L’amministrazione Biden e la legge internazionale

23 / 4 / 2024

La versione originale in inglese di questo articolo è stata pubblicata da Jacobin.com. Traduzione di Emma Purgato.

Un Paese alleato degli Stati Uniti, dopo aver assistito al bombardamento israeliano del consolato iraniano in Siria e al raid al consolato messicano in Ecuador, starà probabilmente pensando: “Posso fare anch’io qualcosa di simile, dato che lo Stato più potente al mondo me lo lascerebbe fare.” Nell’“ordine internazionale basato sulle regole” che l’amministrazione Biden è sempre pronta ad invocare, quali sono esattamente queste “regole”? Sembra sempre di più che non ce ne sia nessuna.

Venerdì scorso (5 aprile 2024, NdR), la polizia dell’Ecuador – paese attualmente governato dall’estrema destra, appoggiata dagli Stati Uniti – ha fatto irruzione nell’ambasciata messicana nella capitale, Quito, con lo scopo di arrestare l’ex vicepresidente ecuadoriano Jorge Glas, che aveva trovato rifugio all’interno dell’edificio per evitare le accuse, secondo lui false, di corruzione. Durante il raid, la polizia ha fatto irruzione nell’ambasciata ad armi spianate, malmenando e buttando ripetutamente a terra il diplomatico Roberto Canseco, il funzionario di livello più alto presente nell’edificio. Tutto ciò durante l’arresto di Glas, a cui era stato formalmente garantito asilo dal governo messicano il giorno stesso.

Il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador (AMLO) ha denunciato l’accaduto dichiarando che “un governo non fa cose del genere se non sente di avere il supporto di altri governi o potenze”. Un’accusa non troppo velata agli Stati Uniti, i quali hanno rafforzato la cooperazione in materia di sicurezza con l’Ecuador a partire dallo scorso anno, in seguito all’elezione alla presidenza dell’ereditiere dell’industria bananiera Daniel Noboa, simpatizzante USA.

Nonostante il Dipartimento di Stato del presidente Joe Biden abbia dichiarato che “gli Stati Uniti condannano qualsiasi violazione della Convenzione di Vienna” e “prendono molto sul serio l’impegno dei paesi ospitanti… a rispettare l’inviolabilità delle missioni diplomatiche,” AMLO ha espresso il suo disappunto rispetto alla dichiarazione, da lui definita “molto ambigua” perché non ha condannato esplicitamente il raid, che nel frattempo ha generato un’ondata di riprovazione all’interno della regione e non solo.

Quanto accaduto in Ecuador si è aggiunto ad un’altra violazione ancor più grave, commessa da un governo appoggiato dagli Stati Uniti pochi giorni prima: il bombardamento israeliano contro il consolato iraniano in Siria. Questo attacco deliberato ha causato la morte di sette ufficiali militari iraniani, aumentando enormemente la probabilità di un’escalation e di un allargamento del conflitto militare nella regione.

Molti hanno fatto notare come questi atti rappresentino una palese violazione di secoli di norme diplomatiche e leggi internazionali. Nello specifico, si tratta di trasgressioni alla Convenzione di Vienna sulle Relazioni Diplomatiche del 1961, che il governo statunitense ha ratificato nel 1972, rendendola così parte del diritto americano. Questi accordi stabiliscono, tra le altre cose, che a nessuno stato è permesso di accedere o fare irruzione in nessun modo all’interno dell’ambasciata di un altro paese, senza l’esplicito permesso di quest’ultimo. Questo è il principio legale in base a cui la maggior parte degli stati – tra cui sia gli Stati Uniti che l’Iran – considerano gli edifici in cui hanno sede i loro consolati in terra straniera come equivalenti al loro territorio statale. In altre parole, un attacco all’ambasciata di un paese rappresenta un attacco diretto al paese stesso.

Si può pure dire che queste azioni sono sorprendenti, e definirle come oltraggiose violazioni che rischiano di riportarci a uno “stato di anarchia, in cui valgono le leggi della giungla”, come ha dichiarato un esperto. Tuttavia, per comprendere realmente quale limite è stato superato in questi casi, è necessario ricordare lo scrupolo con cui lo stesso principio è stato rispettato nel passato recente.

Nel 1984, dopo l’uccisione di una poliziotta inglese causata da colpi di arma da fuoco provenienti dall’ambasciata libica a Londra, il governo britannico di Margaret Thatcher e gli esperti conservatori di tutto il mondo hanno dovuto a malincuore osservare i colpevoli sfuggire alla giustizia, in nome del rispetto dei principi diplomatici. La polizia inglese ha dovuto attendere colma di frustrazione, mentre la Libia rifiutava le richieste di perquisizione dell’edificio e i diplomatici espulsi facevano uscire la probabile arma del delitto dal paese in valigie diplomatiche immuni ai controlli.

Tutto ciò è stato permesso dopo l’attentato all’aeroporto di Heathrow, eseguito da presunti terroristi libici leali al dittatore Muammar Gaddafi, e dopo che l’intelligence americana aveva rivelato che l’ordine di sparare dall’ambasciata era arrivato da Gaddafi stesso. Questo ci dà una misura di quanto seriamente sia stato preso l’impegno di rispettare le disposizioni della Convenzione di Vienna.

Tre anni dopo, come prezzo per l’osservanza delle leggi internazionali, il governo francese ha ingoiato un rospo simile. In quest’occasione, un interprete iraniano, ricercato per essere interrogato su una serie di attentati avvenuti a Parigi nel 1986, si è messo fuori dalla portata delle autorità rifugiandosi all’interno dell’ambasciata iraniana. Lo stallo si è poi risolto attraverso una trattativa, tuttavia l’intera questione – in cui il governo iraniano ha di fatto tenuto prigioniero il personale francese presente nell’ambasciata a Teheran – ha rischiato di trasformarsi in una crisi di ostaggi che avrebbe potuto compromettere la rielezione dell’allora Presidente Jacques Chirac.

Il caso analogo probabilmente più famoso è anche il più recente e, ironicamente, coinvolge anch’esso l’Ecuador. Si tratta dei sette anni durante i quali il fondatore di WikiLeaks Julian Assange ha trovato rifugio nell’ambasciata ecuadoriana a Londra. Nonostante l’evidente odio del governo britannico e di quello statunitense nei confronti di Assange e la loro ferma volontà di punirlo (come dimostrato dalla tortura da lui subita pero mano britannica e dai piani americani per assassinarlo poi trapelati), entrambe le potenze hanno dovuto semplicemente attendere che lui lasciasse l’edificio, anziché entrarci con la forza o bombardarlo e ridurlo in macerie.

Prendiamo anche le reazioni ad altre violazioni dell’immunità consolare, che si possono considerare equivalenti, o addirittura meno gravi di quanto fatto da Israele ed Ecuador nell’arco dello scorso mese. L’assedio e poi l’irruzione di Saddam Hussein in cinque ambasciate occidentali in Kuwait, in seguito all’invasione del paese nel 1990, è stato uno degli elementi chiave che hanno portato all’intervento occidentale sfociato nella Guerra del Golfo. In quest’occasione, il presidente americano George H. W. Bush aveva definito le azioni di Hussein come “oltraggiose” e come “una chiara violazione delle leggi internazionali” che “evidenziava l’atteggiamento brutale dell’Iraq”. Da parte sua, il presidente francese François Mitterrand aveva promesso che “ci sarebbe stata una risposta”. Analogamente, quando nel 1988 il dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenko si è mosso per sfrattare gli ambasciatori degli Stati Uniti e di svariati paesi loro alleati dalle loro abitazioni in un compound diplomatico a Minsk, con la motivazione di espandere il palazzo presidenziale, i governi coinvolti hanno reagito con ira, richiamando i rispettivi diplomatici e minacciando di proibire agli ufficiali bielorussi di viaggiare in Europa.

I casi finora citati sono poca cosa rispetto a quella che è probabilmente la più nota violazione della Convenzione di Vienna. Nel 1979, i rivoluzionari iraniani hanno assaltato l’ambasciata statunitense a Teheran, prendendo in ostaggio gli impiegati presenti nell’edificio. Quest’azione ha rapidamente attirato delle sanzioni da parte degli Stati Uniti e ha trasformato l’Iran nel loro nemico numero, portando le autorità americane a dichiarare che “la brutalità e l’immoralità [del governo iraniano] non conoscono limiti internazionali” decenni dopo l’accaduto.

Iran. Bielorussia. Iraq. In altre parole, i governi attualmente appoggiati dall’amministrazione Biden si stanno comportando come alcuni dei più noti regimi iscritti nel libro nero di Washington – oppure, nel caso di Israele, notevolmente peggio.

La crisi degli ostaggi in Iran dovrebbe quindi rappresentare un promemoria dell’importanza che gli Stati Uniti hanno sempre assegnato al rispetto delle stesse “regole” che i loro due alleati hanno spudoratamente calpestato di recente. Come tutti i loro colleghi, i diplomatici statunitensi rappresentano bersagli facili, che possono essere immediatamente trasformati in ostaggi (nel migliore dei casi), qualora uno stato “nemico” decidesse di essere stufo delle norme internazionali e dei convenevoli diplomatici.

Governi con tali inclinazioni saranno inoltre più propensi a prendere decisioni di un certo tipo nel momento in cui vedono altri paesi violare le stesse leggi, in particolare se questi ultimi sono appoggiati dagli Stati Uniti, senza ricevere alcuna sanzione, o quasi, per i loro comportamenti. Senza dubbio, il tempismo del raid in Ecuador non è una coincidenza. Questo è infatti avvenuto dopo che l’amministrazione Biden non aveva fatto nulla contro il bombardamento israeliano del consolato iraniano a Damasco, dichiarando anzi che avrebbe continuato ad inviare armi a Israele.

C’è un motivo per cui gli Stati Uniti, il Regno Unito e molti altri paesi hanno sempre tollerato l’uso (e anche l’abuso) da parte di stati come l’Iran e l’Ecuador dei loro privilegi diplomatici, per quanto frustrante ciò possa essere. Europa e Stati Uniti hanno fatto affidamento su tali protezioni per i propri diplomatici. Per esempio, quando migliaia di cittadini della Germania Est hanno attraversato la Cortina di Ferro rifugiandosi in ambasciate della Germania Ovest, oppure quando Bush ha garantito al dissidente cinese Fang Lizhi e alla sua famiglia protezione all’interno del consolato statunitense a Pechino subito dopo il massacro di Piazza Tiananmen.

Eppure, l’amministrazione Biden sta ora mettendo a repentaglio normative vecchie di secoli. Non c’è dubbio sul fatto che i governi del mondo abbiano notato il contrasto tra la tiepida disapprovazione espressa da Washington rispetto al raid in Ecuador (“Invitiamo i due stati a risolvere le loro divergenze”) – o, nel caso di Israele, il rifiuto di esprimersi in modo netto sul bombardamento del consolato iraniano – e la ferocia delle reazioni di fronte a violazioni analoghe portate avanti da stati oppositori. In questi casi, le risposte statunitensi sono andate da vementi denunce e sanzioni, a colpi di avvertimento o, di recente, alla richiesta di scuse, come successo durante l’amministrazione Trump nel 2020, quando l’ambasciatore del Regno Unito in Iran era stato brevemente trattenuto.

Per uno stato che si trova sotto l’ombrello di sicurezza statunitense, è naturale vedere tutto questo e giungere alla conclusione: “Probabilmente posso fare qualcosa di simile a quello che Ecuador e Israele hanno appena fatto e farla franca, dato che il Paese più potente al mondo me lo lascerebbe fare.”

I perdenti non saranno solo i paesi che non hanno una relazione forte con gli Stati Uniti. Se gli alleati e gli interlocutori statunitensi non vedono più motivo di rispettare l’inviolabilità delle ambasciate, presto anche gli stati rivali e oppositori inizieranno a pensarla allo stesso modo. E se questo accadrà, gli ufficiali americani non potranno far altro che lamentarsi impotentemente di come tutti gli altri abbiano abbandonato gli stessi principi in cui loro stessi per primi hanno smesso di credere.

Immagine di copertina: photo by Lisa Ferdinando