Dopo il Seminario/Meeting Uniti contro la crisi - L'ambizione dell'alternativa

25 / 1 / 2011

Dopo la straordinaria due giorni di Marghera, potremmo lasciarci cullare dalla soddisfazione collettiva che ha invaso i luoghi del meeting, e che ha accompagnato ognuno nel viaggio di ritorno verso casa. Non è mica una cosa da niente, di questi tempi, poter essere soddisfatti di una scommessa politica e culturale che per noi si chiama “uniticontrolacrisi”.

Ma indugiare troppo su “quanto è stato bello” non ci è concesso: sarebbe come premere il tasto della pausa e trasformare un film appena iniziato in una fotografia: bellissima, ma ferma. Sia chiaro, non foss’altro per tutti quelli che si sono dannati per far riuscire tutto al meglio, la prima cosa è essere contenti, felici, di come è andata. Il numero delle persone che sono state “attratte”, e non cooptate o obbligate, a partecipare, è un fatto importante. La qualità di questa presenza, espressa non solo attraverso quasi duecento interventi, ma anche e soprattutto in un modo di stare insieme fondato più sulla pazienza che sulle pretese, animato dalla disponibilità e non sul pregiudizio, ha creato il “clima”. E’ opera di tutti quello che è potuto succedere: di un modo di pensarla, prima, questa occasione di incontro, e di come di essa ci si è collettivamente appropriati poi. Se la “pratica del comune” è innanzitutto “esemplarità” e non linea o modello, va da sé che Marghera segna una tappa di riferimento fondamentale.

La formalità rituale che queste cose si portano dietro, anche se uno non vuole, perché è difficile e complesso trovarsi in tante e tanti e discutere, prendere delle decisioni, essere aperti ma non vaghi, includenti e non ambigui, ha avuto come correttivo la fiducia reciproca. Un’altra cosa che, come la pazienza, non assume mai la dignità di categoria della politica, restando confinata nel recinto delle cose che si dicono per intendere il contrario. A Marghera no. L’abbiamo tutti voluta usare, la fiducia, in dosi massicce, come precondizione per poterci parlare, di nuovo o per la prima volta. E’ l’intelligenza collettiva che ci dice di fare così: la situazione che stiamo vivendo impone di mettersi sul serio a costruire una storia nuova, e se non ne sentiamo l’urgenza, o se pensiamo che per farlo basti allargare le nostre biografie di partenza, allora non c’è nulla da fare: non incontreremo mai nessuno in mezzo alla folla, e continueremo a chiederci perché la gente non capisce, e le cose non cambino mai. Abbiamo, dopo Marghera, iniziato un percorso di accumulo che deve diventare amplissimo: sensazioni, contatti, scambi, confronti, questioni, obiettivi, linguaggi. Tutto che concorre a costruire un sentire comune dove il rapporto tra singolarità e collettivo sia non solo possibile, ma visibile. E come diavolo dovrebbe fare ad esserlo? Il comune non è solo il rifiuto della privatizzazione, ma anche una evoluzione che arricchisce il concetto di “pubblico”: il discorso che abbiamo cominciato è immediatamente rivolto dentro di noi, alla soggettività che contribuisce a formarlo, e fuori di noi, ad una società intera. Ha l’ambizione dunque di essere una proposta di alternativa. A Marchionne e alla Gelmini, alla privatizzazione dell’acqua e al nucleare. Certo. Alle ingiustizie che costruiscono, tragedia dopo tragedia, la crisi e che la rendono, nel suo incedere senza uscita, insopportabile. Certo.

Ma anche un’alternativa a noi stessi, a come abbiamo fatto e pensato fino ad ora, a come abbiamo subito e ci siamo arresi. Sta in questo il grande interrogativo che ci siamo posti sulla democrazia, che ha attraversato ogni riflessione, ogni dibattito. E sulla politica, che come la crisi, pretenderebbe di risolvere i problemi riproponendo i meccanismi che li hanno generati, invece che tentare di superarli. La pratica del comune, un comune sociale che vive dentro le modificazioni epocali del lavoro, del suo divenire vita messa al lavoro, del suo essere espropriato di ogni diritto e ogni garanzia, e che vuole definire un comune politico capace di dire di no come a Mirafiori e di dire di sì come per l’acqua bene comune, di tracciare degli obiettivi che disegnino la traiettoria di un’alternativa al capitalismo della crisi e dello sfruttamento, è anche, un’alternativa al modo di rapportarci con la rappresentanza e la sua crisi. Senza delegare niente a nessuno, semplicemente perché la posta in gioco è ben più alta e ben più seria.

La crisi di questo paese, la delegittimazione delle istituzioni, la crisi della politica, devono diventare l’occasione, anche qui, di costruire una nuova storia, dove il protagonismo sociale delle lotte non sia affidato a chi lo dilapida in cose già viste e già sconfitte. Ci siamo lasciati con appuntamenti importanti: primo fra tutti il 28 gennaio, a fianco della Fiom. Non diamo per scontato che tutto sia semplice, e inventiamoci, ognuno e tutti insieme, come fare a far sì che ogni piazza, ogni presenza a sostegno di questa battaglia, diventi anche un contributo al “comune”.

Per far questo ci vuole l’umiltà di chi non ha nulla da insegnare e molto da offrire, di chi ha chiaro che parlare e farsi capire da decine di migliaia di persone in carne ed ossa, non è la stessa cosa che discutere tra amici di vecchia data. Ma siamo certi che con questo atteggiamento, anche le fabbriche diverranno luoghi dove gli studenti andranno a fare assemblee, e all’università i delegati operai non saranno come gli ospiti stranieri. Siamo convinti che di riconversione produttiva in senso ecologico cominceremo a parlarne con chi lavora dentro le industrie che inquinano, come di mobilità sostenibile con gli operai dell’auto.

Ma niente è facile o già fatto, e tutto dipende da noi, sia che siamo dentro la Fiom o in un centro sociale, sia che militiamo in un’associazione ambientalista o contro il razzismo. Ecco, Marghera è già passata, non abbiamo tempo. Il film riprende e nessuno ha ancora visto il finale.

Gianni Rinaldini

Luca Casarini