato il ruolo strategico che la Turchia di Erdogan ha saputo costruirsi negli ultimi vent’anni. Con molto acume politico e con un pugno di ferro difficilmente contrastabile, Erdogan ha saputo ergersi a protagonista indiscusso dell’area dove non si muove nulla, dal Caucaso al Mediterraneo e dai Balcani al Corno d’Africa, senza il suo parere o coinvolgimento. È innegabile che il “peso” geopolitico della Turchia è, e rimane, ingiocabile. 

Dal controllo dei flussi migratori verso l’Europa, alla guerra tra Russia e Ucraina, alle sempre più imponenti infiltrazioni politiche ed economiche in Libia e in tutto il Corno d’Africa, la Turchia personalizzata nella figura del suo Presidente detiene un ruolo e un’importanza che è difficile da sottovalutare e quantomeno improbabile da scalzare. 

Un ruolo però segnato da tutta una serie di ambiguità che rendono la Turchia sostanzialmente inaffidabile per qualunque interlocutore: paese NATO ma dialogante con Putin (senza riuscire a concretizzare il ruolo di mediazione nel conflitto ucraino a cui ambiva), uno dei più importanti partner commerciali di Israele e al contempo guidata da un governo che cerca di strumentalizzare a proprio vantaggio la tragedia dei palestinesi, una politica estera in bilico tra “interesse nazionale” (cioè interesse della borghesia turca) e sostegno a vari partiti e movimenti islamisti. Queste ambiguità sono state finora un punto di forza di Erdogan, ma forse esprimono ormai solo la debolezza di un paese che non sceglie e che non ha un progetto chiaro, né una chiara visione del proprio futuro. Per certi versi la Turchia di Erdogan sembra assomigliare alla Germania di fine era-Merkel: un paese indeciso, la cui politica di potenza è finita nelle secche della mancanza di strategie a lungo termine.

Il risultato delle elezioni di domenica 31 marzo rimane, e con esso rimane un primo segnale di volontà di cambiamento. La palla ora passa ai sindaci ed amministratori neo-eletti che dovranno in primis dimostrare una cesura con il passato, ovvero un cambiamento di passo politico ma soprattutto sociale, che permetta alla società turca riscatto che si rende quanto mai fondamentale dopo 20 anni di governo nazionale e locale in cui le tematiche di discussione si sono quasi sempre legate alle faccende personali del Presidente e del suo entourage. 

Una prima volontà di cambiare è arrivata dagli elettori, ora sta agli eletti coglierla e portarla avanti, essendo consci che nulla è per sempre, nemmeno il potere di Erdogan.

La buona notizia in fondo è questa: l’opposizione curda e turca esistono, la società civile e il movimento rivoluzionario esistono, i popoli dell’Anatolia per ora i sono dimostrati capaci di fermare l’ulteriore deriva dello stato turco verso un autoritarismo imperante.